Ho iniziato La torre d’avorio senza sapere davvero cosa aspettarmi, mi era stato descritto come un romanzo forte, disturbante, emotivamente denso, e in effetti lo è, ma in un modo che va oltre la trama. È un libro che agisce in profondità, che mette in discussione e che obbliga a riflettere sul dolore, sulla colpa, sul senso della cura e sulla fragilità dell’equilibrio mentale. Paola Barbato ci porta nel cuore opaco di un’esistenza spezzata, quella di Mara, e ci chiede di restare lì, anche quando diventa scomodo, anche quando l’istinto è voltarsi altrove.
Mara un tempo si chiamava Mariele Paladini, ha scontato una lunga pena in una REMS per aver avvelenato il marito e i figli, non per odio, ma per un bisogno malato di sentirsi necessaria, indispensabile. Una forma estrema della sindrome di Münchhausen per procura, difficile da comprendere, impossibile da giustificare. Oggi vive a Milano, in un appartamento spoglio e anonimo, ha tagliato ogni legame, anche con i suoi figli sopravvissuti, e conduce una vita silenziosa, lontana dal mondo, come se bastasse cancellarsi per espiare.
Ma qualcosa la richiama indietro, un omicidio avviene nel suo condominio, un uomo viene ucciso con lo stesso veleno, la digitalis, che aveva creato e usato lei, e da quel momento tutto ricomincia a crollare, il sospetto, la fuga, il senso di essere intrappolata in una dinamica che non controlla. Qualcuno sembra volerla incastrare, qualcuno che conosce il suo passato fin nei dettagli; il veleno non è solo un’arma, è una firma, e quella firma è la sua.
Attorno a lei ruotano figure femminili forti e dolorose, come Claudia, la psicoterapeuta che l’ha seguita negli anni, ancora divisa tra il desiderio di capire e il bisogno di proteggersi, e Lea, una madre schiacciata dal lutto per il figlio, congelata in un tempo che non passa. Il romanzo è costruito su queste tre figure, ma si allarga anche alle donne del passato di Mara: Moira, Fiamma, Maria Grazia, Beatrice, compagne di reclusione e, oggi, complici in un tentativo disperato di salvezza.
La torre d’avorio non è un thriller classico, e nemmeno un giallo nel senso stretto del termine, piuttosto è un viaggio psicologico nella mente di donne che sono state distrutte, che hanno distrutto, che cercano un equilibrio impossibile tra il bisogno di espiazione e quello di sopravvivenza. Non ci sono eroine, non c’è redenzione, c’è solo l’incessante interrogativo su cosa resti, quando tutto è stato spezzato.
Barbato scrive con precisione chirurgica, ma anche con empatia, non si concede al pietismo, non cerca scorciatoie emotive, lascia che siano i silenzi, le omissioni, i pensieri non detti a costruire l’intensità. Mara è un personaggio scomodo, difficile da accettare perché non chiede perdono, non si offre in sacrificio, vuole solo scomparire ma qualcuno che agisce nell’ombra glielo impedisce, e nel farlo, la costringe a tornare in scena, a confrontarsi con ciò che credeva sepolto.
Il titolo stesso “La torre d’avorio” diventa metafora della chiusura, della solitudine cercata come unica forma di salvezza, ma anche dell’illusione che basti isolarsi per smettere di fare male. Quando la realtà irrompe, quella torre si incrina, e da quelle crepe entra la possibilità, per quanto remota, di un cambiamento.
È un romanzo che non offre soluzioni perché non cerca il lieto fine, ma accompagna il lettore in un’esplorazione profonda della colpa, della cura, del trauma, e della possibilità di riconoscersi fragili senza per forza essere perduti.
Consigliato a chi ama le storie che non semplificano, a chi è disposto a restare nelle zone grigie, a chi sa che a volte la comprensione passa prima dal disagio.
Titolo: La torre d’avorio
Autore: Paola Barbato
Prezzo copertina: € 20,00
Editore: Neri Pozza
Collana: I narratori delle tavole
Data di Pubblicazione: 29 ottobre 2024
EAN: 9788854530201
ISBN: 8854530204
Pagine: 416
Katia Ciarrocchi
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