“Ho fretta, Michele, da un po’ di tempo ho sempre più fretta e non vado da nessuna parte. Il tempo mi si sfrega addosso con forza, lo sento quando passa, mi scortica, penetra nelle carni e nelle ossa come carta vetrata. Sembra che il mio tempo corra come un treno impazzito. Guarda: la sigaretta appena accesa si è già consumata: è diventata un piccolo pene grigio che penzola dal posacenere. Eppure l’avevo appena accesa, quella sigaretta, ne sono sicuro. Sto male, Michele, sto proprio male. Cosa mi sta succedendo, Michele?”
Questo ti dicevo rannicchiato come un enorme feto nell’utero viscido della tua poltrona di pelle consunta, e ti guardavo seduto sullo sgabello davanti al pianoforte, guardavo le tue spalle enormi, cascanti e, anche da dietro, mi sembravi un Budda strano e panciuto, un monaco con troppi capelli e, come tonaca, una lunga giacca da camera bisunta. Ed ero sicuro che, di nascosto, sogghignavi proprio come un malefico Budda
A volte lo sguardo, seguendo le tue braccia, si posava sullo strumento e mi sembrava che pure quel vecchio pianoforte ridesse di me con tutti i suoi denti ingialliti.
Ricordo che dalla finestra entrava un vento caldo di inizio estate che faceva smuovere appena i fogli e i tuoi spartiti musicali sparsi sul tavolo. Dalla finestra entravano anche i rumori della strada: un cane abbaiava lontano, si incrociavano voci di donne, frammenti di discorsi; il clacson di un’auto si perdeva in un lamento attutito dalla calura mentre quel lungo dito di cenere di sigaretta si incurvava sempre di più sul bordo del portacenere: sapevo che fra un attimo sarebbe caduto ma non volevo scuoterlo. Non volevo toccare l’immagine della mia angoscia.
Forse per rompere il silenzio opprimente che si era creato dopo la mia sfuriata, tu accennasti qualche accordo svogliato al pianoforte. Erano accordi senza melodia, tutti in minore, tristi, quasi funerei, fatti con la sinistra. Poi hai smesso, ti sei avvicinato e mi hai poggiato una mano sulla spalla. Quella manona stringeva i miei muscoli e i tendini intorpiditi, la sentivo calda e sudata, una manona schifosa ma confortante. Dissi va bene, Michele, non preoccuparti, ora passa, anzi sta passando, vedi? è già passato, e tu hai sollevato la mano e mi hai guardato dritto negli occhi. Avevi uno strano modo di fissarmi con i tuoi occhietti semichiusi in una fessura membranosa che, come spilli, mi entravano dentro a scrutarmi l’anima.
– Cosa c’è che non va, fratello? – mi soffiasti all’orecchio.
– Magari lo sapessi, Michele… – sospirai contrito – Un vuoto, ecco, cos’è. C’è un vuoto tremendo che mi risucchia. Lo sento arrivare a tratti, mi prende qui e poi sale qui, qui, qui… – e intanto la mia mano strisciava sullo stomaco, sul petto, sul collo, sulla fronte – e quel vuoto si ferma proprio dentro la mia testa e mi da le vertigini… Oh, Michele, sento che dentro di me qualcosa non funziona… Sarò malato?
Tu alzasti il mento quasi stessi scrutando le crepe del soffitto, poi facesti oscillare il testone per due tre volte e sussurrasti: “vuoto esistenziale”.
Sembrava una sentenza, anzi una condanna, ma detta così, quasi in sordina, non sembrava proprio definitiva. Mi venne spontaneo aggiungere:
– Vuoto esistenziale, dici? Ed è grave?
– Forse no. Dipende. Però bisogna trovare la vera causa del tuo malessere. Che sia il lavoro?
– Quale lavoro?
– Quello che non hai. Sei fuori corso da un sacco di tempo e non fai niente tutto il santo giorno. Perché non metti giù quella maledetta tesi o non trovi un lavoro serio?
Adesso andavi giù pesante, Michele: dovevo ridimensionare la cosa.
– No, non è questione di lavoro – farfugliai – Io ho… insomma… è vero, non lavoro, ma se volessi… io potrei avere un mucchio di cose da fare… Che so… Ricerche, contatti, traduzioni: insomma non è il lavoro che mi manca, se solo ne avessi la forza…
– Quindi non è lo studio, non è il lavoro e neppure il non-lavoro… – muggisti strizzando gli occhietti con fare sornione – L’avevo supposto! Occhèi, occhèi: quindi dobbiamo cercare in un’altra direzione… Soldi?
– Non navigo nell’oro ma, in fondo, non mi lamento.
-E’ vero. Il tuo non è un problema di soldi. Quelli li spremi tranquillamente ai tuoi… Cosa resta, dunque, togliendo i soldi, il lavoro e lo studio?
– Beh…, rimane tutto il resto… – tentai.
– Quale “resto”? – dicesti – E’ troppo generico. La verità è che rimane la sfera affettiva. Ecco cosa resta: restano i problemi d’amore.
– Non ho problemi d’amore.
– Certo che li hai, che diamine! Li nascondi, li ignori, fai finta di dimenticarli, ma li hai. E sono le sofferenze d’amore che ti bruciano l’anima. E quando l’anima brucia che ti succede?
– Che mi succede? – ripetei come un’idiota.
– Te lo dico io che succede: si produce un vuoto dentro; un brutto buco nero che risucchia tutto. Quindi una depressione.
Aggiungesti anche dell’altro, rubacchiando termini medici e paroloni da chissà dove e accompagnavi i passaggi più significativi con movimenti articolati delle braccia e delle mani. Nella foga, anche i riccioli unti dei tuoi capelli svolazzavano in sincronia.
Ad un tratto fermasti quello sfarfallìo di braccia mani capelli e mi dicesti ispirato:
– Sì, sì, tu sei malato d’amore, caro mio! Bruciato d’amore, ecco la causa! Dopo la Lisa…
A quel nome un serpente maligno scattò dentro di me e mi morse. Era come se tu mi avessi conficcato a tradimento uno stiletto incandescente da qualche parte, qui, nel petto.
– Lisa? Che cavolo dici, Michele? Che ti viene in mente, santo cielo? Lisa non c’entra, è passato tanto tempo… E non parlare di Lisa, per favore, non voglio neppure sentirla nominare! Lisa è dimenticata. Lisa per me è morta. Lisa non esiste, se mai è esistita!
Intanto che ripetevo quel nome ero precipitato nel nulla. Vedevo davvero un vuoto dentro di me dove avrei potuto sprofondare e sfracellarmi se non mi scrollavo di dosso tutte le immagini che mi passavano davanti a tradimento: gli occhi grandi di Lisa, i suoi lineamenti delicati, la sua vocina strana e impertinente… Immagini che sapevo ormai perdute per sempre. Inutili. Come sarà adesso? – pensai nell’arco di un secondo, visualizzando una signora ricca e ingioiellata nella sua villa a Recalbuto, una matrona gonfia, triste, rassegnata…
– E, se proprio vuoi saperlo, caro Michele – continuai tentando di allontanare i miei fantasmi – è da un secolo che non la vedo. Da quando si è sposata e hanno messo su casa, a Recalbuto… Magari, chissà, oggi avrà un paio di gemelli attaccati alla gonna!
Tirai su col naso e cercai di calmarmi, dicendo:
– E poi, perché pensi proprio a Lisa? Dopo di lei… uh, uh, sapessi!
– Dopo di lei, cosa…?
Cominciavo di nuovo a innervosirmi.
– Beh, dopo di lei… Elvira, tanto per cominciare: due tette da favola… e poi… e poi… Maura. E Livia?… ricordi Livia, l’estate scorsa, al mare?… un sogno!
– Fesserie! Le tue Elvire, le tue Maure e le tue Livie sono state emerite fesserie! Io ti conosco, caro mio…
A questo punto ero proprio incazzato.
– Ti conosco… ti conosco… ti conosco… Cosa conosci? – sbottai – Se lo proprio vuoi sentirla tutta, io me ne sbatto della tua psicologia spicciola, Michele!
Sì, ero incazzato nero, Michele, ma non con te. C’entrava Lisa, avevi proprio ragione tu. E tu lo sapevi.
Per questo restasti fermo a scrutarmi. Impassibile, proprio come un Budda. Ti aspettavi la mia reazione. E mi sembrò di intravedere anche un filino di pietà in quello sguardo.
Dietro di te il pianoforte continuava a sogghignare maligno con la sua bocca enorme, piena di denti gialli e quella sera ho odiato anche quello strumento e gli spartiti con le tue strane incompiute che veleggiavano sul tavolo ingombro; ho odiato la tua pietà, la tua testardaggine, e quella schifosa curiosità da medicastro e psicologo dilettante che ti ritrovavi.
Ma soprattutto ho odiato il fatto che avevi ragione.
* * *
Sì, Michele, avevi colpito nel segno: c’era un vuoto dentro di me e quel vuoto mi risucchiava proprio come un buco nero e aveva un nome: Lisa. Erano gli occhi enormi di Lisa, che mi mancavano, le sue mani nervose, la sua vocina un po’ fessa ma dolce, quel suo modo di camminare dinoccolato, da anatroccolo e quel suo corpicino da donna appena sbocciata. Tutte queste cose le avevo accuratamente archiviate ma mi mancavano da secoli.
Ed era sua quella voce che tu avevi risvegliato e che ora mi rimbombava dentro, in un antro cupo. La stessa voce che sentivo a volte nel dormiveglia, con quelle parole quasi balbettate nel pianto, il giorno che mi disse addio.
“Lasciamo stare”, mi disse, “Basta giocare. Non ti sei accorto che ormai siamo cresciuti?”. Proprio così, mi disse, e ribadì: “Basta giocare”. Poi, continuò, lasciando scivolare due lacrime nel rimmel: “Non è cosa. Tu non mi capisci, non mi hai mai capita, non ci hai nemmeno provato. Noi due insieme? Due infelici. Ecco cosa saremmo: due poveri infelici! ”
Roba così, mi disse, strizzando gli occhi e tirando su con il naso. Si sforzava ancora di piangere, ce la metteva tutta, ma non ce la faceva.
Ma io lo sapevo che c’era dell’altro nell’aria e che in quell’aria viziata fluttuava un nome e un cognome ben preciso. Un cognome bello e altisonante. E, assieme al cognome, si profilava una grande villa a Recalbuto, con uno stemma di baronìa in ferro battuto sul cancello principale, che sarà stato pure un filino pacchiano e fuori moda ma uno stemma di baronia è pur sempre uno stemma…! E poi: aria buona, e soldi. Uh, tanti soldi! Altro che musica e parole, altro che speranze e incerto futuro…
* * *
Sì, quella sera ti ho proprio odiato, Michele, per tutte quelle immagini e per i ricordi che mi avevi riportato alla mente e stavo per svincolarmi da quella poltrona sfondata per andarmene via. Pensavo che avrei pure sbattuto la porta per un’uscita ad effetto, quando tu dicesti:
– Non è più a Recalbuto.
– Cosa?! Chi?
– Stavamo parlando di Lisa, mi pare. Bene: lei è qui… E’ tornata a Catania.
– A Catania? Che ne sai tu? E poi… cosa vuoi che me ne importi, ormai?
– D’accordo: a te non importa, ma io te lo dico lo stesso. Lisa è a Catania, da sola. Niente marito, niente gemelli attaccati alla gonna, niente figli. Se vuoi, la puoi incontrare alla Rinascente di Via Etnea. Zona profumi, se non l’hanno spostata di reparto.
Eri amico dell’Avvocato Bignami e quello era un chiacchierone nato, al diavolo il segreto professionale. Così, tuo tramite, seppi tutto di Lisa: del crollo finanziario del marito, delle beghe politiche, di brutte storie di ipoteche e di vendite all’asta. Seppi anche di separazioni legali e di attese di divorzio. Seppi una sporta di miserie familiari.
E, mentre ti ascoltavo, lei era lì, in mezzo a quelle storie, tornata intatta tra gli sfondi di mille arcobaleni. Era lì, tra i riflessi dei lampioni nelle strade bagnate, tra luna e sole, con i verdi, i marroni, i bianchi, i neri che ci avevano fatto da fondale per quasi tre anni. E sorrideva sempre con quel suo sorriso da ragazza-bambina. Vedevo come in sogno le sue disavventure familiari scivolarle addosso senza neppure toccarla; l’avvocato Bignami non esisteva, Recalbuto non esisteva, non esisteva il marito nè la baronìa, non esistevano ville e divorzi. Non esisteva neppure il tempo. Oppure era ritornato indietro, il tempo, per noi due, come un film alla moviola.
* * *
Quando me ne andai, quella sera, non sbattei la porta. Anzi dovevo apparirti proprio come un cane bastonato: strascicavo i piedi, un passo dietro l’altro, da vecchio. La mia ansia si stava davvero tramutando in depressione.
Ero quasi in fondo alle scale quando tu ti affacciasti alla balaustra. Eri di nuovo il Michele di sempre: dal basso vidi il tuo faccione e la massa dei capelli scarmigliati che oscillava ad ogni movimento. Dicesti:
– Ricordati: La Rinascente, Via Etnea, reparto profumi…
Tentai di lanciargli uno sberleffo, una parolaccia, ma non ci riuscii.
* * *
Per un giorno restai rintanato in casa. Fingevo con me stesso un diffuso malessere. Davanti allo specchio, in bagno, tiravo fuori la lingua e dicevo: “bianca”. Altro che ansia e depressione: qualcosa m’ha fatto star male. Cosa ho mangiato di recente?
L’indomani non volli più fingere e andai alla Rinascente.
Per strada mi crocchiavano ai piedi le scarpe nuove e la camicia sapeva di colonia. Avevo provato davanti allo specchio l’espressione più giusta per un incontro fortuito e ora la riprovavo specchiandomi nelle vetrine dei negozi: sopracciglia tirate in su, occhi mobili, attenti, interessati. Aggiunsi un sorriso leggermente beffardo e, per buon peso, un filino di noia.
E con quella espressione truccata varcai le porte del negozio e la vidi quasi immediatamente. Stava dietro un banco di vetro e acciaio su uno sfondo di specchi concavi e bottigliette colorate, inguainata in una gonna nera sormontata da una camicetta azzurra con il colletto bianco.
Era una bella donna e aveva le fattezze di Lisa; forse era ancora più bella di come appariva nei miei sogni e nei ricordi, ma non era la mia Lisa. No, no, dannazione, non era più la mia Lisa!
E non per le poche rughe ai lati delle labbra o per la pettinatura diversa o per la tenuta da commessa. Non per lo sguardo attento, per l’atteggiamento più maturo… O, chissà, forse per tutte queste cose assieme e per qualcos’altro ancora… Era… era… Maledizione, era proprio diversa!
Lei non mi vide: parlava con una cliente e sorrideva mentre io sentivo crescermi dentro una marea che forzava gli sbarramenti che avevo costruito. Un’onda lunga, formata da mille sensazioni nuove dilagava nello spazio vuoto, lo copriva, si ritraeva e lasciava tendini e nervi a strisciare sui ciottoli aguzzi della delusione.
Volevo scappare inosservato, ma lei mi vide. Non sorrideva più. Non so se la mia espressione truccata reggeva ancora quando, da lontano, agitai veloce una mano, con finta aria sorpresa, in un saluto che voleva essere sbarazzino, allegro, insomma, un saluto di circostanza, di vecchi amici.
Solo quando si liberò dalla cliente mi avvicinai e riuscii a dire d’un fiato, accavallando le parole:
– L’azzurro e il bianco ti donano, Lisa.
I suoi grandi occhi si spalancarono.
– L’azzurro e il bianco sono imposti dal regolamento di negozio. Non è merito mio. E tu, come stai?
Dopo un poco, suoni e sillabe coordinate solo dall’abitudine vagarono nell’aria, si incrociarono mulinando tra confezioni di profumi e dopobarba, si spezzarono riflesse da specchi colorati e quella donna estranea e imbarazzata che pure si chiamava Lisa mi apparve in tutta la sua realtà: sì, c’era qualcosa, una piccola cosa che ancora rimbombava dentro di me ad ogni sua parola, ad ogni sguardo; forse un’eco di cose note, di luci, di colori e ombre di giorni lontani che mi appartenevano. Ma era solo un’ombra debole, distorta…
Ebbi di nuovo fretta, Michele. Sì, fretta di andarmene da quel negozio, di fuggire da quella bella signora quasi sconosciuta che stava frantumando, impietosa, i miei ricordi.
Eppure… eppure… in quella fretta c’era anche qualcosa di nuovo: me ne accorsi mentre la salutavo e l’abbracciavo come una cara amica ritrovata e, tutt’a un tratto, mi sembrò di capire qualcosa, e in questo barlume di nuova coscienza, intravidi uno spiraglio per evadere finalmente dall’angoscia e ritornare ad essere me stesso.
* * *
– Com’è… anzi, come sarà la nostra estate, Michele? – Ti chiesi qualche giorno dopo.
Tu scrollasti il testone riccioluto e mugolasti:
– Beh, ci siamo quasi. Non sono un metereologo, ma secondo le ultime previsioni…
– No, no… non parlavo del tempo, Michele. Rifletti: cos’è un’estate? Attimi di caldo cielo mare nuvole rosate… attimi che sembrano infiniti mentre guardi, sugli alberi e sui prati, un verde intenso, lucente, pieno di vita… il verde smeraldo della nostra vita!
– Embé?
– Io non sapevo di esserci, Michele.
– Dove?
– Nella mia estate! Continuavo a rincorrere immagini retiniche di mie vecchie primavere, che non esistono più. Ti eri sbagliato, Michele: non ero caduto nel vuoto d’amore, come lo chiami tu, ma nel mare di erba di una vecchia primavera che rischiava di soffocarmi…!
– Quale mare d’erba? – dicesti perplesso.
– Quello in cui il verde è più chiaro, quello dell’erba e delle foglie tenere… Non ricordi più quel verde, Michele? Hai ragione, ne è passato del tempo… Fai bene a dimenticartene. Bene, io, invece, c’ero proprio rimasto attaccato come una blatta sull’erba. Ecco perché vibravo, mi divincolavo: proprio come una blatta, un moscone impazzito legato dal vischio. E avevo fretta di vivere, capisci?, volevo fuggire da quel verde chiaro primaverile… un verde falso! E volevo vivere il mio verde smeraldo, volevo vivere la mia estate, e non ci riuscivo!
– Verde chiaro… verde smeraldo?
– Sì, sì!… E, se so tutto questo, lo devo a te perché l’ho scoperto proprio alla Rinascente, reparto Profumi, tre giorni fa. Grazie, Michele.
– Grazie… a me?
Hai serrato le palpebre e sei rimasto a lungo così, Michele, il capo poggiato sullo schienale della poltrona, le mani a palme aperte sulle gambe: a dispetto delle apparenze non stavi dormendo, infatti ad un tratto socchiudesti le palpebre e sospirasti, in mezzo a uno sbadiglio:
– Zona Profumi… La Rinascente… E così hai lasciato laggiù i tuoi verdi pallidi, le tue vecchie primavere?
– No, Michele. Li ho qui, con me. Qui dentro. Tutti… – dissi battendomi un dito sulla fronte – Ma sono solo ricordi. Belli o brutti, non importa. Solo ricordi. Ma non voglio più restarci imprigionato… mai più!
Hai continuato a fissarmi e il tuo ghigno sonnolento si è trasformato pian piano in un sorriso sornione, uno di quelli che sei solito fare quando sei quasi completamente sveglio. Poi hai detto:
– Se i tuoi pazzi giochi cromatici vogliono dire quello che penso, allora bisogna stare all’erta: chissà se anche questi tuoi “verdi smeraldo”, come li chiami tu, i verdi dell’estate, quelli di oggi insomma, possono essere verdi ingannatori… Anche loro, un giorno, trascoloreranno nei colori forti dell’autunno, e avvizziranno come foglie morte nell’inverno… Credi che lo capiremo in tempo?
– Non lo so, Michele, non lo so… Ma, adesso, perché pensarci? Adesso godiamoci l’estate!
(Dalla raccolta “Caro Michele…”)
Enzo Maria Lombardo
Michele continua ad essere il subcosciente, l’eminenza grigia a cui si aggrappa la voce che racconta. Ricordi suggestivi che marcano la differenza del maschile dal femminile. Da un lato la donna in grado di cambiare il mondo lasciandosi dietro le zavorre del passato con più facilità e naturalezza. Dall’altro l’uomo, il sesso chiamato forte, che si rivela debole, spesso succube del vuoto di quello che gli è sfuggito. Si vede perdente e può solo riscattarsi quando confrontato alla realtà che lui provava a scolpire nel granito, riesce, dico riesce, a riconoscere ed accettare che essa ormai NON È. Ottima scrittura, stile scorrevole.