Non sfidare mai una gatta


raccontidi Corrado S. Magro

Fuori era abbastanza freddo. Il termometro era sceso sotto lo zero e per i gatti questo non è proprio gradevole. Preferiscono il calduccio vicino al termosifone o in grembo alla padrona. Le feste di fine anno erano andate e con esse si sarebbero presto spente le lucciole elettriche distribuite sui rami dello stereotipato abete naturale stracarico di bolle colorate, paglietta dorata, argentata e rossa. E l’abete? Era sotto ma si doveva indovinare. Ma che volete, i gusti son gusti e il siculo Ubaldo Sartorio, per non mandare in escandescenza la moglie che era dei luoghi dove queste usanze erano sacre, lasciava fare ignorando in cuor suo alberi, regali e lucciole elettriche cinesi quasi sempre difettose. Ai cinesi interessava vendere e anche se non funzionavano nemmeno la prima volta, la via della contestazione fino alla Cina aveva tanta strada da percorrere, che i grandi magazzini che importavano preferivano sostituire la merce, buttando via la difettosa, tanto i margini di guadagno permettevano innumerevoli sostituzioni prima di andare in perdita.
Tornando alla sospirata normalità dopo la partenza degli ospiti e con la tavola imbandita finalmente per nutrirsi e non per pascersi, Ubaldo rivolgeva l’attenzione agli svolgimenti politici nel suo paese d’origine. Non poter fare a meno di evitare titoli che adornavano anche la stampa seria e che riguardavano affaristi, lecchini, istrioni, arrivisti, pederasti ed androgini che volevano assurgere a simbolo sbandierato e che ora, confrontati con un folata di vento moralizzatrice, per ovvietà non destinata a durare, erano costretti alla difensiva, anche se ormai le forche erano solo mediatiche e “chi rubato aveva, il malloppo teneva”.
A Ubaldo si riscaldavano i fusibili. Avrebbe preferito che tutta questa gentaglia ammalata di protagonismo o ben peggio, di parassitismo cronico, fosse buttata nel Mediterraneo, dove magari qualche squalo affamato ne avrebbe potuto provare la commestibilità piuttosto dubbia. Avrebbe volentieri introdotto la pena di morte per i politici, in analogia con la buona e sana abitudine di circa duemila anni prima, quando chi veniva destituito anche se dava segno di starsene finalmente buono veniva ammazzato. Non si poteva mai sapere, così eliminandolo evitavano il rischio di un ripensamento.
Assorto in questo stato di livore soprassedeva ai continui miagolii dietro la porta d’ingresso che dava sul pianerottolo del secondo piano dello stabile. La moglie era andata a fare spesa e lui godeva di quella solitudine beata quando anche l’ipotesi che qualcuno ti rivolga la parola può venire scartata, sempre che non sia il telefono a farsi vivo.
Avendo chiuso Internet dove seguiva le notizie aveva ripreso più coscienza ambientale. I miagolii divenivano sempre più intensi. Provò ad ignorarli.
– Micetta, micina bella!
… Mizzica, questa era una voce di donna. Forse la padrona della gatta. Sarebbe stata una buona occasione per farne la conoscenza. La voce sembrava affascinante, almeno quella che veniva indirizzata al felino. Vedendo apparire lui, chi la emetteva avrebbe continuato a pispolare o avrebbe assunto la tonalità della gallina che starnazza? Valeva la pena assicurarsene. Ubaldo si reca all’ingresso e dal vetro scorge il felino che miagola mentre la donna continua ad invitarlo vezzosamente. Ubaldo apre e … proprio in quell’istante il felino sguscia dentro e la vocina gentile si cambia nel duro rimbrotto che la moglie, di ritorno dalla spesa gli riversa addosso:
– Ma che diavolo combini! Perché l’hai lasciato entrare?
E che poteva dirle, che non ne aveva proprio l’intenzione, che aveva aperto solo perché pensava fare l’occasionale conoscenza di un’altra donna?
Si rifugiò dietro l’affermazione logica:
– E cosa credi, che se avessi aperto tu la porta, non ti sarebbe sgusciata tra le gambe?
Ormai in ogni caso era dentro.
Era un bell’esemplare giovane, grigio cenere dal colore perfetto e il pelo ben curato, che con la coda a nove andava tranquillamente, contando i passi, ad esplorare i locali, rendendosi conto di non essere a casa propria ma in ogni caso meglio e più confortevole che restare fuori a tre gradi sottozero, lei che era con certezza una signora da salotto borghese e che provocante si dondolava sui fianchi, girando ogni tanto la testa.
Gl’inviti per indirizzarla verso l’uscita non la interessavano affatto anzi, quando Ubaldo si avvicinava, andava a rifugiarsi in qualche angolo osservandolo con una espressione che voleva dire: da qui non mi muovo e non rompere.
E se Ubaldo provava ad allungare la mano per afferrarla per la collottola, unico attacco possibile per evitare gli artigli, sgattaiolava elegantemente verso un altro angolo. Sbarrati i molteplici vani dove andava a rifugiarsi per evitare di essere molestata, il campo di operazione fu limitato al vasto soggiorno che comprendeva anche la cucina aperta ed i corridoi. Bisognava sviluppare una tattica che lì per lì non venne trovata.
– Ma vuoi proprio pensare che non abbia dove rifugiarmi? – gli fece capire la felina da gossip, andando a prendere posto dietro il sofà che poggiava contro una parete. Magari vi avesse trovato dietro tanta polvere che scossa dalle vibrisse le avrebbe fatto giudicare il posto non accogliente, ma l’impiego settimanale e a fondo dell’aspirapolvere dava scacco matto sia a polvere sia ad eventuali ragnatele. Aggiungiamo per la cronaca che quei piccolissimi ragni appena visibili, che chissà da dove apparivano, non avevano la vita facile. Risucchiati, finivano nel buio del sacco dell’apparecchio dove credevano essere arrivati nel paradiso degli Aracnidi, tra polveri sottili, pronti e felici di tesservi la ragnatela più complessa composta di milioni di Bytes, fin quando con la raccolta dei rifiuti avrebbero dovuto rendersi conto che sarebbero andati in fumo nell’inceneritore. Ma non lasciamoci sviare da esseri che occupano la scala degli invertebrati e torniamo alla nostra gatta che scacciata dal suo nascondiglio andò a rifugiarsi dietro i vasi delle piante del soggiorno.
– Eh no! Non vorrai mica arrampicarti sui vasi e farli cadere. – fece Ubaldo che cominciava a perdere la pazienza.
– Via di qua! – ordinò al felino che obbediente si avviò altrove ignorando l’uscio tenuto spalancato per motivarla a recarsi fuori.
– Non sono affatto disposta ad espormi ad una tale temperatura. – pensava lei – Che ti piaccia o no io resto dentro. Stupido, non ti rendi conto che dall’uscio soffia proprio una tramontana che mi è molto antipatica?
Gli occhi fosforescenti che ben spiccavano tra il grigio omogeneo, fissavano Ubaldo e il messaggio era chiaro:
– Prova a cacciarmi via. Non ci riuscirai!
Ubaldo, restò soprapensiero provando a trovare un rimedio, un qualcosa che gli sarebbe stata utile all’impresa senza però voler far male alla bestiola.
Battendo le mani si diede ad inseguirla.
– Ma dove vorresti arrivare?! – si disse la micia che senza faticare troppo, passava da un angolo all’altro agilmente mentre lui doveva aggirare sedie, tavoli, poltrone e stare attento a non fare cadere quanto stava su vassoi e mensole. Non solo ma ora lo guardava anche con dispetto e scherno.
Ubaldo si ricordò che il suo nome finiva per Baldo: coraggioso, uomo d’azione, imperterrito, ardito che non si lascia facilmente tenere in scacco, ma trovò anche opportuno chiamare in aiuto la moglie per ostacolare possibili vie di scampo.
Cinzia, nome di donna che in quel momento trovò sdolcinato e che appioppò temporaneamente al felino, seguiva con occhio attento tutti i preparativi e si rendeva conto che il suo improvvisato precettore iniziava a perdere la pazienza, ma lei se ne fregava e di buono. Allontanata dall’ultimo arroccamento e imbattutasi in un imprevisto ostacolo preparato dalla moglie di Ubaldo, rifiutandosi ostinatamente di guadagnare l’uscio per andar fuori, piroettò dirigendosi verso l’uomo, che, montato in bizza, la ostacolò con un calcio di poca efficienza perché i piedi, coperti solo da calzini, anche se con qualche callo non raggiungevano gradi di durezza appropriata.
Cinzia si rotolò per terra e come una martire che vuole evitare di essere esposta nuda al freddo polare, saltò, passò tra le sue gambe, si arrampicò sul muro che presentava un varco verso la cucina, scansò le piastre a infrarossi ancora calde che le sarebbero state inclementi con le zampe, evitò anche miracolosamente la brocca di cristallo per l’acqua, ignorò la fruttiera perché banane e arance non erano per il suo palato raffinato che forse non aveva mai gustato un topo, e andò verso un angolo del corridoio.
Ubaldo prese il tappeto del corridoio facendone una barricata; Cinzia, cacciata dalla moglie, vi si arrampicò con gli artigli saltandolo senz’alcuna fatica e restò in attesa delle operazioni che sarebbero seguite.
Ubaldo lasciò cadere il tappeto che non sarebbe mai stato di ostacolo ad una gatta e rosso di rabbia, si buttò all’inseguimento di Cinzia. Riuscì a beccarla dandole un calcio a dire il vero non proprio violento, che le fece fare un volo a cui seguì un elegante atterraggio sulle quattro zampe, mentre lui impigliato con l’altro piede nel tappeto, per la forza di trazione messa in moto dallo slancio perdeva l’equilibrio, si lanciava a tuffo sul pavimento in ceramica oltre il tappeto, frenando con naso e occhiali e smorzando lo scivolone a pochi millimetri di una parete dalla sua testa.
Il naso aquilino proprio all’apice del suo promontorio si era conciato male e sanguinava. Il setto nasale per fortuna si era solo ammaccato. Avrebbe dovuto attendere parecchi giorni, prima che il gonfiore sparisse e riprendesse la forma adunca e robusta che nulla aveva da invidiare a quello di certi esemplari dell’era dei Cesari. Al naso si era aggiunto il gomito sinistro che sanguinava anche per aver perso alcuni centimetri quadri di epidermide su una parete laterale, epidermide che sarebbe stata rimpiazzata dalla nuova. Non così per una delle lenti degli occhiali, che strisciando per terra si era tutta graffiata; e la spalla destra che aveva dovuto sopportare la prima botta sarebbe rimasta indolenzita assieme alla nuca, tanto che gli veniva male a girare la testa. Sentiva ammaccature dappertutto.
E Cinzia?
Nascosta dietro l’anta che sosteneva uno scaffale ad angolo di colore grigio molto simile al colore della sua pelliccia, e protetta dalla presenza dell’abete natalizio carico di inutili gingilli, era talmente ben mimetizzata che fecero fatica a localizzarla. Nel frattempo qualcuno era partito alla sua ricerca. Era il giovane padrone. Avrebbe almeno potuto inviare la moglie, no?
Ubaldo, imbufalito, per non mandarlo in malo modo a quel paese, si ritirò in camera e giurò in cuor suo che la prossima volta avrebbe fatto spezzatino della super modella Cinzia. L’avrebbe atteso dietro l’uscio con l’estintore in mano, aprendo il varco di pochissimi centimetri e appena quella primadonna a quattro zampe, occhi lucenti, vello elegante e tutta sexy, avesse infilato il musetto per farsi largo, le avrebbe indirizzato il getto di schiuma dell’estintore sulla testa. Altre sfide legali non sarebbero servite e a parità di mezzi, cioè senz’arma alcuna, la superiorità di quella Cinzia sul terreno non veniva messa in discussione.
Ammazzarla poi non ne valeva la pena.
Ricordandosi che molti anni prima per una amica di chat col nick “gatta” o “miaoo”, aveva scritto una storiella in versi che narrava della battaglia di un gufo ed una gatta, dove lui era il gufo e l’affascinante amica una gatta, andò a ripescarla in un file del computer rileggendola:

Il Gufo e la Gatta
Il gufo brontolone de natura
Appollaiato sopra de na quercia
Co n’occhio semichiuso e l’altro tutto
Scorse na gatta che sotto acquattata
S’era messa n’da posa de far caccia.
Preoccupato della concorrenza
Che sorci e ratti si facevan rari
A causa de tutti li trattori
De pesticidi e de minchiate varie
Se disse: Io me devo dar da fare
E sto pericolo devo eliminare
E in più visto ch’è giovane e polposa
Ma mangerei ad averne ad iosa.
Arruffa e penne, fece no sbadiglio
Poi chiuse l’occhio
E aprì quel ch’era chiuso
Mosse le ali si scosse nu pocu.
Vedendo che la micia n’se moveva
E che di lui proprio n’se curava,
Scese nu ramu… A gatta nun lo vide…
Ne scese un’altro e … dopo n’autru ancora,
Quannu fu a tiro se lanciò npicchiata:
-uahuuuu ora sì che l’ho agguantata!
——————————————
Ma voi o sapete come e gatte sono!
All’ultimo secondo fece n’guizzo
Se rotolò e se tirò da parte,
Er gufo l’artigliò lei fece gniauuuuu
Come n’felino quannu s’arrabbiò.
Ora a battaglia se fece cruenta
Er gufo ci lasciò n’mazzo de penne
La gatta fu portata in alto n’cielo
E poi lanciata giù sopra al terreno
Ma voi o sapete come sono e gatte
Cascano sempre in piedi, quelle matte.
A n’certo punto il gufo abbandonò
Che l’occhio aperto a gatta gli graffiò
E volò in alto sulla quercia antica
Dicendo: questa gatta porta sfiga.
Poi ppe curarsi delle ammaccature
Delle ferite e delle spennature
A gatta annò da un gufo omeopata
Che dopo un mese de tergiversare
le disse de nutrirsi d’insalata
Ch’ella è più sana dei sorci de campagna
Che fanno male e portano scalogna.
Il gufo andò dal gatto farmacista
Molto invecchiato, tutto spelacchiato
Che dop’averlo ben bene osservato
Gli consigliò de cambiar de palato
E preferire ghiande e vegetali
E di lasciare i sorci agli animali
Dell’altra razza e a cui non fanno male.

Corrado S. Magro

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