L’autobus ha fatto solo due fermate. Un vecchio, seduto in uno dei sedili di mezzo, borbotta apposta a voce alta sventagliando un depliant colorato. Poi sbotta dicendo che la toletta chimica doveva esserci a bordo. Se è fuori uso, maledizione, che si fermassero più spesso o l’avrebbe mollata nei calzoni, quant’è vero Iddio.
“Zitto maiale” – E’ una voce di donna. Balenano tra gli schienali riccioli bianchi-azzurri e tintinnano bracciali e orecchini.
L’autista ha sentito. Ha sentito anche l’hostess di bordo: si alza dal sedile con un unico movimento fluido e svolazza nel corridoio tenendo in mano il microfono. La gonna rossa oscilla sulle lunghe gambe come una corolla.
Il suo viso da bambola s’illumina di un sorriso tutto denti mentre annuncia la prossima sosta. Quindici minuti all’autogrill. Non sono poi tanti quindici minuti.
Giusto il tempo di illustrare le caratteristiche di un meraviglioso servizio da cucina. Alcuni pezzi sono già sopra un tavolinetto, nel corridoio, incastrato da due poltrone e coperto da un panno azzurro sulle cui sponde ondeggia, in oro, il superbo logo della Starlux. Sul panno navigano, splendenti, alcune pentole d’acciaio.
Una padella, la più bella fra le padelle mai costruite, la più amata dalle massaie di tutto il mondo, è già fra le sue mani. La stringe al petto, tenendola per il manico d’ebano. La rigira fra i seni facendo pregustare le delizie di una nuova maternità tecnologica. Le lunghe mani bianche ornate d’unghie di corallo accarezzano ogni curva del lucido metallo, lampi di rosso e d’azzurro si riflettono negli specchi d’acciaio, la conca antiaderente diventa una coppa di delizie.
Poi offre la padella, come un frutto d’amore. La porge a chi le sta vicino, assieme a lunghi depliant e moduli precompilati. La padella passa di mano in mano.
Intanto campi assolati scorrono dal finestrino, si srotolano come tappeti dai colori bizzarri; guizza veloce qualche traliccio, qualche fabbricato. Più avanti una lunga teoria di capannoni con piazzali deserti. Il mondo è piatto, verde e giallo con sfumature bianco-azzurre di lontani monti all’orizzonte. Sembrano irreali, quei monti, così eterei e traslucidi, confusi con le nuvole.
Oltre il fossato che delimita l’autostrada corrono quadrati di terra, marroni e gialli, s’intrecciano veloci, in un gioco di prospettiva, sul restante verde dei campi, a tratti sembrano sovrapporsi, slittare come grandi fiches gettate con furia sul tappeto di un tavolo da gioco. Più lontano, dove tutto appare quasi fermo, ruotano pigri i terreni con i loro aratri, i rotoli di fieno, le mucche al pascolo, i recinti dei cavalli.
E’ già passata mezz’ora: l’hostess aveva detto una pietosa bugia. Qualcuno lo fa notare e allora lei solleva le braccia, desolata: le bianche mani con i preziosi puntali di corallo si allargano nell’aria e nel gesto i seni tendono la camicetta. La bocca, anch’essa in tinta, disegna un cerchio piccolo e perfetto da cui s’affacciano denti bianchissimi. Tutto induce al perdono anche se si avverte sempre più forte un odore acre provenire dalle ultime file e qualcuno borbotta che è immorale approfittarsi così dei vecchi incontinenti e delle vecchie signore.
Gli occhi assonnati dei passeggeri seguono solo in parte le nuove meraviglie di una pentola a pressione a tripla dispersione di calore. In effetti, sembrano distratti e preferiscono seguire il filo del gard-rail.
Ora qualche testa già ballonzola sul petto, anche i miei occhi tendono a chiudersi; una parte di me vorrebbe che il viaggio non finisse mai; vorrei dormire, così, con il capo sul poggiatesta, con nelle orecchie la voce sempre più rauca e lontana della hostess mista al ronzio del motore e al sibilo delle ruote.
Quando l’autobus si ferma all’autogrill mi accorgo di aver dormito e vorrei dormire ancora. Mi sveglia del tutto l’altoparlante nascosto sul tetto.
Solo i più vecchi sono ben svegli, accalcati alle portiere; sembrano possedere una vitalità nuova, scendono la scaletta con gli occhi sbarrati, alcuni toccano terra in un sol balzo, corrono e si disperdono tra le macchine in sosta alla ricerca della toilette.
Restano nei sedili di mezzo, nell’autobus ormai vuoto, un ragazzo e una ragazza.
Tengono gli occhi chiusi, fingono di dormire.
2) Il chiosco delle bibite
Alla stazione degli autobus l’hostess ci abbandona. Un ultimo sorriso e siamo ormai orfani con quattro intere ore di vuota libertà. La guardo allontanarsi sul piazzale assieme all’autista; le lunghe gambe assorbono il sole e gli sguardi. In cima ad esse la rossa corolla oscilla in modo meravigliosamente osceno.
Per farmi male immagino il piccolo albergo dove fra poco quelle lunghe gambe riposeranno, immerse nell’aria condizionata. Mi distruggo pensandole aggrovigliate fra quelle tozze e pelose dell’autista.
Il caldo acuisce la sete e il dolore dell’anima, ma il chiosco delle bibite della stazione è assiepato di gente. Chi sta dietro valuta la possibilità di insinuarsi nei varchi lasciati da chi abbandona il banco di marmo.
In cima alla fila, proprio davanti al banco, una donna ordina una bibita: parla con enfasi, senza fretta. Da dietro si vedono i suoi capelli legati a coda di cavallo scuotersi al ritmo delle lente parole. Sono capelli stopposi. Biondicci. La donna ruota la testa prima da un lato e poi dall’altro. Sembra osservare un improbabile panorama, mentre, svogliata, allunga una mano per tirar fuori un paio di cannucce da un contenitore. La vedo di profilo: il viso affilato, occhiali, l’aria soddisfatta e saputa di chi ha finalmente conquistato qualcosa. Guizza un sorriso di vittoria nel viso scarno e rugoso.
Attorno e dietro di lei la gente mormora. Il sole già scotta e quei bicchieri appannati sembrano sempre troppo lontani.
Il mormorio sale. Mi sta accanto un tizio magro con un viso grigio, malato. Lo avevo appena notato sull’autobus. Ora mi sento accomunato a lui dalla stessa posizione nella fila. Siamo fratelli, fusi dall’odio sottile per quella donna i cui capelli biondicci e stopposi continuano ad oscillare lentamente tra le altre teste.
Sì, sento che posso amare questo tizio dal viso malato. Lui capta l’onda d’affetto e mi guarda dritto negli occhi, mugola qualcosa sul conto di quella donna, la indica sollevando più volte il mento puntuto, apre e chiude le mani nervose stringendo la cinghia della sacca sul petto.
Credo di capire cosa rappresenti quello stringere e tirare. Io annuisco, tento di mugolare qualcosa in risposta, anche altri entrano nella nostra strana conversazione da muti, i mugolii aumentano, qualcuno scuote la testa, altri fanno piccoli gesti d’intesa; s’odono parole sussurrate, si incrociano sorrisi. Nasce una comunità nuova, una nuova solidarietà, un flusso d’amore. E tutto quell’amore produce qualcosa: uno strale d’odio, quasi palpabile, attraversa l’intera fila, vibra, si incunea fra le teste e le spalle, fino a posarsi sul collo di quella donna.
La coda di cavallo ha un sussulto, ha sentito qualcosa. La donna si scuote, si allontana dal banco ballonzolante, come colpita a morte.
Il vuoto lasciato dalla donna provoca un varco inaspettato tra la folla. Si vede già il bancone umido. Si vedono i bicchieri colorati e rugiadosi. Basterebbe uno scarto a destra. Un piccolo scarto. Magari con un mezzo sgambetto al tizio dal viso grigio e malato che mi sta accanto.
Penso che devo far presto e, mentre penso, vedo che il tizio dal viso grigio e malato fa un lungo passo in avanti, deciso.
Poi gli vedo assumere la posa tranquilla e un po’ annoiata di chi è quasi arrivato in vetta e vuol restare solo, in armonia con il mondo e con i suoi pensieri.
Ora i nostri sguardi non possono più incrociarsi. Il mio sorriso si spegne in un cipiglio astioso. Non c’è più amore dentro di me. Lo odio.
3) Il ponte
Sul ponte la gente s’accalca nei marciapiedi, qualcuno scende sulla carreggiata supera la folla camminando tra le macchine.
Non c’è pericolo, le auto vanno piano, soffiano fumo, sono in fila, a passo d’uomo. Posso anche passare tra una macchina e l’altra, se voglio, e molti lo fanno, attraversano sperando di trovare più spazio dall’altra parte del ponte.
Tento di schivare, scendere sulla strada. Urto braccia, pacchi, borse, mi trovo davanti gli occhi severi di chi non sopporta d’essere toccato da sconosciuti, qualcuno controlla il suo portafogli nella giacca o nei calzoni.
Le macchine fotografiche e i binocoli oscillano sul petto come campanacci, c’è chi tiene in mano la videocamera e tenta di riprendere qualcosa sul fiume, spostandosi a fatica vicino al parapetto, tenendo l’apparecchio in alto, sopra le teste e i cappelli. Ci sono lucine che ammiccano, le videocamere stanno registrando: forse domani, alla tivù di casa quei tizi vedranno capelli e orecchie oscillare in primo piano, e il fiume e le barche saranno contorni sfocati e lontani.
A metà del ponte, sul lato sinistro, c’è un vuoto. La folla fa un’ansa, sono molti quelli che scendono dal marciapiede, da lontano sembra un vuoto ma qualcosa deve pure esserci che intralcia il cammino. La curiosità lotta con il fastidio: sarà un mendicante o un suonatore di flauto? Forse uno zingaro con le carte e l’uccellino?
Non si sente niente, non c’è musica di flauti, non ci sono voci che superano il brusio, bisognerebbe spostarsi troppo verso il parapetto ma così rischierei di restare intrappolato nell’ansa, per cosa poi? Magari sono solo lavori su un tombino aperto.
Eppure… eppure… sì intravede qualcosa guardando tra lo sforbiciare di gambe nude, gonne, calzoni, subito coperti da altre gambe, gonne, calzoni.
A terra, c’è un tizio. Oddio, qualcuno si è sentito male.
In effetti, dirottando l’attenzione su un lamento appena udibile sopra il brusio, credo che si stia avvicinando un’ambulanza. La sirena lontana singhiozza invocando un passaggio. A volte il suono sembra più vicino, poi quasi scompare, avvolto e sconfitto dal fumo di chi imballa il motore in folle.
Un tizio con la videocamera continua ad inquadrare dall’alto. Magari lui ha visto qualcosa sullo schermino colorato: adesso si allontana deluso e trascinato dalla folla e punta l’apparecchio da un’altra parte, lo punta in alto verso il cielo, poi verso le case che s’intravedono oltre il ponte, lo ruota a destra e a sinistra con inquadrature lunghe.
Oltre le teste si vedono solo le sue braccia rosee e coperte di una peluria bionda. Li tiene distese verso l’alto, pronte ad offrire al cielo l’apparecchio lucente, quasi invocando un qualche dio elettronico.
Mi ripeto che non vale la pena di affannarsi, tentare di superare qualcuno, zigzagare tra la gente. Il caldo invita alla pigrizia, meglio fare corpo con la folla, diventare parte di essa, annullarsi nel suo scorrere lento, immergersi nel fiume dei corpi, assonnarsi al mormorio indistinto delle voci, magari socchiudendo gli occhi per evitare il riverbero accecante. Le spalle di chi sta davanti diventano facile panorama.
Forse fra poco, uscendo dal ponte, la folla si diluirà, meno densa, nelle strade, creerà tanti rivoli colorati nei vicoli, in parte sarà assorbita dai negozi. Solo qualcuno si avventurerà nelle strade in salita, riportate senza enfasi sulle mappe, nelle strade senza monumenti, con pochi negozi, stranamente deserte. Ci sono sempre di queste strade dimenticate in ogni città, chi vi si avventura è come una molecola impazzita, pronta ad evaporare sul selciato rovente.
Il ponte ora è in discesa, in fondo si vedono meglio le facciate dei palazzi e delle chiese: mi sembra quasi di poter toccare le grosse cupole dorate dal sole.
Si vede ancora il fiume, da qui. Sull’acqua scintille di luce si perdono nella nebbia della calura. Anche le poche barche dondolano assonnate vicino agli argini. Lasciano spazio ai vaporetti che scivolano sul fiume senza voce. L’acqua passa in silenzio tra pali e pontili: lo sciacquio è assorbito dai rumori delle macchine.
Solo le scintille di luce, riflesse dall’acqua, evidenziano il movimento. Il loro riverbero mi ferisce gli occhi, mi sveglia, frustate di luce mi incitano a vincere la pigrizia, a guardare oltre il ponte con furia, con ansia golosa, per non perdere niente. Non devo lasciare agli altri gli scorci memorabili. Adesso anch’io voglio memorizzare tutto, tutto assorbire. Anche le barche lontane. E le case sull’argine opposto. E i vaporetti con i ponti pieni di gente e loro piccole scie lucenti. Tutto dovrà entrare nella mia memoria così come entra nella memoria elettronica della telecamera. Devo approfittare subito della posizione elevata: più in basso non si vedrà così bene, il fiume sparirà sommerso dalle case.
Fiume sotto e fiume sopra. Il fiume di gente è adesso disordinato e implacabile: vorrei fotografare ma vengo sospinto dalla folla, non posso soffermarmi.
C’è un tizio, laggiù, che sale sopra il parapetto. E’ giovane, sta in bilico sul piedistallo di una statua, lo zaino sulle spalle, una coperta arrotolata penzolante dalle cinghie. Per un attimo penso che quel ragazzo rischia di cadere in acqua. Fatti suoi. Molti lo guardano, forse gli invidiano il posto e l’età, ma fanno finta di niente: passano avanti, ci sono altre statue, altri piedistalli ma nessuno s’avventura.
La folla continua a scorrere lenta nei due marciapiedi del ponte, deborda sulla strada, le macchine strombazzano nervose, qualche ventola ronza cupa per raffreddare il motore.
Sento avvicinarsi un frastuono strano fatto di musiche diverse: canzoni, ritmi, tamburi. Qualche gorgheggio, vocalizzi.
Qualcuno tiene il volume elevato: un paio di macchine hanno i finestrini abbassati. Si vuol far notare lo stereo, la potenza dei bassi, ma ne avranno per poco: c’è un divieto, laggiù, svolta obbligata, parcheggio a pagamento. Le auto stanche e accaldate riposeranno per un po’ nelle schiere, una accanto all’altra, le ventole smetteranno di girare, gli stereo taceranno.
Scivolando come una boa trainata da una fune invisibile, una piccola bandiera rossa triangolare sventola attaccata ad una lunga asta. Supera le onde di teste, di cappelli e ombrellini. Si crea una corrente diversa, anche il colore è diverso: c’è qualcosa che accomuna il gruppo, calzoni corti, camicie a quadri, cappellini gialli: la bandiera ne comanda il cammino; la nuova corrente, sottile come una striscia, scorre nervosa in mezzo alla folla, non si amalgama, non si diluisce, resiste alle pressioni e agli sbandamenti, miracolosamente si insinua fra la gente, la bandiera prosegue fino in fondo al ponte, gira sulla destra.
Ancora qualche metro, in discesa. Sento i piedi carezzare il selciato con passi sempre più corti. Si è quasi fermi, c’è un ingorgo tra macchine e persone, lo scalpiccio dei passi è ora coperto dalle voci: “Dove sono i vigili?”; “Perché non chiudono il centro?”; “Ma è una vergogna!”
Ed attorno ancora voci e voci, qualcuna più acuta, isterica, si alza sulle altre pronta a ferire, si lancia sul rumore, copre la cacofonia delle note mescolate, vibra sulla folla.
– “Cosa è successo, perchè ci fermiamo?” – “Non si vede niente!”.
Una voce isterica, acuta, si alza sulle altre, le copre: – “Te l’avevo detto io! Vuoi sempre aver ragione tu! Tenta almeno di andare avanti, cretino! Sembri una statua di sale!”
La bandiera si intravede a stento, si vedono ancora alcuni cappellini gialli: sono gli ultimi turisti della fila, la loro camicia a quadri è sudata, si guardano attorno smarriti: dov’è la bandiera?
Tengono in mano le mappe inutili, stropicciate, qualcuno sfoglia veloce un dizionario tascabile, qualcun altro si alza sulle punte, gli occhi sgranati, impauriti, in cerca dell’accompagnatore. La piccola bandiera rossa non si vede più.
4) L’hostess
Il ponte è finito, la marea umana si allarga, dilaga, prosegue nel viale; a destra e a sinistra si aprono stradine alberate. Ne scelgo una. Non è la più ombrosa ma è quasi deserta.
Il caldo aumenta. Le chiazze d’ombra sono sempre più rade. Fortuna che in fondo alla strada c’è un chiosco. Immagino acqua ghiacciata, gelati, bibite. Intravedo macchie di colori. Rosso, azzurro, bagliori metallici. Il chiosco, da lontano, somiglia proprio a quello della stazione degli autobus. Ora i colori si fanno più nitidi, rosso, azzurro, bagliori metallici, vetro. Le linee più nette.
Seduta ad un tavolino sul marciapiede, coperto da una tovaglia azzurra, c’è l’hostess di bordo, la gonna rossa si mescola con bagliori di pelle, di vetro e di acciaio. Il simbolo della Starlux si staglia sull’azzurro con lettere d’oro. Sul tavolino si intravedono i bicchieri brinati in cui trema un liquido colorato.
Come avrà fatto ad arrivare quaggiù? C’era un altra strada, un altro ponte? Forse esistono strade e ponti segreti, non segnate sulle carte.
La strada non sembrava in salita. Eppure si erpica sempre più, oscilla tra onde di calore, il suo manto giallo si solleva e ondeggia. Anche la hostess si solleva, mi viene incontro sorridente mostrandomi una enorme padella d’acciaio dal manico d’ebano. Anche le sue lunghe gambe sembrano enormi, coprono la strada, si torcono e danzano oscene tra le onde di calore. I bicchieri sembrano dondolarsi sospesi.
Da lontano s’ode l’ululato di una sirena: sarà sempre quell’ambulanza che tentava di passare sul ponte? Forse è riuscita a farsi largo tra la folla. Si avvicina.
Adesso l’acciaio è dappertutto: forse la hostess di bordo ha portato con se tutte le altre pentole e le casseruole della Starlux. Le migliori del mondo.
Sento che mi è attorno tutta la produzione della Starlux e il freddo di tutto quel metallo mi opprime. Mi sento stringere il petto da una fitta acuta che si irradia nel braccio. Le gambe diventano molli e non rispondono più. Resto immobile quasi fossi legato da cinghie. I colori diventano cangianti: l’azzurro della tovaglia è diventato verde ed è scomparso il logo dorato della Starlux.
Che strano: sono davvero legato da cinghie! E mi sembra di stare sdraiato: chi ha reclinato il mio sedile nell’autobus? Sento le vibrazioni di un motore sotto di me, ne sento anche il rombo soffocato e avverto forti tensioni sul corpo ad ogni curva ma non ricordo di essere tornato alla stazione nè di essere salito sull’autobus.
Ora l’acciaio mi avvolge sempre di più. Tutto è acciaio! Uno strano bicchiere dondola sopra di me: è lungo e molle come un orologio di Dalì, ballonzola appeso a qualcosa e dentro c’è un liquido opaco. Ma io non riesco a bere.
Sì, compro! Compro! Compro tutta la produzione Starlux! Ma toglietemi questi affari di dosso! Cosa sono? Altre casseruole? Ferri da stiro? Sono enormi, fredde, pesanti. Perché proprio sul petto?
Ho freddo dappertutto, dannazione… L’acciaio mi opprime. Anche la luce adesso è diventata fredda. Il sole si è intubato in un neon azzurrognolo che mi stà sopra e mi ferisce gli occhi. Sento ancora la sirena: il suo lamento feroce è vicinissimo. E’ sopra, è sotto, è attorno a me.
Quella sirena sembra proprio ingoiarmi con il suo ululato.
Enzo Maria Lombardo