di Mario Ughi
Loriana ha deciso: vuole smettere di fumare. Nella tasca del giaccone ballonzola quello che nelle sue intenzioni dovrà essere l’ultimo pacchetto. All’interno, cinque sigarette ciottolano come dadi pronti ad essere lanciati. Tutto sommato, un suono rassicurante.
Loriana cerca di sondare la profondità della propria convinzione. Con cinque sigarette non arriva neanche all’ora di cena. Magari potrebbe comprare un pacchetto e tenerlo di scorta, perché sua madre cucina troppo bene, e la sigaretta dopo aver mangiato è una delle migliori in tutta la giornata.
Si ferma in mezzo all’incrocio di piazza Cavour, fruga nelle tasche, estrae lo stretto cilindro, accende.
Quattro sigarette.
A guardarla bene, questa schiavitù è davvero insopportabile e mortificante, pensa, mentre con gli occhi socchiusi aspira una profonda boccata.
Lo sguardo le cade sulla punta delle dita: anche mangiarsi le unghie è una cattiva abitudine. A lungo andare, sta arrivando al sangue. Dovrà porvi rimedio. Magari dopo aver smesso di fumare.
Durante la lunga passeggiata pomeridiana ha fatto sosta nell’ultimo megastore di abbigliamento aperto in via Grande, dove prima c’era il cinema La Gran Guardia. Ha comprato una maglia dal colore improponibile, stretta come il guanto di un chirurgo, non ha davvero idea, adesso, di quando potrà indossarla. Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto costituire una forma di ricompensa: se la sarebbe messa una volta gettata l’ultima cicca, e quel colore assurdo sarebbe servito a ricordarle l’avvenuta conquista di una nuova libertà. Anche il sentirla così stretta, avrebbe contribuito a mantenere vivo il ricordo, a tenere la mente ferma nella decisione. Ora sospetta che possa rappresentare soltanto una forma di tortura. Già si vede, insaccata in una maglia troppo stretta, quasi una camicia di forza, a combattere con il desiderio di fumare. Che stupida.
Continuando a camminare, imbocca via Ricasoli. La prima tabaccheria in vista attira la sua attenzione. Si ferma a guardare la vetrina, cercando di resistere alla voce interiore che la spinge a mettersi al riparo con un acquisto preventivo. Non sa neanche dove ha gettato la sigaretta finita. Ha fumato in modo inconsapevole, quasi senza gusto, un vero spreco. Visto che le sue scorte sono così limitate, dovrebbe soffermarsi ad apprezzare il gesto in modo consapevole, invece di perdersi nei propri pensieri per poi trovarsi senza il ricordo. Si guarda le mani: le unghie ricresceranno, basterà smettere di aggredirle. Un maggior rispetto per il corpo, quello che ci vuole. Volersi bene.
Riprende a camminare. Attraversa via Ricasoli come uno zombie, la mente persa nell’inseguire con affanno la moltitudine di riflessioni scatenata da un semplice concetto: volersi bene.
Sono molte le cattive abitudini alle quali dovrebbe mettere un freno. E fumare è la prima, pensa, mentre cerca nelle tasche l’accendino. Tre sigarette.
All’imbocco di via Marradi getta la cicca per terra, la spegne con la punta della scarpa provando a vincere il senso di vuoto. Cerca dentro di sé la forza per sopravvivere alla notte che sta appena iniziando, per sostenere i gesti che dovrà compiere, privandoli di sforzo apparente, ricalcando con accurata sollecitudine la parte che le viene imposta. Già si vede seduta al tavolo di cucina, con un sorriso ben calibrato stampato sulla faccia.
Sua madre cucina davvero così bene, si chiede, oppure lei si getta avida sul cibo soltanto per ignorare il pesante silenzio che cala sulla tavola, da quando sono rimaste sole? Forse pianta gli occhi sul piatto per ignorare gli sguardi tristi lanciati oltre il vetro della finestra, verso la strada vuota.
Appena terminata la cena si affretta in camera, per fumare davanti alla finestra aperta, perché nel resto della casa le è proibito. Il campanello la sorprende sulla soglia della terza sigaretta. Una voce lontana la informa che Marco la aspetta dabbasso. Ripone la sigaretta nel pacchetto, si lava in fretta i denti, afferra il giaccone lanciando un muto saluto agli occhi di sua madre annebbiati dalla luce fredda della televisione, scende le scale a piedi, si infila in macchina con un sorriso tirato, fruga nella borsa, accende una sigaretta.
Loriana si scuote da questi pensieri verso la metà di via Marradi, quando i suoi occhi si scontrano con lo strano edificio che ha preso il posto del cinema Metropolitan. Davvero non ne comprende la funzione. Le linee della facciata che scendono a scroscio la confondono. Disorientano il suo precario senso della prospettiva. La fiamma dell’accendino le ferisce gli occhi. Due sigarette.
Tira un sospiro denso di fumo. La città le sta cambiando intorno, mentre la sua vita è una barca alla deriva, inconsapevole. Ingovernabile.
Volersi bene è un concetto privo di senso, pensa Loriana, quando Marco mette in moto in silenzio, senza quasi degnarla di uno sguardo, assorbito dalla musica techno, oppure house, o quel cazzo che è, sparata a decibel spropositati da una serie imprecisata di altoparlanti. La macchina si stacca da marciapiede con uno scatto rabbioso, affronta velocissima una serie infinita di semafori gialli, ogni curva sembra la ricerca di un albero dal tronco solido contro il quale annullarsi.
Loriana neanche guarda, evita di protestare, ma non per fatalismo, questo è al di fuori della sua portata: è solo che, in certi momenti, non le sembra di esistere. Non ha più consistenza del riflesso sul parabrezza.
Davanti a villa Mimbelli scuote la testa, frastornata: è così abituale l’immagine della sua figura silenziosa seduta nell’auto lanciata in corsa, che le sembra di trovarsi in due posti diversi. Ma per adesso è ancora qui: a controllare il traffico serale prima di attraversare la strada, le unghie rosicchiate a misurare gli angoli del pacchetto di sigarette. Lo sguardo perso nel vuoto è la misura della sua rassegnazione. Diamogli fuoco. Una sigaretta.
Al termine della folle corsa, come sempre, arrivano al locale scelto come punto di ritrovo con gli amici. Uno dei tanti. Bevono qualcosa, strillandosi nelle orecchie frasi subito catturate da una musica incalzante e portate via, a morire chissà dove. Sorridono mostrando i denti, ma evitando di mordersi. Brindano all’ennesima notte priva di senso, poi Marco la trascina via, in qualche anfratto nascosto della città, sotto un lampione smorto. Si spinge dentro di lei, senza tanti fronzoli, alla ricerca di qualcosa che non ha mai conosciuto, che non ha un nome, un sapore, un significato. E dopo, quasi senza memoria, di nuovo a casa. Il respiro di sua madre addormentata, la lampada sul comodino da spegnere, i passi lenti nel buio corridoio privo di luna.
Loriana si guarda intorno. I pensieri l’hanno distratta, portandola fuori strada. Dovrà tornare indietro. Lungo il breve viale gli alberi filtrano la luce dei lampioni. Tira fuori il pacchetto. Una sigaretta.
L’unica compagna della sua vita.
Tratto da: Livorno – Cronache immaginarie
Mario Ughi
Il baratro del nulla, il desiderio flebile di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, utile per evitare il precipizio incombente, il grigiore di un’anima in pena non addolcito da effimeri atti che non lasciano traccia se non di intima miseria: queste sono tutte sensazioni e situazioni che sono ben delineate nel racconto. Un racconto che non abbisogna di incipit, di trama e conclusione per affascinare (o atterrire) il lettore: basta solo l’ampiezza e la profondità dell’analisi della dissoluzione di un animo umano che non riesce a risalire il baratro di un’esistenza mancata.
Un grazie per la lettura e un plauso alla sensibilità dell’Autore.
Enzo Maria Lombardo