Lorenzo Poggi e le simmetrie del perpetuo presente


A cura di Augusto Benemeglio

1. Il Qoelet

C’è un tempo-orale/pieno di tuoni e fulmini/e c’è un tempo per il silenzio.
C’è anche il tempo dei pianti e dei sorrisi/sulla tela raffazzonata della vita. (Lorenzo Poggi)
Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il libro della Bibbia più enigmatico ( e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora tutti gli angeli persero la vita. Fuorchè uno, ferito, con le ali mozze. E quell’angelo divenne il poeta.

2. Poeta da web

Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi, sempre in bilico tra l’ironia, la polemica, e la pietas , un poeta che vive le simmetrie del presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto

– “Mi piacerebbe/ gettare a mare scialuppe d’ortiche/e lunghe scie/per aprire i sentieri di morte/che lastricano il fondo” .

Poeta da web , con dissonanze lessicali, che cerca vibrazioni liriche mediante la fantasia creativa, ma anche la lacerazione, il caos, l’assurdità, la contrazione, la concisione, insomma la struttura lirica ormai codificata della poesia moderna. E lo fa con tutte le sue interconnessioni, i deliri, le farneticazioni, i palpiti, gli enigmi, gli spazi sovrapposti, la velocità che si fa caduta perpetua, pietà sulle razze erranti di sofferenti cittadini aquilani devastati dal terremoto (“Ci sono macchie verdi/a marcire nel prato,/spazi uggiosi di riposi forzati/e campi al margine /brulicanti di scarpe avariate”).

3. Più reale del corpo che abiti

E poi gli smarrimenti, le solitudini, la goccia di sudore e il pensiero fulmineo che tende un ponte da sé stesso a te stesso, ed ecco il reale che si disfà , e l’irreale, il mediatico che si fa più reale del corpo che abiti, si ferma in mezza alla tua fronte, si fa tuono che percorre la pianura, luce che accende le pietre, sabbia e lago di memorie nude che rifanno il sentiero della tua vita (“Vestito di niente/m’impolvero nel vento/che passa /come sabbia tra le dita”). Lorenzo è uno che va diretto al cuore delle cose quando si tratta di denunciare, sferzare, con una satira dolorosa e amara : “Di vaghi dolori son piene le fosse,/ di pochi avanzi si nutre il destino,/di tutto a puttane son pieni gli spigoli,/di senza schermo non c’è niente di vero,/di voci ataviche è rimasto il colore,/di spot alla moda c’è rigurgito e vomito,/di senza tetto è colma la storia,/d’intelligenze vivaci s’imbellettano specchi,/di parole sprecate s’intrecciano arazzi,/di buona volontà è lastricato l’inferno,/di lingue biforcute ci son gare nei vicoli”.

4. La svolta in un castello romano.

Ma la pietra miliare del suo destino, a cui nessuno può sfuggire: sta in un angolo di strada qualsiasi, in pendio, dove c’è il segno dell’orologio del campanile, il segno della spezzata, il viale dei tigli del silenzio e della dimenticanza, in uno dei castelli romani più vieti, tra “Pizza Vino e Nannì”, quando percorri la strada in bicicletta col tuo migliore amico e non sai che sprofondi negli abissi: “Mi aggredisce improvviso il ricordo/e senza difese lo accolgo./ Ritorna prepotente alla mente/la realtà orfana e incompiuta./Dovevamo invecchiare insieme/ con tanti progetti in cantiere./ Il nulla mi afferra di nuovo./ Rivedo il tuo volto sereno e beffardo/ come fosse uno scherzo voluto./Hai beffato la vita e la morte/ non finendo la vita/ non iniziando la morte./ Sei ovunque”.
Fino ad allora la poesia era stato un vago soffio di pagine e inchiostro azzurro, la trama rassegnata e nostalgica del dormiente chiamato ad altre cose da fare , ricordi di un liceale nei campi di girasoli di Roma,- Catullo, Ovidio, Lucrezio, i latini in genere, ma anche dei poeti greci (Pindaro su tutti, ma anche Saffo), tal altra ai moderni, a partire da Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, ai surrealisti, agli ermetici, soprattutto. Senza mai trascurare i poeti dialettali romaneschi classici, il Belli, Trilussa, Pascarella, Zanazzo, perché Lorenzo sente molto la sua romanità e la sua vena popolaresca spesso graffiante, satirica (“Oggi è tutto facile./ Hanno messo le rote puro ar cervello./ Ce s’ammazza pe nun sapè che fa./ Oppure s’ammazza pe nun sapè che fa”).
Ora, dopo la morte dell’amico, la poesia risale dalle radici, come una frattura tra linguaggio e idealità, tra volere e potere, tra aspirazione e fine. La poesia si fa scoglio, naufragio, annegamento, caduta, notte, inanità, tutte forme che stanno ad indicare il fallimento, e tuttavia su questo fallimento Lorenzo può esprimere se stesso e il senso originale della sua poesia che può e vuole toccare il suo tempo perpetuo, come una pagina di cronaca nera, attimo per attimo, respiro per respiro, guardando il tutto dal Grande Osservatorio del suo Cuore.

5. L’architettura dell’abbraccio.

La sua poesia diventa l’architettura dell’abbraccio: “ Mi sporgo su rive di secoli/ da sponde fruscianti di girasoli anneriti,/muri incagliati su libri di storia,/prati che trattengono l’eco/ delle grida d’un porto interrato/ e scie ischeletrite di navi al museo”.
La poesia è come la spazio intorno a noi che rabbrividisce come un gran bacio per tutti e per nessuno, che può scaturire dalle tenebre come un enorme ventaglio di pace o di solitudine come disperazione. La poesia ora ritorna come lama brutale, sorriso seppellito, o beffardo, sogno di fumo acre e sterco di colombe, di muse o sirene stonate che ormai ”Aggiustano ombrelli… neri da temporale,/ infilano zeppe per ridare equilibrio,/mettono fine a fiammate improvvise,/ puliscono ugelli che non sanno cantare,/ rattoppano rosa una giornata normale”.
La sentina dell’anima è piena di materiale, poetico e impoetico, di parole brutali e volgari, di lacerazioni, il fiume della memoria trasporto tutto, immondezza, rito, istinto catrame e rischiaramenti, schegge di luce, ineffabile bellezza, distruzione. Tutto si deposita e ne esce trasfigurato. Ma spesso ti rendi conto che non è tua la volontà di guidare l’astronave del pensiero e della fantasia, c’è un altro “inquilino” dentro di te che fa i raccordi, traccia le linee e opera in un concerto di ambiguità espressiva che sfugge talora anche la tua comprensione.

6. L’incubo della storia

Tu sei solo uno strumento, o, peggio, un ciottolo, uno scarto della storia: “Tra i sassi firmati scoloriti dal tempo/s’adagia un percorso battuto dal vento./ Risuonano passi pesanti di storia/ ruote di legno e persone in colonna./ S’alza un canto come un lamento/dalle bocche cucite da fame e da freddo./S’invocano i santi, si accendono fuochi/le facce scavate, le occhiaie ormai secche./ Succedono cose più grosse di noi/ La storia da scrivere, le gesta dei grandi./Non siamo che scarti di pagine vuote/ come silenziosi frastuoni di niente”.
La storia è ancora quell’incubo da cui tutti cerchiamo di risvegliarci. E’ forse allora che ti accorgi che tutto, – anche l’assoluto – soffre d’isolamento nel mormorio delle sere di malinconia: “Son giunti venti da ovest a bussare sui vetri lacrime di pioggia /in questa stanza desolata./Al centro solo una scatola dalle maniglie dorate./Contiene gli ultimi raggi di sole rubati una sera di maggio,/muri screpolati da gerani e balconi in attesa d’un saluto”.

7. Cacciatore di attualità

Tutto quel che verrà a bussare ai tuoi vetri è occulto, magico luminoso e incerto, tutto diventa una gran parola chiara, un palpito di vocali, ma anche una trappola da cui non potrai più uscire, ormai sei entrato nei crepuscoli dell’inconscio e affronti il bello della diretta, là, in quel mondo mediatico di nodi aggrovigliati di luce, in quella vetrina di raffiche turchesi, topazi e pappagalli coloratissimi in fuga, da un trespolo all’altro, che arrivano al tuo balcone, al tuo profilo, sei taggato, non puoi sfuggire da facebook. Ed eccolo, Lorenzo Poggi, coi lampi dei suoi flashes irrelati scattati con quel suo clic invidiabile di “primo sguardo” di un presente perpetuo, in cui c’è un po’ di tutto, la navigazione su una foglia di fico insieme, la pioggia che non ti bagna, la goccia di fuoco, il mondo che comincia ogni giorno e le radici dello spazio della fantasia che non pesano più dell’alba e dei nostri corpi distesi nell’aria; c’è in lui insomma una distratta leggerezza e una saggezza autorevole, il fanciullo curioso e l’uomo che ha visto molte pianure, mari e monti, ma che continua ancora ad ardere senza bruciarsi.
Lorenzo è una sorta di cacciatore dell’ attualità delle cose, delle voci, dei sussurri e grida che stanno dentro di noi. E molti suoi versi sono basati sull’auscultazione della minima traccia iridescente del reale, sul filo di una tensione e di una partecipazione attiva ai fatti e agli accadimenti quotidiani, che trasfigura con la sua capacità linguistica e timbrica, che assume diversi registri stati d’animo e direzioni, dalla sinestesia alla deformazione, dalla dissonanza all’ossimoro, dall’ironia all’elegia, dalla satira alla malinconia.

8. Le nuvole e la risacca

E’ uno che sa usare diversi strumenti, ma quando si tratta di affondare il bisturi in una società e in una vita di cui spesso si perde il senso, non si fa di certo pregare, come nella lirica inedita Storie di varia umanità, scritta una sera del 29 aprile 2012 gridando alle stelle… “Scriverò tra lacrime/ di unghie affilate/ per strappare la carne/ dall’osso/ a cerchie d’amici di ventura/ Disorientare è la regola,/ mandare messaggi,/ riguadagnare innocenza/ battendo pirati e ladri di anime.// C’è poi chi grida alle stelle/pensando ai barattoli vuoti/ da prendere a calci/come i nemici,/come sé stesso”.
Quella di Lorenzo è una ricerca di luce frustrata che comunque si fa strada con il cominciamento, il basamento, la semente latente, la parola sulla punta delle dita, inaudita, inaudibile, intera, gravida, inetta, ad annunciare il dramma, la tragedia di un tempo senza sosta di “maree spiaggiate/con cadaveri a bordo”, “cancelli chiusi, ortiche”, da consegnare alla storia e tuttavia anche ad annunciare che la vita comunque è più forte della storia, di qualsiasi storia, ma quale vita? Vita degli agnelli sacrificali d’ogni tempo, vita da streghe bruciate sul rogo. Le foglie degli alberi che assurdamente continuano a rinascere o rimanere sempreverdi, la risacca, i giochi che fa la risacca tra i nostri piedi, e poi le nuvole, nuvole barocche o nuvole di Aristofane che siano, le nuvole sono lo stupore del mondo vanno da un capo all’altro del cielo in nessun punto in nessun luogo e tu sei sequestrato ancora dalla tua ombra e non ti arriva nè suono nè vibrazione, nessuno segnale, nessun commento…tuttavia c’è sempre quel presagio di speranza nella bellezza e nel divino disegno del creato, “una voce che è dentro il rumore del mare,/ il vento che fischia tra dune fiorite,/ le nubi che passano,/ il senso da dare alla vita che scorre,/ un ruscello che cupo diventa torrente,/un lenzuolo sbattuto nel primo mattino,/ grandi occhi sgranati alla ricerca del mondo”.

9. Nessun prodigio, solo sogni e realtà.

Che cos’è l’arte poetica? Guardare il fiume ch’è di tempo e acqua/e ricordare che anche il tempo è un fiume,/ sapere che ci perdiamo come il fiume/ e che passano i volti come l’acqua…convertire l’oltraggio empio degli anni in una musica, un rumore, un simbolo…parola di Jorge Luis Borges. E per Lorenzo Poggi,- nato a Roma il 21 marzo del 1943 e che a Roma tuttora vive, ama, osserva, fuma la pipa, fotografa, vive in transito, con passione, scrivendo liriche le più disparate e diverse per metro, stile, lingua, e non sa bene neppure lui perché, né sa dove vadano a finire; che non seleziona, non sceglie, fa tutto col ritmo del cuore,il tic tac, la diastole e la sistole ; che è come un fiume che scorre senza sosta, implacabile, ineluttabile. Che cos’è la poesia? E’…tutto, è la sua vita: la poesia lo fascia, lo attraversa, trascorre dentro di lui in una immobilità vertiginosa Ora spiga di fiamme, giardini d’ossa, storia e sculture d’aria, maree di legni erranti e onde luttuose. Così capita che un giorno dica: “Mi sono accorto/ di non sapere della risacca,/ di non sapere della forma delle nuvole/ e neanche dell’anima dei sassi”.
Questo è il poeta, un decifratore dell’anima delle cose, e per un vero poeta ogni cosa ogni fatto, ogni evento si fa poesia. Siamo alla conclusione, siamo alla fine del viaggio, il ritorno alla nostra Itaca. Si narra che Ulisse, stanco di prodigi, pianse d’amore nello scorgere Itaca, verde e umile. (Ora d’Itaca – come sappiamo – è rimasto uno scoglio arido, un cumulo di pietre ). L’arte è anch’essa un’Itaca che promette d’essere sempre verde d’eternità, ma non di prodigi. Di sogni e realtà: “Abbiamo raccolto i panni, / preparato il fagotto e chiuso la stanza,/ la torre d’avorio ingiallita dal tempo, il solito film senza una trama”.

Roma, 24 dicembre 2013
Augusto Benemeglio

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