“QUI GIACE UN UOMO IL CUI NOME FU SCRITTO SULL’ACQUA”.
Era la notte del 3 febbraio 1820 , quando John Keats scese dalla carrozza e rientrò nel suo appartamento di WentworthPlace, a Hampstead, un sobborgo di Londra. Si sentiva addosso uno strano malessere, che non aveva mai provato prima. Aveva la febbre, era esausto, malfermo sulle gambe, tossiva. Dopo pochi minuti entrò nel letto e un solo colpo di tosse, secco, come una frustata, cancellò in lui ogni speranza di vita, d’amore e di gloria. Riconobbe subito la goccia di sangue sputata sul lenzuolo: era scura, era nera, era sangue arterioso. Ne conosceva perfettamente il significato, era diplomato in farmacia e assistente chirurgo :la tubercolosi aveva portato via tutta la sua famiglia, lasciandolo solo dopo mesi terribili di agonie della madre a cui aveva assistito impotente. Poche ore dopo, nella notte, una violenta emorragia polmonare gli tolse ogni dubbio. Venne l’amico e coinquilino Charles Brown, a soccorrerlo, a cui disse, “E’ davvero un peccato, Charlie, ma qui finisce la mia storia. Troppo presto affinché io possa essere ricordato”. Aveva visto giusto circa la sua sorte terrena. Morì, a Roma, meno di un anno dopo, e fu seppellito nel cimitero acattolico che sta vicino alla Piramide Cestia, all’Aventino, dove almeno una volta all’anno vado volentieri a trovarlo. E anche quest’anno, proprio nel giorno dei morti, il 2 novembre , ci sono stato insieme ad una gentile amica tosco-lombarda . E dico a lei , davanti alla tomba del poeta e al suo epitaffio: “John si sbagliava completamente per quanto riguarda la fama e la gloria postuma. E’ divenuto , rapidamente, un vero emblema del romanticismo. Infatti , i tre volumi di versi che aveva pubblicato in vita costituiscono ancora oggi una delle più importanti raccolte poetiche della letteratura europea. Ma lui , poco prima di chiudere gli occhi , in un piccolo e gradevole appartamento romano affacciato sulla scalinata di Trinità dei Monti , aveva lasciato all’amico pittore Joseph Severn, che gli fu a fianco fino all’ultimo respiro, questa epigrafe che ora leggiamo sulla sua lapide: “Here liesonewhosenamewaswrit in water” (Qui giace un uomo il cui nome fu scritto sull’acqua”). Aveva, al momento della morte, poco più di venticinque anni , ed è comprensibile lo sconforto che si può cogliere in quelle parole. Ma la causa del rimpianto – scrive Conrad Aiken – non sta nel fatto che egli si lamenti che il suo nome – ovvero la fama postuma – non sarebbe durato nel tempo. Questa era una tipica esagerazione del personaggio che era un “ciclotimico”, cioè vittima del continuo alternarsi di stati di euforia e di depressione. Non che recitasse – questo no, ma di sicuro possedeva una sensitività insaziabile e come altri poeti di temperamento “sottile” , John pativa gli influssi lunari. Fin dall’inizio della sua vocazione poetica , John scriveva con febbrile intensità , quasi sapesse di essere incalzato dal tempo, saltando rapidamente le tappe di un’evoluzione stilistica solitamente più lenta.
“Ma com’era, John?” , mi domanda la gentile amica. Chi lo ha conosciuto dice che era bello di fattezze , ma piccolo ( non superava il metro e mezzo di altezza, siamo a livello di Leopardi), e tuttavia di temperamento sanguigno, pugnace, combattivo. Nel corso della sua fulminea carriera conobbe e fece amicizia con le figure letterarie più importanti dell’epoca, nonostante la giovanissima età . E quando morì era già un uomo e poeta famoso. “Quindi, – interloquisce l’amica – le sue poesie – e il suo nome – non erano per nulla scritte sull’acqua?” No. Anzi , i suoi versi , insieme alle sue lettere – un epistolario che è il più importante della letteratura in lingua inglese – hanno fatto di lui il poeta più letto ed amato dai tempi di Shakespeare. E tuttavia la sua vita fu tragica, perché esso stesso visse tragicamente. E in modo esagerato. Del resto, egli fu sempre po’ dicotomico: definito padre dell’estetismo, Keats- come scrive Mario Praz- non fu per nulla un esteta. Il succo della sua poesia è a base etica, esalta l’intuizione contro il razionalismo, dice che la vita va accettata integralmente così com’è ed è in questa vita che si configura la vera bellezza. Rapito in cielo prematuramente, c’è chi è convinto che Keats avesse già dato il meglio di se, ma per la sua capacità che aveva di leggere dentro le cose, sarebbe diventato certamente un formidabile critico. Di certo è stato un grande poeta che, nelle grandi odi ( A un usignuolo, Sopra un’urna greca, Alla melanconia) riesce a superare l’emotività romantica, esplorando, con densa musicalità, il rapporto tra arte e vita, piacere e dolore. Il canto dell’usignuolo, la perfetta bellezza delle decorazioni dell’urna greca, il paesaggio autunnale di Melanconia ( uno dei massimi esempi di poesia descrittiva) simboleggiano l’eternità o la speranza di immortalità.
Pensa – dico all’amica tosco-lombarda – , che era nato il 30 ottobre 1795, in un sobborgo londinese (Moorgate), dove il nonno materno , John Jennings, gestiva una locanda molto conosciuta e apprezzata, “The Swan&Hoop” , e disse , appena lo vide: di questo bambino ne faremo un bel ragioniere, così avremo in casa l’amministratore dei nostri beni…Invece ne venne fuori un poeta, tra i più grandi che il romanticismo inglese ed europeo abbia mai avuto, un poeta che – come tutti i poeti – visse e si nutrì di solitudine: “Solitudine , se devo vivere con te , / Sia almeno lontano dal mucchio confuso/ Delle case buie; con me viene in alto,/ Dove la natura si svela , e la valle,/ Il fiorito pendio, la piena cristallina/Del fiume appaiono in miniatura;/ Vegli con me dove i rami fanno dimora,/ E il cervo veloce, balzando, fuga/ Dal calice del fiore l’ape selvaggia./ Qui sarei felice con te.
Roma, 3 novembre 2017
Augusto Benemeglio