Il mio giardino è l’opera d’arte più bella che io abbia creato. (Claude Monet)
Per arrivare alle ninfee e al ponte giapponese di Giverny, a quell’astrazione coloristica, prodromica dell’arte contemporanea, lunga era stata la strada di Claude Monet, cui, non dimentichiamolo, si deve la nascita del termine “Impressionismo”, anche se non fu una scelta dell’artista, bensì l’affermarsi di un’espressione che doveva essere dileggiativa, se non di dispregio, coniata nel 1874 dal giornalista Louis Leroy per commentare la prima mostra di Monet e dei colleghi che avrebbero fatto parte del movimento pittorico forse più celebre di sempre. Era stato il quadro di Monet Impression, soleil lévant a suscitare l’ironia critica del giornalista poi scomparso nel nulla a differenza di coloro che erano stati oggetto del suo scherno.
La mostra dedicata a Monet in corso al Palazzo Reale di Milano si concentra essenzialmente sulla produzione di Monet più tardiva o, meglio, più matura, quando l’artista aveva ormai maturato la propria poetica (anche se lui diceva di avere orrore di qualsiv0glia teoria, vale a dire quella “ripetizione seriale” (non definisce certo un limite) del giardino, delle rose, del salice, delle ninfee, dell’acqua e dei suoi cangianti riflessi nelle condizioni più disparate della luce. Un lavoro durato gran tempo, capace di esplorare incessantemente ogni possibilità.
L’artista peraltro aveva avuto seri problemi alla vista negli ultimi anni della sua vita, ciò che aveva influito sulla sua percezione dei colori. È quindi come se avesse sviluppato una sorta di visione “psicotropa” in parallelo con una vista interiore creatrice e rielaboratrice come mai si era osato.
È un viaggio immersivo quello che compie il visitatore fra le tele dell’esposizione; quadri sovente anche di grande formato, “studi” di raffinatezza estrema, variazioni infinite negli infiniti mondi della luce. Anche se non mancano prove del primo periodo, più figurativo, della sua vita – e sono già indubbiamente nel segno della genialità (Camille sulla spiaggia, 1870: espressione di un momento felice; Veduta della Voorzaan, 1871) – l’itinerario inevitabilmente conduce a Giverny.
“Monet, maestro della pittura en plein air, dedicherà l’intera vita a cercare di cogliere le variazioni luminose e le impressioni cromatiche dei luoghi che osservava. Più che il soggetto, lo interessa il modo in cui viene trasfigurato dalla luce. Per catturare la luminosità sempre mutevole, il pittore lavora in fretta, con pennellate che si susseguono rapidamente…”. E arriviamo difatti al nocciolo più emblematico della mostra: al Ponte giapponese del 1918, che Monet infine avrà riprodotto altre quarantasei volte. E Lo stagno delle ninfee e l’acqua che le ospita – L’acqua, essendo un soggetto così mobile e in continuo mutamento, è un vero problema, problema estremamente stimolante, perché ogni momento che passa la fa diventare qualcosa di nuovo e inatteso. Un uomo può dedicare l’intera vita a un’opera simile” – e i centoventicinque pannelli di grandi dimensioni che hanno sempre come soggetto le ninfee – “Raffigurando una piccola parte del suo stagno in un formato così grande, Monet non solo annulla ogni riferimento prospettico reale, ma propone di immergere l’osservatore in una distesa d’acqua che si fa specchio: le nuvole e le fronde dei salici si riflettono sulla superficie dello stagno, e il sopra e il sotto sono ormai indistinguibili. Questi paesaggi senza inizio né fine invitano a un’esperienza contemplativa in cui la rappresentazione di un fiore o di un dettaglio della natura bastano a suggerirne l’immensità” (una specie di monumentalità haiku) – e le emerocallidi e gli iris (una serie di nove dipinti) e i paesaggi d’acqua e Il viale delle rose, il salice piangente (tema che occuperà una dozzina di tele, “emblema del dolore che lo attanaglia” – la morte della seconda moglie, di un figlio e di tanti amici – ma anche “l’essenza della natura, il mistero della sua creazione” o, siamo negli anni della prima guerra mondiale, “la resistenza umana di fronte alla violenza” )…
Quanti gli saranno debitori (Pollock compreso)? La pittura di Claude Monet è una festa dei sensi, il trionfo della luce, il soave e spontaneo panteismo della natura, un fondamentale lascito intellettivo e spirituale.
Alberto Figliolia
Monet, mostra promossa dal Comune di Milano e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia, a cura di Marianne Mathieu. Fino al 30 gennaio 2022. Palazzo Reale di Milano, Piazza Duomo.
Orari: lun chiuso; da martedì a domenica 10-19,30, giovedì sino alle 22,30 (la biglietteria chiude un’ora prima).
Info: www.arthemisia.it, www.palazzorealemilano.it, www.monetmilano.it.