Recensione: Paolo Nori – Chiudo la porta e urlo


Devo ammettere che non sono una grande amante della scrittura di Paolo Nori, la trovo spesso autoreferenziale, troppo incentrata su se stesso, sulla sua quotidianità, sui suoi pensieri, sulla sua voce interiore che si fa parola scritta. In quasi tutti i suoi libri, Nori è il centro del racconto, anche quando il pretesto narrativo è un altro. E Chiudo la porta e urlo non fa eccezione.
Ma c’è un elemento che ha profondamente modificato la mia esperienza di lettura: ho ascoltato questo libro in audiolibro, letto proprio da lui. E tutto cambia. La voce di Paolo Nori – con la  cadenza romagnola, i  tempi lenti, le sue esitazioni e inflessioni così personali – restituisce alla sua scrittura una dimensione nuova, autentica, quasi teatrale. Ascoltandolo, si entra nel suo mondo. Lo si guarda con i suoi occhi, lo si attraversa con le sue pause.
Il libro nasce come un omaggio a Raffaello Baldini, poeta romagnolo che scriveva in dialetto e si traduceva da solo in italiano. Ma chi si aspetta una biografia o un’analisi approfondita della sua opera rimarrà deluso: Baldini è presente, ma spesso ai margini. È più un’eco, un’ombra che accompagna il flusso del pensiero dell’autore. Perché anche qui, Nori parla soprattutto di sé: dei suoi ricordi, della figlia, di ciò che lo commuove, del senso del vivere e dello scrivere, della lingua, dell’identità.
Eppure, nonostante questa centralità del sé – o forse proprio per questo – il libro riesce a creare un’intimità rara con chi ascolta; la voce di Nori, in audiolibro, dà valore alla narrazione, le conferisce autenticità e spessore. Anche le digressioni più eccentriche acquistano senso nel ritmo dell’oralità.
Personalmente, non conoscevo Raffaello Baldini, e questo libro non mi ha insegnato molto su di lui, ma mi ha fatto venire voglia di leggerlo. E questo, forse, è il vero obiettivo di Nori: non tanto spiegare Baldini, quanto condividerne l’influenza. Far percepire quanto la poesia – soprattutto quella che nasce dalla lingua viva, dialettale, incarnata – possa scuotere, segnare, lasciare un’orma.
Chiudo la porta e urlo non è un libro facile, non è nemmeno un libro tradizionale. È più una narrazione orale, un monologo interiore condiviso, un tributo personale e affettuoso a un poeta dimenticato. Ed è un’esperienza che consiglio, soprattutto in versione audio.
Perché Nori, letto da Nori, riesce a fare quello che sulla pagina a volte non gli riesce: coinvolgere.

Titolo: Chiudo la porta e urlo
Autore: Paolo Nori
Prezzo copertina: € 19,00
Editore: Mondadori
Collana: Scrittori italiani e stranieri
Data di Pubblicazione: 12 novembre 2024
EAN: 9788804783299
ISBN: 880478329X
Pagine: 204

Citazioni tratte da: Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori

Mi viene sempre in mente quella cosa che diceva Orson Welles, dell’Italia, che in Italia recitano tutti benissimo tranne gli attori.

Correre, avevo scritto, è una benedizione perché mi costringe, tutte le volte che vado, a mortificare la mia pigrizia; perché mi costringe, tutti i giorni, a essere presente e vivo; perché mi fa fare, tutte le mattine, una rivoluzione.

Nelle case che ha costruito mio babbo, son passati sessant’anni, la gente ci abita ancora, e tra cento anni io credo che ci abiteranno ancora; se i miei libri durassero il tempo che durano le case di mio babbo, se tra cento anni qualcuno leggesse ancora i miei romanzi, vorrebbe dire che valgono qualcosa, e che sono stato bravo come lui, ma ho dei dubbi.

«Non lo saprà nessuno, che abbiamo vissuto, che abbiamo toccato le strade coi piedi, che andavano allegri, non lo saprà nessuno. Che abbiamo guardato il mare dai finestrini dei treni, che abbiamo respirato l’aria che si posa sulle sedie dei bar, non lo saprà nessuno. Siamo stati sulla terrazza della vita fintanto che sono arrivati gli altri.»

Che lo diceva anche Leopardi, «Piacer figlio d’affanno», che vuol dire che, se stai bene, è per via del fatto che prima stavi male, Leopardi ha un suo ottimismo che mi sembra l’ottimismo dei russi che mi piacciono tanto.

Un mio amico di Bologna, si chiama Jean Talon, mi ha raccontato di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.

Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, c’è da dire, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, li guardo come si guarda un parente, come dice Jannacci, e come si guarda, un parente, non lo si guarda, e invece certe volte, a guardarlo, ci accorgeremmo di certe cose che sarebbe forse un bene, accorgersene.

Katia Ciarrocchi
© Redazione Lib(e)roLibro

* Nelle citazioni riportate, non ci sono i riferimenti alle pagine, perché ho ascoltato il libro su Audible.

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