Quando in città scende l’afa, l’aria diventa una coltre palpabile, entra dal terrazzino, ci avvolge come un sudario, non s’alza neppure di sera.
E quella sera di fine estate l’afa s’era posata come nebbia pesante sulla strada, la rendeva lucida, sudata.
L’aria bagnata impregnava ogni cosa, il cielo rosso e marrone, gonfio di pioggia, sembrava mostrare l’acqua sospesa, ancor più desiderata e impossibile. Ma tu non soffrivi per l’afa, Michele, il caldo lo hai sempre sopportato. “Fa parte di noi siciliani” – dicevi nei tuoi momenti lirici – “Ci cuoce e ci rende pigri ma a volte alimenta il fuoco dell’anima”. Questo dicevi, d’estate, ma non quella sera.
E anche l’umidità che ti faceva sudare come un maiale non era un problema per te.
No, tu non soffrivi per questo, Michele, non eri infelice per una serata umida e pigra, non per il caldo o il sudore, c’era qualcos’altro ben nascosto in quel testone cascante.
Quando ti sei seduto nel terrazzino, pronto a cogliere un improbabile alito di vento, ho tentato di penetrare il tuo silenzio e tu, in risposta, hai sospirato, masticando lentamente una gomma, mentre guardavi in basso la strada lucida e nera, seguendola con gli occhi fino in fondo, come per tentare di scoprire cosa c’era nascosto tra le case.
Poi ti sei alzato e, strusciando le pantofole sul vecchio pavimento, sei andato a girare il disco sul piatto dello stereo. Le note dei Preludi hanno di nuovo riempito la stanza dopo una parentesi di silenzio.
– “Laggiù c’è il mare” – hai detto quando ti sei risieduto – “di sera non si vede da qui, ma di giorno, tra un cornicione e l’altro, uno spicchio… uno pezzetto di mare…”
– “Lo so, Michele.”
– “E anche di notte… sì, qualche notte, puoi vedere il riflesso della luna sul mare, fra le case…” – Così dicendo mi hai preso un braccio, l’hai arpionato con le dita.
– “Mi ascolti, vero?”
– “Certo che ti ascolto, Michele.”
I secondi hanno cominciato ad allargarsi, quella sera; il tempo è diventato molle, scandito dalle note ripetute del preludio, dilatato come carta bagnata. I panni stesi sui balconi sembravano fatti di cartone ondulato, immobili, la gente quasi ferma, i movimenti lenti.
Nella strada le poche macchine facevano strisciare i pneumatici in sordina, sulla massicciata. Solo le note del Preludio numero quindici ci cadevano addosso nitide, pesanti come chicchi di grandine fra gli sfrigolii dei solchi consumati.
– “Brailowsky” – sussurrasti – “Quasi dimenticato. Morto due volte. Fra poco anche questo disco non suonerà più, è tutto rigato. Anche Brailowsky smetterà di suonare…”
E intanto ti sei passato la mano sulla fronte sudata, gli occhi fissi su quel mare invisibile, poi hai taciuto e sei rimasto così, appoggiato alla ringhiera, ad ascoltare Chopin che scandiva un tempo che non esisteva, gli occhi fissi su qualche improbabile orizzonte.
Quando la musica finì e tu sei riuscito a mettermi a fuoco, sembravi uscito da un incubo. Le parole ti uscivano strappate, impastate, confuse; io cercavo un nesso logico tra loro e non lo trovavo.
– “… e anche il tuo amico Michele è segnato, rigato, proprio come quel disco. Finito. Non ho più una nota, capisci? Non una frase musicale, un tema, un’idea, nulla: qui dentro – dicesti battendoti la mano stretta a pugno sul tuo testone ricciuto – qui dentro non c’è più niente… niente, capisci? Niente! Qui dentro è tutto morto… c’è solo nero… c’è un silenzio pieno di rumori inutili…”
Inghiottii saliva, mi divincolai dalla tua stretta e mi alzai come uno zombi, fissandoti.
Tentavo di capirti, Michele, e quelle tue parole smozzicate avevano fatto scomparire il caldo, l’afa.
Ma fu guardandoti bene negli occhi che capii fino a che punto eri incastrato nel tuo silenzio pieno di rumori inutili: quegli occhi luccicavano fermi e senza vita riflettendo le luci dei lampioni come due pezzi di vetro e dietro quel baluginìo fasullo c’era il vuoto in cui stavi cadendo,
D’un tratto mi sembrò che una lama di ghiaccio mi si fosse conficcata fra le costole. Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, anche se i miei pensieri sembravano anch’essi immobili e spenti, congelati nella banalità delle parole che potevano vestirli.
– “E’ un momentaccio, Michele – riuscii a balbettare – Ognuno ha i suoi silenzi. Passerà, vedrai. Avremo di nuovo la tua musica. Oh, se l’avremo! Mica puoi negarcela ancora!” – E intanto sentivo la mia voce. Falsa. Tentavo di sembrare il tuo amico di sempre, ma non ci riuscivo. Volevo che ci fosse almeno il consueto piglio cameratesco, scherzoso. Volevo anche un pizzico di incredulità, in quella voce. Sì, la mia voce avrebbe dovuto essere diversa e invece era ingessata e falsa. Ho tentato anche di stamparmi un sorriso sulla faccia, ma era una maschera che mi stava male, quella sera.
Guardandoti ora sapevo che davvero qualcosa si era rotta dentro di te. E quel “qualcosa” forse ti vagava dentro come una corda tagliata di netto, ti sferzava, si attorcigliava alle tue viscere, ai tendini, alle ossa.
Forse ti stringeva tanto da farti soffocare e per questo ansimavi aggrappato alla ringhiera di quel balconcino stretto, il viso riverso verso la strada, gli occhi dilatati.
Cosa vedevano i tuoi occhi, Michele, tra le gocce di sudore che ti colavano come strane lacrime dalla fronte e dal naso? Cosa pensava la tua mente chiusa nell’agonia della depressione?
* * *
Nel silenzio della sera la cantilena lontana di un venditore di angurie si sostituì ai Preludi e ci arrivò lunga e molle, come una nenia. Quel richiamo di delizie sembrava un canto, una canzone antica ascoltata da sempre e mai compresa.
E quel canto s’avvicinò, si fece via via più nitido, più forte, si alzò, s’abbassò, s’insinuò nella via, come un’onda che riesca ad entrare in un porto a smuovere la rena della riva.
Tirava il carretto un uomo anziano, le stecche ai fianchi, il corpo minuto oscillante assieme al carro e alle angurie che si scuotevano ad ogni avvallamento del selciato sconnesso. Un’anguria tagliata a mezzo, con ancora il coltello infilzato sopra, oscillava su uno straccio ricoperto di ghiaccio spezzato mostrando la sua polpa rossa e i semi neri.
La voce del venditore, sempre più vicina, s’alzava sovrastando il rumore dei cerchi di ferro delle ruote e quell’uomo, di tanto in tanto, lasciava impegnata una mano sola a tirare il carro e metteva l’altra mano aperta sotto la bocca e con quella riusciva a modulare il suo grido, lo amplificava, lo dirottava, quasi fosse possibile infilarlo a forza nelle case, dalle finestre aperte, dai portoni.
Quando il carretto fu ancora più vicino mi sporsi dal balcone e, un po’ a gesti e un po’ gridando, contrattai l’acquisto di quella mezza anguria che riposava sul ghiaccio. Poi presi il paniere che era sul balcone e lo feci scendere fin sulla strada, srotolando una corda sottile.
L’uomo appoggiò con cautela le aste sui sostegni, sollevò il frutto dal ghiaccio e l’appoggiò su una stadera a mano, una bilancia buona solo per mimare una pesata. E con quella stessa bilancia, tenuta in alto come un trofeo, il vecchio trasportò l’anguria fin sotto il balcone e la fece scivolare nel paniere.
Fu a questo punto che si udì uno schiocco e un secco crepitio di legno e ferro seguito da un rombo strano, quasi fosse un piccolo tuono. Poi seguirono colpi cadenzati e continui accompagnati da rimbalzi e spiaccichii. Tutte le angurie stavano rotolando dal carretto. Tutte. Scendevano come palloni sul piano inclinato del carro le cui aste ora poggiavano a terra, prive dei sostegni.
Lentamente, troppo lentamente, quasi sperando che quel rotolio non potesse riguardarlo da vicino, il vecchio si girò e non potei vederlo in faccia – in quella mezza luce – ma sentii bene il suo grido simile all’urlo d’un animale ferito, un urlo che fece balzando verso il carretto, con ancora in mano la stadera, per tentare di fermare almeno le ultime angurie.
Queste invadevano la strada, alcune erano ormai ferme, allineate lungo i marciapiedi, altre – più tonde e dure – ancora rotolavano seguendo i solchi della carreggiata, quasi a voler sfuggire alla loro sorte, scappando verso il mare.
Qualcuna finì la corsa tra il paraurti e le ruote di una macchina. Poche altre si spiaccicarono sui muri delle case tingendo di rosso gli intonaci scrostati. Altre ancora furono fermate dai passanti e dai ragazzi che, richiamati dal chiasso e dal rumore, cominciarono ad invadere la via.
Il vecchio non lottava più con le angurie. Non tentava neppure di raccogliere quelle che ancora ruotavano come trottole pigre vicino al carretto vuoto. Se ne stava seduto su un’asta del carro, faceva oscillare su e giù la testa canuta tenendola stretta con le mani, quasi a volerla fermare, come fosse una di quelle angurie maledette. Poi quella testa gli cadde sul petto, ferma come cosa inerte e le sue mani gli coprirono la faccia.
Quando anche noi scendemmo in strada trovammo quel venditore che mugolava ripetendo a cantilena qualcosa di incomprensibile mentre tentava di raddrizzare il carro, puntellandolo con quei sostegni traditori. Di tanto in tanto sollevava in alto i pugni e il suo mugolìo sordo e cupo diventava sempre più forte, quasi un ululato di rabbia prima di far scivolare le mani sui fianchi a battersi le cosce, quasi volesse scudisciarsi da solo.
Intanto attorno si era creata una piccola folla. Erano per la maggior parte i ragazzini del quartiere, alcuni scalzi, altri con dei sandali sdruciti. Come obbedendo ad un ordine cominciarono a rincorrere le angurie per la via, a fermarle, a prenderle in braccio.
Alcuni di quei ragazzi erano piccoli e minuti, poco più che bambini, e quelle angurie, grosse e pesanti, li facevano sembrare, da lontano, come piccole formiche indaffarate a portare bocconi più grossi di loro nella tana.
Mi accorsi subito di non assistere ad un gioco. Uno di loro, l’unico con i calzoni lunghi, mentre impilava le angurie, dirigeva i lavori con una serietà degna di un capo.
Il vecchio, senza dire una parola, si avvicinò ai mucchi già formati sul marciapiede, tastò le angurie sane, ne colpì qualcuna con le nocche, assentì con il capo più volte, poi scosse le spalle magre e cominciò a caricare i frutti sul carretto, aiutato dai ragazzi.
Anche noi – ricordi? – demmo una mano. Ti tirai quasi a forza fuori da quel balconcino e dopo un po’, sulla strada, tu non sembravi neppure tanto tardo e pesante come prima. Anzi – se vuoi saperlo – notai che ti davi da fare al pari dei ragazzi e ubbidivi persino al loro piccolo capo, cercando i frutti dietro i muretti, negli angoli, sotto il carro.
Il vecchio disse poco a noi e ancor meno ai ragazzi. Però ne prese uno per un braccio, uno dei più piccoli, lo fermò mentre correva a raccogliere una delle ultime angurie e lo fissò a lungo. Poi l’accarezzò sui capelli, continuando a scuotere su e giù la testa, come annuendo ad un suo recondito pensiero.
* * *
Quando il carrettino si allontanò, rumoreggiando di ferro e legno sulle lastre di lava, vi fu un attimo di vuoto, un lungo momento di silenzio innaturale in un tempo sospeso. Miracolosamente non passarono auto, in quel momento, e anche i ragazzini restarono immobili, come in attesa di qualcosa.
E qualcosa arrivò da lontano. Era di nuovo quel richiamo antico che, attutito dalla distanza, si insinuava nella via con le sue lunghe note. Quel grido ripetuto sembrava scivolare sulle balate nere del selciato, alcune ancora rosse per la polpa spiaccicata delle angurie. E scivolava su di noi e sui ragazzi, come una carezza, mentre seguivamo ancora con gli occhi il carrettino che diventava sempre più piccolo in fondo alla strada.
Tu dicesti: – “Sai chi sono quei ragazzi?”
Io annuii.
– “Sono quelli che di solito prendono a sassate i gatti.” – continuasti – “La sera vanno a caccia in branco e se possono li ammazzano con le fionde.”
– “Lo so, lo so bene, Michele…”
– “Qualche volta dal balcone li vedo ritornare la sera con i copertoni o le ruote intere delle macchine. Rubano le batterie, le radio… persino i sedili, rubano.”
– “E allora, Michele?”
– “Ascolta. Sai che fanno dopo che ha piovuto?” – continuasti – “Si divertono a buttare giù le canne che tengono tese le corde dei panni, giù nel cortile. E prima di scappare ballano sulle lenzuola, nel fango…”
– “Sono bambini, Michele…”
– “Sì, sono bambini ma non sono angeli. Eppure stasera…”
– “Stasera?”
– “Stasera erano diversi, come stregati da qualcosa… diversi.”
Sei rimasto un attimo assorto, le ciglia aggrottate, gli occhi serrati. Poi ti sei scosso e hai detto senza un motivo:
– “… forse c’è sempre del bello nascosto nella merda!”
Mentre parlavi mi sembrava quasi di veder macinare pensieri dentro quella tua testa enorme e ti vidi persino sorridere mentre ripetevi piano: “Sì, c’è del bello…”
* * *
Il canto del venditore di angurie non s’udiva quasi più: il carrettino aveva ormai superato la cantonata ed era scomparso alla vista.
Anche i ragazzi stavano andando via e si passavano tra loro, a calci, ridendo e gridando, alcuni pezzi delle scorze d’angurie frantumate e, con quei palloni improvvisati, colpivano apposta le poche macchine che passavano per via.
D’un tratto udii ancora quel canto, lo udii vicino e con un timbro totalmente diverso: il timbro acuto di un fischio sommesso.
Eri tu che fischiavi, Michele e fischiettando il tema di quello strano richiamo dalle note lunghe, lo modificavi in più punti, lo arricchivi con variazioni. Poi, scandendo il tempo con larghi segni delle mani in aria, hai attraversato la strada, con un insolito passo leggero.
Negli ultimi metri, prima di entrare nel portone di casa tua hai accelerato il passo e ti vidi affrontare le scale di corsa.
Le tue braccia e le tue mani adesso danzavano nell’aria come impazzite, ruotavano, martellavano, accarezzavano i tasti di un invisibile pianoforte, forse scrivevano già una nuova partitura.
Io ti gridai dietro:
– “Bentornato, Michele, bentornato!” – ma non credo sentisti la mia voce, quella sera.
Enzo Maria Lombardo
Il vuoto della depressione, quasi una disperazione, analogie e metamorfosi. Un mondo reale dove all’urlo disperato di chi sta per perdere tutto risponde un mondo di esseri giudicati alla deriva ma capaci di trasformarsi in un generoso atto vitale. Un quadro siciliano dai colori semplici eppur tanto reali ed eloquenti anche se sprofonda in un momento ormai difficile che venga ripetuto nella stessa cornice.
Grazie, Corrado.