ArteRecensione: Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo


Il tatuaggio… passione? Moda? Una sorta di “arte applicata”? Segno di riconoscimento e appartenenza? Forma di comunicazione con funzioni apotropaiche, rito di passaggio e iniziazione o manifestazione di spirito religioso? Tutto questo e altro ancora.
A questa pratica, dalla preistoria alla contemporaneità con tutti i suoi esiti ed effetti e ragioni, dedica una splendida mostra – Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo – il MUDEC di Milano. Come sempre, da DNA della preziosa istituzione museale, l’allestimento, multimediale e concretissimo, è di rara perfezione, fra oggetti, reperti, materiale iconografico, installazioni, video, stampe, testi, dipinti e tutto quel che serve a illustrare la genesi e l’evoluzione di tale fenomeno.
Il valore simbolico del tatuaggio e la simbiosi che esso rappresenta fra corpo da un lato e idee e sentimenti dall’altro vengono esplorati in profondità nelle varie sezioni. “Un tatuaggio può essere un messaggio da mostrare agli occhi del mondo, un ornamento che ci persuade o illude di essere unici e uniche, un voto mantenuto o un giocoso souvenir, un simbolo d’appartenenza o una dichiarazione d’indipendenza, una prova d’amore o l’elaborazione di un lutto.”
Un dato che parrebbe incredibile… l’Italia è il Paese maggiormente tatuato al mondo – si dice il 48% degli adulti – a seguire Svezia e Stati Uniti d’America. Per quanto il titolo della mostra sembri indirizzarsi geograficamente verso il bacino mediterraneo, invero si spazia per ogni dove: dai Maori alle civiltà precolombiane, dalla Siberia all’Africa profonda, dal Borneo alla Birmania e al Giappone, un viaggio nel tempo, nei continenti e nelle culture più disparate. “Non si sa esattamente perché il tatuaggio abbia da sempre suscitato tanto fascino sugli esseri umani, né si conoscono le origini e le radici dell’impulso che li attrae verso di esso, ma è certo che il gesto di incidere sulla propria pelle un segno indelebile è indissolubilmente legato all’atto primario di fare arte, con qualunque strumento, e probabilmente questo mistero è ancora oggi parte integrante del suo fascino”, spiega Luisa Gnecchi Ruscone, co-curatrice della mostra nonché massima esperta italiana di storia del tatuaggio.
Ribadisce Guido Guerzoni, l’altro curatore: “Per la prima volta sono presentati i sorprendenti materiali italiani, che documentano la persistenza millenaria di una tradizione tricolore che dall’antichità è giunta intatta sino alla metà del Novecento, a dimostrazione del fatto che il tatuaggio non è un’esotica invenzione polinesiana, ma una pratica che non è mai scomparsa dal territorio europeo e dal bacino mediterraneo.”
Si parte da un suggestivo collage, un autentico caleidoscopio di immagini a testimonianza del successo del tatuaggio nella contemporaneità, documentazione del fenomeno globale,  a Ötzi, l’Uomo venuto dal ghiaccio o di Similaun, il quale aveva non pochi tatuaggi sul proprio corpo, e alla mummia (antico Egitto) della donna tatuata di Deir El Medina, dalle manifestazioni del genere fra i nativi di vari luoghi del pianeta alla pratica diffusa nelle carceri (magnifica e impressionante questa sezione), dalla esplicitazione di una fede quale risulta dai segni incisi sulla pelle e inchiostrati dei pellegrini in Terra Santa alla dannazione quale marchio d’infamia e stigma nei confronti di schiavi, disertori o prigionieri. Un panorama oltremodo ampio.
“Nel mondo occidentale, nella forma in cui lo conosciamo oggi, il “tatuaggio moderno” nacque quando il capitano James Cook (1728-1779), esploratore, navigatore e cartografo britannico, portò con sé dalla Polinesia il primo uomo dal corpo tatuato, il “principe Omai”, e lo presentò alla corte d’Inghilterra, impressionando gli spettatori ma anche affascinandoli, al punto da meritarsi il ritratto del celebre artista Joshua Reynolds. Ebbe così inizio la “frenesia per il tatuaggio”, che contagiò non solo tanti sovrani, ma anche buona parte dell’alta società europea e americana. Al tempo stesso i marinai che si erano tatuati e avevano imparato a tatuare nelle isole del Pacifico, tornati in patria, aprivano i primi tattoo shop nei porti d’Europa e sull’altra sponda dell’Atlantico.”
Difficile peraltro non rimanere stupiti, e anche un po’ rabbrividire per la vergogna, alla vista dei brandelli di pelle tatuata provenienti dal museo di antropologia criminale lombrosiano, dalle cui collezioni giungono anche orci, caraffe, boccali incisi dai carcerati, straordinari esempi di “Art Brut”, fra estrema creatività e dolente sarcasmo. Interessante scoprire  come nei Balcani la ragazze cristiane venissero tatuate per scongiurare, vivendo in terre sotto il controllo ottomano, il rischio di rapimento. Si viene a conoscenza dei tatuaggi delle berbere algerine, delle donne copte (una croce sovente) e delle curde rifugiate nei campi profughi.
Si chiude con la ricostruzione di un tattoo studio old-style… “dentro al quale trovano spazio ristampe di manifesti e reclame dell’universo “circense” che, per buona parte della seconda metà dell’Ottocento e sino alla fine della prima guerra mondiale, richiamavano le folle ad ammirare da vicino i “corpi tatuati”, corpi considerati tanto misteriosi quanto scandalosi.”
Fra colori e fantasia un’immersione in un universo storico-antropologico estremamente affascinante.

Alberto Figliolia

Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo, mostra prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e promossa dal Comune di Milano-Cultura. A cura di  Luisa Gnecchi Ruscone e Guido Guerzoni,  con la collaborazione di Jurate Francesca Piacenti e la consulenza scientifica del Museo delle Culture. MUDEC (Museo delle Culture), via Tortona 56, Milano. Fino al 28 luglio.
Info: tel. 0254917 (lun-ven 9-18); e-mail info@mudec.it e sito Internet www.mudec.it.
Orari: lun 14,30‐19,30; mar, mer, ven, dom 9,30‐19,30; gio, sab 9,30‐22,30 (il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura).

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