Lo sguardo solleva il corpo e ogni sguardo si posa nello sguardo dell’altro. (Pascal Quignard, Vita segreta, 1998)
Ciò che accade ogni giorno e ciò che ritorna ogni giorno: il banale, il quotidiano, l’ovvio, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, il consueto. Come possiamo spiegarlo, come possiamo metterlo in discussione, come possiamo descriverlo? (Georges Perec, L’infra-ordinario, 1989)
Sono fuori con le lanterne/ alla ricerca di me stessa. (Emily Dickinson)
Era in ricerca di sé stessa Vivian Maier, come suggerisce la meravigliosa intuizione poetica della Dickinson (1830-1886)? Anche, ma non solo. Peraltro non è azzardato instaurare un paragone fra la poetessa di Amherst e una delle massime interpreti di sempre della street photography. Entrambe con il proprio patrimonio creativo coltivato sostanzialmente in segreto e come tale mantenuto.
Gli stupendi ambienti del Belvedere, nella Villa Reale di Monza, ospitano un’imponente mostra dedicata alla fotografa, che agì all’insaputa del mondo fino alla sua morte (e anche ben dopo) avvenuta nel 2009. Fu John Maloof, studente chicagoano, a scoprire in un box colmo di cianfrusaglie, già appartenuto alla Maier e da lui acquistato all’asta, un incredibile archivio, in innumerevoli scatoloni, di 150.000 (!) negativi. Da allora si sarebbe dedicato alla promozione dell’opera della Maier co-dirigendo anche un documentario, candidato all’Oscar, Finding Vivian Maier. E per colei che era figlia di un austriaco e di una francese sarebbe stata la meritata fama mondiale.
L’allestimento del Belvedere consta di più di 200 stampe a colori e in b/n, oltre a registrazioni audio originali, con la voce della fotografa, e filmati Super 8. Un viaggio, attraverso uno spettacolare universo di immagini dalle infinite suggestioni, work in progress dalle innumerabili sfaccettature e scelte: tecniche, estetiche, esistenziali.
Le foto di Vivian non recano, perlopiù, indicazione di data e di luogo (sebbene le città siano, in definitiva, New York e Chicago), perciò, pur essendo documenti dello hic et nunc, conservano un alone di mistero e atemporalità.
Alcune immagini erano senza dubbio state carpite all’insaputa dei soggetti ritratti, altre invece erano prese con una sorta di complicità emotiva. Nel segno della curiosità, uno studio antropologico e psicologico, senza ismi.
Coppie a spasso per i trafficati o deserti sentieri metropolitani. Bambini, tanti, in tutte le loro dimensioni, pose, atteggiamenti, espressioni: di stupore e gioco o tristezza, corruccio, piccole gioie e giocattoli, pianto (del resto la professione esercitata dalla Maier per campare era quella di bambinaia o istitutrice). Un umile venditore di palloncini. Eleganti e raffinate signore a passeggio. Mani grinzose, che stringono e che si stringono; nuche; acconciature; scarpe; gambe tornite e altre grosse, stanche, e piedi senza corpo; ombre. Un signore in equilibrio sulla sedia che osserva lo scorrere, ancora pacato, della via. L’incredibile scatto con la didascalia in vetrina, sotto, Everybody loves a big mouth: una donna dalle cui labbra aperte fuoriesce una lingua smisurata, ambiguo richiamo e invito ai passanti. Marinai in un luogo d’attesa, quasi investiti dai fasci di luce che piovono dalle vetrate poste in alto, una sorta di profana teofania. Una foto, altrettanto straordinaria, dove un palloncino sostituisce il volto del (non) raffigurato, mentre il bambino, tenuto in braccio, tenta di afferrare invano il palloncino che riporta la scritta Central Park Zoo. Un uomo che su una panchina, il capo riverso, dorme a bocca spalancata. E un altro sonno che si confonde con un grido strozzato (non pochi soggetti sono ripresi mentre dormono, ignari d’essere guardati e immortalati, nella città ignara). Una coppia, lei appoggiata al muro di un edificio, all’interno del cui spazio non si comprende se è in corso un litigio o è il segnale di un’attrazione amorosa, mentre un’altra coppia passa azzimata e, in apparenza, indifferente. Una corpulenta donna armena che discute animatamente con un poliziotto. La parata degli astronauti dell’Apollo, in cui si vedono però solo coloro che vi assistono o l’attendono (l’eroismo dell’anonimo?). Volti all’interno dei mezzi di trasporto. Paesaggi di desolate macerie, quasi rivelazioni metafisiche. Gli autoritratti, anticipatori dei contemporanei selfie. La Statua della Libertà in diminutio, quasi demitizzata. Le immagini giocando con gli specchi. Serie di scatti ripetuti a simulare il movimento, un’esperienza similcinematografica. E nature morte di oggetti e bottiglie. Primissimi piani dove i contorni spariscono e gli oggetti paiono divenire altro da quel che in origine erano, virando verso l’astrazione pura. La geometria delle finestre. Anche qualche foto francese.
“VM, scrutatrice urbana, si addentra nel cuore pulsante della città. Il suo obiettivo, come un bisturi delicato, seziona la realtà quotidiana, rivelando l’essenza dell’umanità in attesa. Cattura anime sospese nel limbo urbano: figure immobili nel flusso incessante della metropoli. Ogni scatto è un’ode agli esclusi, ai sognatori, agli osservatori silenziosi. […] Maier svela l’invisibile, trasforma l’ordinario in straordinario. Ogni sua fotografia è un invito a esplorare l’enigma dell’esistenza urbana, a decifrare il codice segreto dei gesti quotidiani. In questo teatro di ombre e luci, Maier ci sussurra: ogni istante è l’incipit di un racconto infinito…”
Ne aveva percorsa di strada la giovane che nel 1952 aveva comprato una Rolleiflex (ma usava anche una Leica 35 mm), per cominciare a scattare, a scattare… più fotografie di quante fosse in grado di sviluppare. La sua camera oscura era nel seminterrato della casa di Chicago in cui abitava e lavorava (11 anni) per la famiglia Gensburg.
Nella sua “ansia” di riprodurre, catturando gesti e caratteri, cominciò, nel corso degli anni Settanta, anche a registrare con un dispositivo a nastro. Un “gioco” in continua evoluzione. Un documentarismo poetico.
“Vivian Maier, una fotografa silenziosa che usava la sua macchina fotografica “all’altezza del cuore come un talismano” per trovare il suo posto nel mondo.”
Otto acquerelli di Nicola Magrin – già illustratore per i libri di Paolo Cognetti, Jack London, Primo Levi, Tiziano Terzani – in formato quadrato come omaggio all’arte fotografica di Vivian Maier, una sorta di eco pittorica della sua Rolleiflex, introducono all’esposizione.
C’è qualcosa nello spirito umano che sopravvivrà e prevarrà, c’è una piccola luce brillante che arde nel cuore dell’uomo e non si spegnerà, per quanto buio sia il mondo. (Lev Tolstoj, La sonata a Kreutzer, 1889)
Alberto Figliolia
Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier. Mostra realizzata da Vertigo Syndrome in collaborazione con diChroma photography e con il patrocinio del Comune di Monza. A cura di Anne Morin. Belvedere-Reggia di Monza, viale Brianza 1. Fino al 26 gennaio 2025.
Info e prevendita: www.vivianmaierunseen.com e www.reggiadimonza.it.
Orari: mer, gio, ven 10-19 (ultimo ingresso ore 18); sab, dom 10,30-20); lun, mar chiuso.
Festivi 8, 26 dicembre 10,30-20; 30, 31 dicembre chiuso; 1, 4, 5, 6 gennaio 10,30-20; 2, 3 gennaio 10-16.

