Mia cugina Mafalda apparteneva ad un ramo molto laterale e ricco della famiglia.
Tanto laterale che bisognava risalire parecchio l’albero genealogico per arrivare all’avo comune e tanto ricco da possedere un intero palazzotto di tre piani in una delle vie principali di Catania, con un grande atrio e un giardino interno contornato da una balconata piena di gerani.
Ancora acerba per esser bella, grandi occhi scuri in un viso smunto incorniciato da bei capelli neri, Mafalda, a quattordici anni, già mostrava, appena accennate, alcune curve dolcissime su cui il mio sguardo di sedicenne si posava sempre volentieri.
Quel pomeriggio tiepido di febbraio si aspettava, in casa di Mafalda, con i parenti e ad alcuni amici di famiglia, tutti assiepati sui balconcini che davano sulla via grande, che passasse la processione di Sant’Agata, con l’enorme Carro dorato trainato – con grossi canapi – dalla lunga sequela di devoti vestiti di bianco.
La strada era già piena di gente e si sentivano, sempre più vicini, gli scoppi dei mortaretti e i fischi dei bengala e delle ruote di fuoco mentre lontano, in alto, volavano le strane forme delle enormi mongolfiere ad aria calda di carta colorata, decollate da Piazza Stesicoro e cullate dal vento tra il fumo dei fuochi d’artificio e i palloncini multicolori.
Qualche mongolfiera volava troppo sghemba e subito s’incendiava lasciando una lunga scia di cenere e faville, accompagnata dal coro di esclamazioni della folla.
Più che in cielo, gli occhi di tutti erano puntati in cima alla strada, ansiosi di cogliere, per primi, i movimenti delle Candelore e il lungo fiume dei fedeli e dei miracolati che, per voto, tiravano le grosse bianche funi della “Vara”: i miei occhi di adolescente, invece, cercavano Mafalda.
Senza parere, certo, quasi con indifferenza, i miei occhi danzavano velocissimi sulle rotondità della sua gonna o sulle ombre appena visibili tra le sottili trame della camicetta, volando un attimo su un ginocchio tornito o sull’attacco dei seni, cingendo quel piccolo corpo con i fili sottili di un desiderio nuovo, dolcissimo e insieme doloroso, scoprendone i misteri immaginati sotto invisibili sottovesti. Era un attimo infinito, eterno, brevissimo: giusto il tempo di sentire un acre sapore nella bocca asciutta e uno strano pulsare alle tempie prima di ricordarmi di respirare.
Ed infine respiravo. Respiri profondi, liberatori. L’acre sapore della polvere pirica, misto a quello dolciastro dei ceci arrostiti e del torrone di mandorle che saliva dalla strada, mi entrava dritto nei polmoni, mi stordiva e, quasi ubriaco, tornavo ad immergermi in Mafalda.
Un momento ancora. Ancora un momento. Un attimo ancora. A volte serravo gli occhi e la rivedevo tra scintille di luce retinica.
Solo quando mi costringevo a fingere, il mio sguardo allargava la prospettiva sul resto del parentado e, spingendo ancora la finzione, osservavo con esagerato interesse la strada e la folla dabbasso.
In effetti, da lassù, la visuale sulla strada era splendida e lo sguardo poteva spaziare anche oltre le case e fino alla marina e vedere, a nord, le nere nuvole di fumo dei mortaretti salire accompagnando le mongolfiere colorate.
Ricordo che guardando la gente sempre più ammassata ai lati della strada e i grappoli di ragazzi abbarbicati sulle cancellate o aggrappati alle sporgenze dei lampioni, mi venne istintivo, allora, pensare che chiunque avrebbe pagato salato un posto sul nostro balcone e che il mio era veramente sprecato per guardare una folla anonima e una Festa che conoscevo nei particolari più minuti e che, in effetti, m’interessava poco.
Però, in compenso, era un posto speciale per guardare Mafalda.
Così ripresi a girare lentamente lo sguardo, con noncuranza, in un semicerchio accurato e convincente, dalla strada alla ringhiera del terrazzo, dalla ringhiera agli zii, dagli zii al cugino medico, dal cugino medico a Mafalda.
Ed incontrai i suoi grandi occhi. Mafalda mi stava fissando. Sorrideva. Da quanto tempo mi stava osservando? Aveva visto le mie piccole manovre ipocrite? Forse rideva della mia timidezza. E continuava a sorridere mentre mi si accostò e con un’aria fin troppo infantile mi chiese se volevo accompagnarla in strada.
– “In strada, tra la folla?”
– “Sì, voglio vedere la Santuzza da vicino”- disse forte, con decisione, mentre mi tirava per un braccio, quasi stimolando alla rincorsa un compagno di giochi un po’ recalcitrante.
Forse la vocina di Mafalda era troppo stridula e falsa ma la zia non vi badò, tanto più che già spuntava la processione in fondo alla strada e s’intravedeva la prima Candelora, una piccola Torre di Pisa barocca, dorata, piena d’archi, arabeschi e bassorilievi, seguita da altre dieci, tutte portate a spalla da uomini robusti, caracollanti al ritmo delle fanfare.
Udimmo biascicare qualcosa dai parenti: le raccomandazioni s’incrociarono, si confusero, si annullarono a vicenda, coperti dal frastuono crescente della folla urlante e, correndo, scendemmo le scale fingendo di proseguire il gioco infantile iniziato da Mafalda sul terrazzo.
Passato il grande atrio e aperto a due mani il pesante portone, ci trovammo in strada, incuneati tra centinaia di corpi, immersi nell’odore pungente della folla e della Festa, assordati dal boato ritmico di “Viva Sant’Agata”, gridato da una Città delirante, tanto forte da sovrastare la mitraglia e i botti dei fuochi d’artificio.
E, tra la folla, improvvisamente, mi sentii in un’intimità strana e protetta con Mafalda, senza i pudori forzati del salotto e del terrazzo, spinti l’uno contro l’altra da una massa di carne ondeggiante, pigiati per necessità. E, immerso in quei corpi anonimi, sentivo il suo in modo definito e netto, sebbene troppo rigido: risaltava tra gli altri, al contatto, come un bassorilievo su uno sfondo appena accennato. Un contatto piacevole che mi portò, pian piano, ad escludere tutto il resto: scomparvero le voci, i rumori della folla, i gridi d’incitamento e i pianti dei bambini e io, protetto da un irreale silenzio, mi ritrovai in una nicchia di cristallo che mi consentiva di restare isolato con Mafalda.
Adesso potevo quasi “vedere” le sue rotondità prima solo intraviste in modo confuso tra le pieghe degli abiti; potevo seguirle nei recessi più profondi, immergermi nel loro tepore e persino gustarne il profumo…
Eppure qualcosa mi avvertiva che quello che provavo era meschino: qualcosa mi sussurrava che questo era sesso rubato, immiserito dalla paura e dalla timidezza, raccattato di nascosto tra le briciole della vita.
Così, sebbene compresso dalla gente intorno e stordito dai rumori, tentai di scostarmi un poco, come potevo, rabbrividendo al pensiero che lei avesse intuito le mie sensazioni. Ma non vi era spazio tra la folla, non uno spiraglio, un varco. Solo allora mi accorsi che qualcosa era cambiato in Mafalda: quella rigidità che prima avevo notato era improvvisamente scomparsa, sostituita da un’esagerata estensione anche dei movimenti più minuti. Saltellava addirittura e ciò favoriva un contatto che mi apparve eloquente e ingenuo nello stesso tempo.
In mezzo al vociare confuso e assordante della folla mi accorsi che anche Mafalda gridava qualcosa che non udivo. La sentivo agitarsi al mio fianco e vedevo le sue labbra muoversi in un viso che mi sembrò meno pallido e più grazioso: sorrideva e muoveva le labbra in un grido o in un richiamo, alzandosi sulle punte per vedere meglio o stendendo un braccio per indicarmi qualcosa oltre il mare di folla.
Poi mi sentii afferrare e scuotere una spalla e la sua voce sottile, lontana, ovattata dal rombo cupo degli spari, mi giunse appena percettibile e confusa insieme con quella di decine di bocche vicine: “La vedi? Arriva! Arriva! Cch’è bedda!.. Arriva Sant’Aita! Arriva la Vara!”
Guardai oltre un mare di teste e vidi il guizzo argenteo del grande Carro. Più che vedere, intuii la scena: un insieme di mani protese, di urla, di implorazioni. Intravidi il busto e il reliquario della Santa coperto di ex voto d’oro e d’argento a forma di seni, l’Arcivescovo assieme a due chierichetti che ricevevano dalla folla candele e ceri enormi, accatastandoli sul Carro.
Davanti alla pesantissima “Vara”, si scorgevano appena, tra la folla, le vesti bianche dei “Cittadini” che tiravano i grossi canapi: dai balconi che s’affacciavano sulla strada, gremiti di gente, sarebbe apparsa interamente visibile la lunga fila dei fedeli e dei miracolati, tutti vestiti con i tradizionali bianchi camicioni da notte, aggrappati e curvi sulle funi, a tratti eretti, sventolando grandi fazzoletti bianchi al solito grido ripetuto più volte, all’unisono: “Cittadini… viva Sant’Aita.”
In un guizzo di lucidità, guardando la scena, mi venne in mente, a brandelli, la vecchia storia da cui traeva origine la Festa: risentii mia madre raccontare di terremoti, di lava incandescente, e di una lunga notte di paura che spinse i Catanesi ad uscire da casa in camicia da notte ad invocare il soccorso della Santa. Sì, forse l’origine della Festa era questa o forse no: la cosa m’interessava poco in quel momento, così ricacciai indietro le vaghe reminiscenze di storia cittadina e riguardai mia cugina che saltellava al mio fianco per vedere qualcosa.
-“La vedi, – diceva – la vedi? E’ tutta d’oro e d’argento, Sant’Agata, che bedda!”
Ero sicuro che vedeva ben poco anche lei con i tutti i suoi saltelli, piccola com’era: ma non lo dissi. Continuai, invece, a fissarla a lungo, in silenzio e lei mi guardò a sua volta, immobile, con i suoi occhioni scuri mentre il fumo che s’alzava da una lunga teoria di mortaretti posti a ridosso di un palazzo, danzava sulle nostre teste spinto da un vento leggero. Ed anche quel fumo contribuiva ad avvolgerci in un bozzolo magico, intimo, dolce.
I movimenti della gente, le invocazioni e l’acre odore di polvere pirica che stagnava nell’aria, sembravano davvero aver creato un luogo magico e un momento strano dove tutto poteva accadere in modo facile, normale, senza forzature.
Mi sentivo ubriaco di rumori e di urla e di suoni. Ero imbevuto di polvere nera e di profumo di cera, al di fuori del tempo e delle convenzioni, spinto in modo naturale ad un gesto di follia o di tenerezza.
Potevo gridare, se volevo. Oppure potevo stendere la mano e accarezzare il viso di mia cugina. O quello di una ragazza che intravedevo tra la folla. O di un’altra laggiù, e laggiù e laggiù…
Sì, in quel luogo magico potevo dire a tutte loro quel che sentivo la sera, dopo aver lasciato gli amici. Potevo confessare a voce alta come certe fantasie ripiombavano nel chiuso della mia stanza, al buio, disegnandosi sulle pareti e sul soffitto in una dolorosa girandola; come certe immagini evocate da quei pensieri evocassero figure dolcissime e oscene nelle macchie di umido del soffitto…
Potevo… potevo…potevo…
– “Mi piaci, Mafalda…”- dissi in fretta, in un sussurro che naufragò subito in un oceano di urla e di rumori.
Mafalda avvicinò la bocca al mio orecchio e gridò forte:
-“Cosa hai detto? Non sento. Parla più forte!”
– “Mi piaci, Mafalda, mi piaci tanto!”- ripetei più forte ma con minore sicurezza, mentre il rimbombo del sangue nelle orecchie soverchiava i botti della mitraglia e sentivo svanire quel momento di potenza interiore in un mare di gelo che mi attanagliava il petto e mi saliva in gola.
Sentivo quel pavido adolescente che sonnecchiava in me prendere ancora il sopravvento e addirittura sperai che il rumore della folla e degli spari avesse sommerso tutto. Sperai e insieme temetti che quelle parole banali fossero volate nell’aria, disperse con il fumo che ci avvolgeva… Ma qualcosa mi disse che ormai era fatta: bisognava solo aspettare.
E aspettai.
E’ strano come il tempo, a volte, si dilati, si fermi, quasi, in attesa di un evento nuovo, importante. Ed io, immerso in un enorme, intero secondo dilatato, vidi – come in un film al rallentatore – la sua espressione mutare pian piano, impercettibilmente, i suoi occhi scuri diventare ancora più grandi e il suo viso smunto, da bambina, trasformarsi e diventare serio, quasi maturo, diverso. Un viso che mi sembrava di scoprire adesso per la prima volta, e che mi piaceva.
Più che udire, tentai di leggere la risposta dalle labbra di Mafalda ma lei non disse nulla: sorrideva. Ed era un sorriso stranamente malizioso, un sorriso da donna, un sorriso che me la fece sentire unita in una complicità nuova, immediata, senza riserve. Simile a quella che provavo con certi amici miei. Eppure tanto diversa.
E così le accarezzai una guancia, lievemente, con due dita, più volte, e solo allora il gelo che stava quasi strozzandomi cominciò a sciogliersi e la paura fece posto a un fremito diverso che saliva piacevolmente dallo stomaco alla bocca, facendomi vibrare tutti i denti, impedendomi persino di parlare in modo coerente.
Adesso basta tremare, pensai, e quasi inconsapevolmente la mia mano scivolò dalla guancia al collo di Mafalda indugiando sul bordo della sua camicetta, mentre il rombo ritmico del sangue pompato con forza alle orecchie e al viso si mescolava con i botti a mitraglia dei fuochi d’artificio.
Ero assurdamente convinto che decine di occhi, dimentichi della processione e della Santa, mi stessero osservando. Tuttavia, stranamente, avvertivo ancor meno la folla. Mi trovavo in un fantastico mondo a due che sconoscevo, un mondo ovattato e impenetrabile.
Gli altri, tutti gli altri, erano ormai distanti, quasi al di là di un vetro spesso contro cui premevano inutilmente: la gente anonima si muoveva, s’addossava, guardava, si agitava, forse urlava: ma per me era troppo lontana per essere udita.
* * *
Guardandomi intorno mi sorpresi di non essere più vicino alla casa di Mafalda: sospinti dalla folla nei piccoli varchi aperti qua e là dai venditori ambulanti, eravamo riusciti a sgusciare, non so come, in un vicoletto in cui i rumori arrivavano attutiti e lontani.
Poco più in là, oltre l’imbocco, il vicolo era deserto: la gente, lasciate le case, era sciamata tutta nella strada grande, alcuni usci appena socchiusi, con solo qualche vecchia seduta davanti alla casa terrana, col viso rivolto alla folla urlante che s’intravedeva oltre il vicolo, quasi a voler carpire – anche da lì – qualche brandello della festa.
Entrambi eravamo consapevoli che ci era successo qualcosa; qualcosa di importante e di unico, qualcosa che a fatica tentavamo di inquadrare e classificare, ma che c’impauriva per la sua novità. Per questo c’incamminammo in silenzio, in un vago alone di tristezza, tenendoci per mano, le dita intrecciate, quasi a voler conservare quell’intimità nuova che ci aveva regalato l’abbraccio della folla.
Percorremmo così stradine sempre più deserte e silenziose, addentrandoci in un quartiere che conoscevamo appena, un quartiere povero e dimesso, con le case basse dai muri di pietra, gli intonaci scrostati o mai ultimati e le ringhiere arrugginite.
Da quella prospettiva, la Città, con la sua Festa, la folla e i fuochi d’artificio, mi apparivano distanti anche nel tempo, mentre Mafalda, così vicina, la “mia” Mafalda, sommergeva tutto con il tepore della sua mano, con lo strano profumo che emanava dai suoi capelli, con la vocina sottile con cui a tratti tentava di rompere quel silenzio innaturale.
Dopo un poco uscimmo dalla rete di vicoli in una strada che conoscevamo bene e quasi senza accorgercene ci ritrovammo davanti al grande portone del “Carducci”.
Si può provare nostalgia a sedici anni?
Quella Scuola l’avevo lasciata da quasi due anni per il Liceo ma ricordavo ancora la classe, le voci dei compagni, i rumori, le corse per lo scalone e il profumo del gelsomino nel grande cortile.
Anche se le nuove sensazioni che stavo provando sembravano avermi in parte attutito anche i ricordi, rivedevo tuttavia me stesso fra quelle mura, percependo chiaramente un legame non ancora allentato, diverso da quello che cominciavo a provare per la nuova Scuola, la Scuola dei grandi.
Forse per questo ritenni naturale, in quel momento, costruire proprio in quel luogo anche un nuovo ricordo, qualcosa che in futuro avrebbe dovuto essere importante, da aggiungere alle emozioni e alle scoperte che ancora mi legavano al Carducci.
Vidi, intanto, accostata, la porticina laterale che usavamo noi ragazzi quando eravamo in ritardo: dava su una scala di servizio, e di là, con la complicità di Antonio, il custode, ero passato tante volte direttamente nel corridoio principale.
-“Vuoi vedere la mia vecchia classe?” – chiesi a Mafalda spingendo la porta con studiata noncuranza.
-“E puoi entrare?”- si sorprese lei mostrandomi un sorriso alterato da una smorfia di incredulità esagerata.
-“Certo che posso!”- Risposi, e nel farlo, tentai di assumere un piglio sicuro, sprezzante – “E che? Non posso far vedere la mia vecchia classe agli amici? E poi, stai tranquilla, oggi è festa, non c’è nessuno.”
Mentivo. Sapevo bene che Antonio abitava nell’ammezzato e che lui o la figlia dovevano essere in casa se il portoncino di servizio era ancora aperto: speravo solo che fino a sera non avrebbero sbarrato la porta chiudendoci dentro.
Al primo piano il silenzio innaturale e l’oscurità del grande corridoio centrale mi frastornò al punto da esser tentato di tornare indietro. Poi, a poco a poco, ogni particolare ridivenne familiare e quel silenzio cominciò ad ovattare persino la paura.
Le porte delle classi scorrevano alla mia sinistra e con naturalezza aprii quella della III E.
Stando sull’uscio vedevo il mio banco, in seconda fila, ancora con i segni e le figure che avevo intagliato con il temperino per vincere la noia dell’ora di Storia.
Poi, per un attimo, immaginai la faccia dei miei compagni, tutti seduti al loro posto, con gli occhi sgranati per via di Mafalda.
Vidi quello spilungone di Ragusa, seduto in fondo alla classe, col suo maglione rosso e i capelli a spazzola e Pellegrini, piccolo e scuro e con gli occhietti miopi. Ma soprattutto rividi il brutto muso di Andrea Scimone, il ripetente dell’ultimo anno, il “grande” della classe. L’ultimo in quasi tutte le materie ma il Capo, per vocazione.
Lo immaginai fare smorfie e risolini dal terzo banco sotto la finestra, cingersi il petto ripetutamente con le braccia e mandare baci rumorosi nell’aria. Quell’immagine mi danzava davanti con tanta nitidezza da darmi fastidio.
Scimone il ripetente, il grande, il capo: lui sì che ci sapeva fare con le donne! Lui sapeva come abbracciare, come baciare! Almeno così diceva. E noi ci credevamo. Volevamo crederci.
Forse perché avevo un estremo bisogno di aiuto in quel momento, ripensai in fretta ai racconti di Andrea. Mi sembrò di rivedere il suo atteggiamento un po’ sornione, di risentirne la voce bassa, da cospiratore, quando raccontava a noi, assiepati attorno, le sue esperienze.
Scimone giurava di avere avuto tre ragazze. Due le aveva proprio baciate in bocca. Baciate davvero, con la lingua. Una no. Aveva l’apparecchio per i denti e gli faceva senso.
– “Con la lingua?” – chiedevamo.
– “Ignoranti! Senza lingua non è un vero bacio: è una schifata, ragazzi” – ripeteva al suo attento uditorio – “Senza lingua è una cosa da fratelli, da bambini o da scemi”.
– “Ma che si sente?” – chiedeva qualcuno con interesse.
– “Che si sente?” – riprendeva Andrea dopo una lunga pausa di riflessione inframmezzata da risolini sarcastici – “Mondo boia, tutto si sente: ce l’hai presente il fuoco? Ecco immagina un pezzo di fuoco che ti fruga dentro, nella bocca, nello stomaco, nelle vene…una cosa unica, mondo boia, unica, capisci?”
Dopo avere afferrato l’uditorio di solito Andrea si fermava di botto, sapientemente. Poi riprendeva:
– “Beh, però bisogna saperci fare …” e lasciava la cosa in sospeso in attesa che noi chiedessimo i dettagli.
E lui li dava tutti quei dettagli, con parole e immagini, tutti animati da un assolo di schiocchi, smorfie e mugolii che si perdevano in una risata generale.
Ecco: mi ero creato un suggerimento e adesso volevo seguirlo. Baciare Mafalda. Baciare finalmente una ragazza… Il mio primo bacio. Là, subito. Fare adesso ciò che per tanto tempo era stato oggetto di battute di spirito e sottintesi, ma soprattutto di sogni ad occhi aperti cullati di nascosto nei lunghi dormiveglia o ripresi al risveglio, in una sorta di scaramantica sequenza.
Forse era proprio questo il ricordo che affannosamente tentavo di costruire, per inserirlo, come la perla di una collana, fra quelli che mi legavano al Carducci.
Baciare Mafalda. Congiungere due bocche non doveva essere poi così difficile.
E quelle labbra, che adesso non sorridevano più, tenute semiaperte per l’affanno della salita e da cui si intravedeva appena la fila dei piccoli denti, quelle labbra ora mi apparivano vicine e possibili, atteggiate ad un richiamo spontaneo ripetuto in ognuno dei lunghi respiri.
“Adesso!” – mi dissi mentre il fantasma di Andrea Scimone cominciava a svanire tra le carte geografiche appese alla parete in fondo all’aula – “Adesso! Adesso! Adesso!”.
Forse Mafalda si aspettava un bacio, ma non così, senza una parola, e proprio sull’uscio della III E. Ma non mi respinse: dopo un po’ le sue piccole labbra, prima serrate, si distesero sulle mie e rispose al mio bacio con una certa tenerezza ma senza calore, staccandosi quasi subito per guardare, con apprensione, il lungo corridoio vuoto.
Questo era “baciare una donna”? Dov’era la magia, il calore, il fuoco dei baci di Andrea Scimone?
Mi sentii deluso, quasi defraudato di un sogno.
E intanto continuavo a vedere Andrea fare le sue mossette dal banco sotto la finestra e Pellegrini, Ragusa, Finocchiaro: tutta la classe lo imitava… Mi guardavano e ridevano, ridevano… Tutta la Terza E rideva per quel misero bacio impaurito.
D’impulso spinsi Mafalda dentro la classe chiudendo la porta con un calcio e ripresi a baciarla con furia sugli occhi, sul viso, sul collo, stringendola tanto da sentire i suoi piccoli seni aderire e comprimersi sul mio petto. Poi accostai piano le labbra alle sue insinuando la lingua fra i suoi denti piccoli e taglienti.
Mentre gustavo gli strani umidi sapori di Mafalda, pensai di nuovo ad Andrea Scimone con un senso di gratitudine e d’invidia. Aveva ragione quel porco, oh sì, che aveva ragione!
Quanto durò quel bacio? Forse il tempo di un lungo respiro trattenuto. Fin quando Mafalda si staccò ansimando, sorpresa, e stette immobile, guardandomi fissa con i suoi occhioni scuri, sgranati, pieni di meraviglia. Era il suo primo bacio, ne ero sicuro e in quegli occhi sgranati mi sembrò di vedere il turbinìo dei suoi pensieri, i dubbi e le risposte che si dava e che io non riuscivo a decifrare. Ed ebbi una fitta di paura.
E se Scimone era stato un bugiardo? Se aveva detto solo una smargiassata e se quel bacio umido, dopo tutto, era proprio schifoso per una donna?
Fu un attimo, ma mi parve eterno. Poi sul viso di Mafalda si disegnò un sorriso strano e lei mi si accostò di nuovo, socchiuse gli occhi e, prima che potessi sorprendermi del tutto, sporse fuori la lingua tenendola fra le labbra come un piccolo rosso bocciolo appena sporgente dai denti, o come una caramella alla fragola da mangiare in due. E con quella lingua bloccata fra i denti cominciò a segnarmi le labbra, quasi a volerne ben comprendere le linee e sentirne il sapore.
Restai per un po’ immobile, stranìto, tentando di capire quella carezza bagnata. Poi la ribaciai e le mie mani, senza una guida cosciente, vagarono affannose sui suoi seni, sulle spalle, sui fianchi, assorbendo avidamente la consistenza e il calore di quel piccolo corpo, seguendo le sue curve, scoprendo la realtà di un sogno.
* * *
Fu così che ci trovò Antonio, il Custode: indaffarati in preliminari sconosciuti, rossi, eccitati, ansanti, con la bocca e parte della faccia ancora umida.
Antonio stava lì sulla porta a guardare con i baffi storti e il viso butterato, gli occhi rossi e cisposi, immobile.
Il velo spesso e morbido in cui mi ero avvolto, protettivo come un bozzolo, fu, allora, squarciato da un lampo di razionalità: una miriade di domande mi si affacciarono alla mente, confuse, contraddittorie, urgenti: da quanto tempo Antonio ci spiava? Aveva visto il nostro primo bacio goffo sull’uscio dell’aula o ci aveva scoperto solo da poco? Perché quel silenzio, quell’immobilità?
D’un tratto Antonio si mosse: lentamente, con la bocca atteggiata ad un sorriso ebete che mostrava i denti scuri di tabacco, il passo malfermo, le mani protese.
Non l’avevo mai visto in quello stato: puzzava di vino.
Mafalda sembrava scomparsa. Mi accorsi che si era seduta sulla pedana della cattedra, mezza nascosta dalla scrivania. Anche i fantasmi dei compagni che mi ero costruito erano svaniti. Mi ritrovai solo: Scimone, Ragusa, Pellegrini, Finocchiaro, tutti i compagni della “Terza E” che avevo inserito in un’immagine rassicurante e familiare erano stati risucchiati improvvisamente nella realtà di un’aula squallida, deserta.
Unica vera presenza Antonio, minaccioso e patetico nello stesso tempo. Un Custode ubriaco.
Sosteneva il suo corpo massiccio, sbilenco, appoggiandosi ad un banco della prima fila, ad un metro da noi, con la bocca semiaperta che mostrava i denti scuri in una parodia di sorriso, inondandoci di un puzzo stantio di vino. I pantaloni scuri che indossava non incontravano da gran tempo il ferro da stiro e la giacca, stropicciata e piena di rammendi mal fatti, era quella di una vecchia divisa da bidello che portava ancora, sul colletto, gli emblemi della scuola.
Anche se ero inguaiato fino al collo, mi sorpresi a pensare alla stranezza di quell’abbigliamento trasandato: ricordavo, infatti, un’immagine di Antonio assai diversa, impeccabile nella sua divisa, come tesa a riscattare l’umiltà del lavoro con la dignità esasperata della funzione.
Antonio, intanto, aveva spento quel sorriso di ebete e aveva assunto l’aria furba e petulante propria degli ubriachi.
“Io a te ti conosco – disse indicandomi con la mano grassoccia e malferma – Ma sì che ti conosco! Tu sei… Tu sei… Chi sei?”
Silenzio.
“Ti chiami Lino, vero? Paolino… Paolino Scalìa? Sì, tu sei Paolino Scalìa… E che ci fai oggi a Scuola, Scalìa? E’ vacanza. Non lo sai che è vacanza? “
Silenzio.
– “E lei chi è? – fece indicando Mafalda – Ma che scemo che sono, che ti chiedo a fare… ma certo… quella è tua sorella, non è vero?”- Le parole erano sempre più impastate, quasi incomprensibili, tanto da farmi credere che era ubriaco al punto da poterlo fare fesso.
Così annuii due o tre volte.
Ma non era ubriaco a quel punto: la sua risata sguaiata rimbombò a lungo nell’aula rimbalzando fra le pareti nude e i banchi vuoti.
-“Tua sorella, sì! E così tu e tua… sorella siete venuti a santificare la festa nella scuola!”- riprese cantilenando -“Carina tua sorella… e ci sa pure fare, per la sua età. Bravi… Bravi… Ma non a scuola!”
Socchiuse gli occhi, probabilmente per concentrarsi su frasi che affioravano a brandelli, immersi nei fumi dell’alcool:
-“Oggi È Sant’Agata, ragazzi, e si và chiesa o in processione, dietro la Vara. La scuola non è una chiesa ma neanche un bordello… La scuola è la scuola… si studia a scuola. Ed a scuola c’è Antonio. C’è sempre. Sembra che non vede e che non sente. Ma Antonio ci vede e ci sente. ”
La sua voce si abbassò di tono, e, spostando il suo ditone verso Mafalda, sussurrò, quasi con dolcezza, gli occhi socchiusi, inseguendo chissà quali pensieri:
– “Lo sai che tu un poco somigli alla mia Agatina di qualche anno fa?… Ci somigli, ci somigli proprio, sai? Piccola e con i capelli neri come sua madre buonanima, mia figlia. Lo sapete come si chiama mia figlia? No? Proprio Agata, si chiama. Ed oggi è la sua festa. E dov’è adesso la mia Agatina? Nel continente. Sissignori, è nel continente.”
Durante il soliloquio di Antonio, Mafalda era rimasta rannicchiata sulla pedana della cattedra. Per rassicurarla, in una pausa dei vaneggiamenti di Antonio mi girai e, sorridendole, le strizzai un occhio.
Antonio, intanto, continuava, quasi declamando:
-“Nel continente, sissignori! Ma non a un paio d’ore di treno e di traghetto. Nossignori. Un intero giorno ci vuole, in treno, per andarla a trovare a Milano… E oggi è la sua festa. Agata, si chiama, l’ho già detto? Un colpo di telefono, ciao Agatina, come stai ? come và il lavoro? con chi vivi? Stai con un’altro? E come si chiama? beh, tanti auguri, buongiorno e arrivederci. Ci vediamo in estate, forse. E se in estate non sei comoda, forse ci vediamo a Natale… Forse salgo io. Forse. Forse. Sempre forse. Di sicuro c’è che puoi annegare nel vino e in un mare di merda, qui, solo come un cane.”
In quel cumulo strano di emozioni in cui mi dibattevo s’insinuò persino un alito di pena per quell’uomo. Lo ricordavo bonario e sornione quando, in ritardo, salivamo le scale a quattro gradini per volta, trafelati, oppure seduto beato su una sedia vicino al portone della scuola, a prendere il sole, sempre pronto a un battuta di spirito nel suo modo sgrammaticato e paterno, a cui rispondevamo a tono, prima di correre via.
Ricordavo, appena, anche sua figlia Agata, di quattro o cinque anni più grande di me, una signorina delle Superiori che non degnava di uno sguardo noi della Media.
Come risvegliandosi da un dormiveglia che l’aveva sorpreso suo malgrado, Antonio si riscosse e sedutosi con una certa dignità sul ripiano del primo banco, stese una mano indicandomi la porta: -“Ora prendi la tua sorellina e te ne vai…” – La sua voce non tremava quasi più ed era cresciuta d’intensità al pari del fetore del vino – “E tu, sorellina, è meglio che torni a casa… forse tua madre ti sta aspettando… (La voce era ridiventata cupa e impastata, quasi un sussurro) forse ti aspetta anche tuo padre…”
Mafalda, con gli occhi stralunati e il viso rosso, seminascosto da una massa di capelli scarmigliati, si avviò verso la porta e io la seguii tentando di mantenere un brandello di dignità. Ricordo che mi sforzai di non abbassare lo sguardo mentre passavo davanti ad Antonio. Lo salutai, anzi, come ai vecchi tempi, ma lui non mi rispose.
Lo udii ancora biascicare qualcosa, a metà tra un’imprecazione e un singhiozzo, mentre eravamo ancora nel lungo corridoio. Poi solo il rumore dei nostri passi ruppe il silenzio delle scale buie e dell’androne.
Fuori era già sera.
– “Antonio mi ha scambiato per un altro” – dissi con studiata noncuranza – “A quello gli si è fuso il cervello! E’ rimasto solo e si cuoce nel vino. Chi lo conosce questo Paolino Scalia? Chi l’ha visto mai?”
Mafalda non rispose: la luce di una vetrina mi mostrò il suo viso non più rosso ma pallido e smunto, a cui i colori dei lampioni e dei neon appena accesi davano strani riflessi di cristallo sotto gli occhi. Piangeva.
* * *
S’udivano ancora, in sordina, i rumori della Festa che continuava in vie e piazze lontane e il cielo, sopra i neri profili dei tetti, era colorato dai caldi riflessi del tramonto e, a sprazzi, dai bagliori dei fuochi d’artificio che con le loro cascate di scintille multicolori illuminavano di verde, di rosso e di giallo i balconcini dei piani più alti.
Chissà in quale quartiere era adesso ferma la “Vara”?
Guardai Mafalda con un vago senso di colpa, impacciato per le lacrime che imperlavano le sue ciglia e ancor più per il suo mutismo, cercando una parola, la frase giusta… che non venne.
Continuai a fissarla muto ancora per qualche secondo e dovevo avere proprio un aspetto strano, contrito, forse ridicolo, perché lei improvvisamente mutò espressione e cominciò a ridere, a ridere, tirando su dal naso e strizzando gli occhi ancora bagnati. Ne discesero due grosse lacrime che le rigarono il volto minuto con due segni luccicanti come mostrini posticci.
– “A quest’ora al Carducci non c’è nessuno, eh?” – disse rifacendomi il verso. E sempre ridendo prese ad abbracciare i piccoli tronchi degli aranci selvatici del viale, girandovi attorno in una danza infantile.
Il suo riso stava cancellando, d’un tratto, impietosamente, le ore appena trascorse. Pensai che non poteva essere suo quel corpo che avevo sentito tra la folla, non suo quel profumo di donna, non poteva essere stata la sua la bocca che avevo baciato e di cui conservavo ancora il sapore. Mentre saltellava tra gli aranci selvatici guardavo, meravigliato, i suoi piccoli seni e le sue gambe troppo magre. Guardavo, quasi fosse la prima volta, quel viso da bambina.
E anche a me venne voglia di ridere. Di me, di Mafalda, di Antonio, del bacio bagnato e di Scimone il ripetente.
Poco dopo ci rincorrevamo in una specie di ginkana improvvisata tra gli alberi del viale, e lei mi gridava dietro, a cantilena: “Ohè, Lino, Lino Scalìa!” e io, di rimando: “Ciao sorella, sorella di Lino!”.
Ci fermammo solo alla fine del viale, ansanti, già in vista della casa di Mafalda.
* * *
In quel luogo prima tanto rumoroso per i botti e per la folla urlante, ora stagnava solo un silenzio pesante che ci faceva udire, amplificandolo, il nostro respiro affannato.
La strada era quasi deserta e solo qualche venditore ambulante di ceci arrostiti e zucchero filato armeggiava ancora dietro il suo carrettino sgangherato, riponendo la roba.
Due donne anziane, vestite di nero, con una lunga gonna e una camicetta, da cui spuntava, come unico ornamento per la festa, un bianco colletto di pizzo, chiacchieravano impilando a fatica alcune sedie impagliate, mentre una terza, più giovane e con un bambino attaccato alla gonna, spazzava il tratto del marciapiede su cui s’affacciava l’uscio, appena socchiuso, di una casa terrana.
Il cielo, non più colorato dai fuochi d’artificio, era diventato nero e già s’intravedevano, pallide e tremolanti, le prime stelle.
Enzo Maria Lombardo
Gustandomi l’attesa, la parte “passionale” mi è veniuta in mente una frase di Leila Mascano in “Fammi ridere”: un romanzo di spessore con aspetti intriganti. Leila scrive: Non c’è cosa più divina che s… (i puntini Enzo te li lascio interpretare) la cugina. Poi però il tuo sentiero si sviluppa diversamente proprio sulla misura che corrisponde all’età dei protagonisti.
A parte alcuni passaggi che sanno di didascalia, nel complesso si legge con vivo piacere. Bello il riverbero della festa dal sapore paesano, anche nell’ambiente cittadino.
Hai ragione, caro Corrado, poteva succedere, confermando la frase di Leila Mascano. Ma non è successo. Peccato?