A cura di di Massimo Maugeri
La ragazza osserva il vuoto. L’immagine è di profilo, in bianco e nero. Sullo sfondo, nuvolaglie anonime che non lasciano presagire nulla di buono. La prima volta che osservai quella copertina, lo sguardo della ragazza mi parve sereno. E in fondo è così anche adesso, nonostante la notizia della scomparsa dell’autore sia ancora fresca e il solco nell’anima profondo. Osserva il vuoto, la ragazza. Con i capelli tirati dal vento. Non c’è sorriso, ma nemmeno inquietudine. L’amore, a volte, graffia il mondo… ma non gli sguardi. Non sempre, almeno.
Il romanzo è “Per Antonio, che è andato appena un attimo di là”. È dedicato a lui, il libro. Lo scrittore lo precisa nella nota finale: “personaggi, luoghi, situazioni che a qualche lettore potessero sembrare veri o accaduti sono solo il frutto di una sintesi letteraria tra realtà e fantasia, di quella particolare capacità che appunto la letteratura possiede di fornire una verità altra raccontando storie. In altre parole, come ha scritto Antonio Tabucchi, al cui ricordo questo libro è dedicato, raccontando menzogne. “
Rileggo questa breve nota e penso: quant’è bravo. Vedi? mi dico. Riesce a trasformare in virtuoso lirismo letterario anche il classico riferimento al “puramente casuale” dietro cui, in genere, si cautela uno scrittore per proteggersi dall’eccesso di reale contenuto nelle storie. Quant’è bravo, sì. Lo sussurro tra me, consapevole della mia difficoltà a formulare la frase usando l’imperfetto. Continuo a pensarlo al tempo presente. Come se fosse ancora qui.
L’avevo incontrato qualche mese prima. Gli avevo chiesto di raccontarmi di lui, di spiegarmi com’è che era diventato scrittore, quali erano state le letture che lo avevano reso il romanziere del dolore perfetto. Fu una bella chiacchierata. La conservo nel cuore.
Mi raccontò della sua infanzia. Mi disse che era stata caratterizzata da una salute cagionevole che lo aveva costretto a trascorrere lunghe e noiose ore a riposo. Fu grazie a quei momenti di noia, che scoprì i libri e i mondi in essi contenuti. Divenne un lettore onnivoro. Imparò l’amore per le storie, ma anche l’amore per l’oggetto libro.
Ecco. Imparare l’amore per le storie. Fu proprio quello, il verbo che utilizzò. A pensarci adesso mi sembra una bellissima rivelazione, tutt’altro che scontata. Ed è anche una frase di grande ottimismo, capace di tappare le bocche dei tanti instancabili profeti che ciclicamente preconizzano la morte del romanzo. Finché ci sarà la possibilità di imparare l’amore per le storie, il romanzo vivrà.
Continuò a soffermarsi sul suo rapporto con il libro, che definì come reverenziale. Non fu un caso che il primo lavoro che intraprese fu quello di bibliotecario. Quando poi iniziò a scrivere, lo fece per proprio diletto: l’idea stessa di una possibilità di pubblicazione gli sembrava una sorta di eresia (tanto era l’amore e la devozione che provava verso i libri). A metà degli anni Novanta, però, una storia particolare bussò alla porta della sua anima. Era qualcosa che doveva venire alla luce. Quel libro, il primo nato, giunse al mondo con il titolo “Le scarpe appese al cuore” e segnò l’inizio del suo percorso letterario. Fu un libro fortunato: trovò casa presso un editore prestigioso (Feltrinelli) e ricevette gli apprezzamenti di un grande scrittore (Tabucchi). Non si trattava di una storia di finzione, ma del racconto di un’esperienza personale. Un cammino di dolore e speranza cominciato da bambino, con un’asma, e concluso, dopo anni di sofferenza, con un difficile – ma riuscito – trapianto di cuore e polmoni. Mentre lo ascoltavo pensai che, in effetti, quella stessa salute cagionevole che lo aveva indotto a imparare l’amore per le storie aveva anche favorito la sua metamorfosi da lettore a scrittore. Il dolore perfetto partiva da lì, e da lì avrebbe attraversato gran parte delle sue narrazioni, compresa quella confluita nel nuovo romanzo che (non lo sapevo ancora) sarebbe stato il suo ultimo capolavoro.
Continuammo a discutere di libri e di scrittura. Scoprii, con mia grande sorpresa, che la sua prima lettura importante fu “L’isola del tesoro” di Stevenson (che fu anche una delle mie prime letture), seguita da “Le botteghe color cannella” di Bruno Schulz (da cui nacque il suo “Un uomo che forse si chiamava Schulz”). E poi: Finger, Joseph Roth, Gadda (scoperta pirotecnica per la versatilità della scrittura), il maestro Tabucchi. E ancora: DeLillo, Philip Roth, Ian McEwan. E, naturalmente, i grandi classici.
Parlammo delle sue abitudini di scrittura. Gli chiesi se si considerava uno scrittore “metodico” o “estemporaneo”. In altre parole: scriveva ogni giorno, o solo dietro l’impulso dell’ispirazione? Mi disse che non era uno scrittore alla García Márquez: di quelli, cioè, che affermano di scrivere ogni mattina per almeno tre o quattro ore consecutive. Il suo rapporto con la scrittura era molto particolare. Per spiegarmelo utilizzò la metafora dell’inseminazione che è all’origine del parto. Era così che cominciava: con il guizzo di un’idea che ingravida, che cresce, che gira dentro, a volte molto a lungo e senza produrre scrittura. Poi, a un certo punto, arriva il tempo in cui la storia va stesa. Ecco. La stesura. La fase più complessa. La più impegnativa. Mi disse che affrontava la stesura del testo con molta calma e cautela. Gli capitava di scrivere per tre, quattro, cinque giorni di fila, per poi prendere momenti di respiro, anche prolungati. In seguito sarebbe tornato a revisionare ciò che aveva scritto. Ci tenne a sottolineare che aveva imparato a non avere fretta grazie a un consiglio del maestro Tabucchi.
La scrittura è qualcosa di simile al vino. Bisogna lasciarla sedimentare, senza pensare alla pubblicazione, per poi riprenderla dopo settimane o, a volte, mesi. Mi spiegò che Tabucchi gli disse proprio così: quando riprendi il testo, ti ritorna quell’emozione che ti aveva indotto a scrivere? Se è così, si tratta di un testo su cui vale la pena continuare a lavorare. Altrimenti, se ti sembra un testo scritto da qualcun altro, se non ti suscita quell’emozione originaria, è solo un esercizio di scrittura… e va trattato come tale.
Ecco, mi disse: consiste in questo la responsabilità dello scrivere. Perché sì, precisò… scrivere implica anche responsabilità.
Spinto dal ricordo di quella conversazione, riprendo il libro tra le mani. Il nuovo romanzo. L’ultimo. Lo sfoglio, con nostalgia, mentre la ragazza della copertina continua a osservare il vuoto con sguardo sereno. Mi soffermo sul titolo. E annuisco. Sì, è vero, l’amore graffia il mondo. Rileggo l’incipit e torno ad affondare in quella verità altra contenuta tra le pagine. E mentre le frasi di questa letteratura magica e armoniosa mi riempiono lo spirito penso che anche Ugo, come Antonio, è andato appena un attimo di là. Li immagino insieme, a discutere di storie da imparare ad amare e di scrittura da far sedimentare come il buon vino. Di qua rimangono le loro parole.
A noi il compito di custodirle, di amarle. E di tenerle in vita.
(Dedicato alla memoria di Ugo Riccarelli)
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