Un appuntamento è un appuntamento, Michele. Quel giorno avevamo detto di vederci alle cinque del pomeriggio, dopo la lezione di canto, e avevo già passato dieci minuti in quel portone anche se c’era un freddo che tagliava le gambe con la tramontana che entrava nell’atrio facendo mulinare le foglie secche e i pezzi di carta.
Dopo altri cinque minuti avevo ormai deciso di salire le scale anche se si sentivano ancora i tuoi accordi al pianoforte e i vocalizzi della tua allieva. Ancora quelle note, sempre quelle note, strascicate, balbettate, strozzate.
Sarei salito assieme ad Emanuele, il grosso cucciolo di pastore tedesco che avevo adottato da poco. Anche lui doveva essere stufo di aspettare accucciato sullo zerbino dell’atrio e ogni tanto si alzava, si agitava, drizzava le orecchie, puntando il muso in alto, in direzione della porta dell’appartamento da cui provenivano quei suoni strazianti.
Magari si chiedeva come mai potevo restare così indifferente alle urla e ai i lamenti di un essere sofferente di sesso femminile, che evidentemente qualcuno stava seviziando con cura meticolosa e con accompagnamento musicale nell’appartamento del primo piano.
Di sicuro in quei momenti la stima che avevo guadagnato in Emanuele in quelle poche settimane di adozione scesero di molti punti.
Sembrava che addirittura non volesse riconoscere neppure il suo nome, anche se lo ripetevo forte e chiaro ogni volta che manifestava l’intenzione di salire da solo a verificare cosa stesse succedendo di sopra. Era il suo modo di contestare la mia scarsa partecipazione al dolore dei miei simili e la cattiveria che non sospettava albergasse dietro quelle tenere manifestazioni d’affetto che gli propinavo. Credo che facendo finta di ignorare il suo nome contestasse la mia indifferenza.
(In effetti sono stati in tanti a dirmi che Emanuele non era un nome da dare ad un cane. I nomi da cane – mi dicevano – devono essere brevi, una o due sillabe al massimo, possibilmente con un forte accento, con qualche gutturale per dare forza al tutto. Alcuni optavano per una sibilante che si fa sentire da lontano. Altri per le labiali, meglio se doppie, specie per le femmine.
Io non ho mai creduto a questa storia dei nomi. E’ un fatto che svilisce l’asserita intelligenza di questi animali, li umilia con i nomi più assurdi, contrasta con quel senso di fraternità e uguaglianza che vogliamo intessere nel rapporto. In un cane sensibile la cosa può intaccare anche quel sentimento filiale che matura dopo una certa convivenza. Può indurre l’animale a vergognarsi di essere chiamato in pubblico, a considerarsi “un diverso” e a nulla varranno le manifestazioni d’affetto, i giocattoli colorati, i cappottini firmati e gli impermeabilini con i disegni scozzesi se poi, con un contrasto logico per lui incomprensibile, continueremo ad appioppargli nomi come “Rik” o “Lilli”).
Comunque Emanuele aveva almeno la sua pelliccia, io no.
Neanche battendo i piedi sul pavimento potevo evitare di sentire il gelo del marmo sotto le suole delle scarpe. Il freddo saliva fin sulle gambe, mi avviluppava i ginocchi come una fascia e l’unica cosa che potevo fare era dare calci in aria come un invasato.
Così cominciai a salire le scale preceduto da Emanuele che saltellava sui i gradini a zampe appaiate, con una sorta di ansia, scodinzolando e girando la testa di tanto in tanto per assicurarsi che io non avessi cambiato idea, nel frattempo, in fatto di solidarietà umana.
Quando suonai il campanello le urla smisero di colpo, troncando una nota che non poteva esistere nel rigo musicale. Assieme alla nota impossibile si spensero anche gli ultimi residui di quel leggero timore che m’aveva accompagnato salendo.
In fondo cosa cambiava se interrompevo una lezione inutile? Perchè, cara signorina, pensai, lei è proprio negata. Michele può anche aprirsi in due, spargere il suo sangue sulla tastiera, non cambia niente. Magari è pure brutta.
Non era brutta. Oddio, non era neppure una bellezza, ma in quelle guance paffute di porcellana dipinte di fresco, in quel sorriso perenne evidenziato con la matita rossa e specialmente negli occhietti sgranati c’era qualcosa… qualcosa che dava bene il senso del vuoto tranquillo, della pace mentale, qualcosa che poteva anche piacere a chi è sensibile alla bellezza delle statue di cera.
Qualcuno magari l’avrebbe ritenuta un po’ ebete, ma io non volevo pronunciarmi troppo presto. D’altronde non ebbi neppure il tempo di pensare poiché la madre (una signora a modino e zuccherosa) facendomi sedere nel divano e offrendomi un cioccolatino, iniziò una lunga serie di convenevoli che sfociarono in una descrizione accurata della figlia (“Una perla, sa? sentirà che voce diamantina”) che – a suo dire – di lì a poco mi avrebbe deliziato con il suo canto.
Non so perché, ma ebbi l’impressione che quella faccenda del canto non è che la interessasse poi tanto. Parlando, continuava a far scorrere lo sguardo da me a te, Michele, e sembrava soppesarci, misurarci, controllava i vestiti, le scarpe. Le mie scarpe. Le tue erano nascoste dal pianoforte e poi chissà quante volte le aveva già valutate. Ad un certo punto mi accorsi che guardava l’orologio. Il mio orologio. Ma non voleva sapere l’ora: strizzava gli occhietti per vedere la marca. Non ho mai saputo se il costruttore fosse di suo gradimento.
Alla fine la madre sembrò interessarsi anche di Emanuele.
Era una mossa astuta per soddisfare la sua sete di conoscenza. Tramite Emanuele si insinuò nel mio lavoro, nei miei studi, nella mia casa, persino nel mio portafogli. Non credevo che Emanuele potesse aprire con tale facilità le porte della mia vita privata. Quando me ne accorsi era già troppo tardi. Vidi la madre soddisfatta: annuiva tra se, forse aveva fatto qualche calcolo mentale e sembrava aver preso una decisione.
A te, caro Michele, non guardava più. I suoi occhietti erano tutti puntati su di me.
Emanuele, intanto, aveva scoperto il cantuccio più morbido del tappeto, l’aveva saggiato più volte girandosi e rigirandosi finché non ebbe trovato la giusta posizione, poi si era accoccolato tranquillo, indifferente alla circostanza che si stesse parlando di lui. Giurerei che nei suoi occhi semichiusi c’era una sorta di complicità affettuosa.
Ero al terzo cioccolatino e al secondo vermout quando mi scrollai di dosso il sorriso della vecchia e feci per alzarmi, dicendo che non volevo interrompere una lezione così importante e soprattutto che non volevo privare tutto il vicinato del sublime canto della signorina.
– “Elsa” – disse la madre puntandomi una manina d’acciaio sulla spalla e facendomi risprofondare a forza nel divano – “fai sentire qualcosa al signore. Maestro, la prego” – fece rivolgendosi a te, sussiegosa ma non priva di un certo impeto – “Sa… quella romanza, l’ultima… quella che Elsa conosce così bene…”
– “La romanza?” – facesti tu con voce impastata (e ricordo che c’era anche una punta di dolore nella tua voce) – “Quale romanza?”.
Poi ti scuotesti l’ultimo sonno pomeridiano e con mestizia facesti: – “Oh, quella!” – mentre le tue mani si posavano con rassegnazione sulla tastiera.
Le prime note uscirono a forza dallo strumento, sembravano intorpidite, risentivano ancora del dolce abbandono del tuo dormiveglia. Qualcuno, non conoscendoti, le avrebbe persino definite piene di pathos.
Dopo un po’ gli accordi assunsero un ritmo strano e bizzarro, quasi un ballabile, quindi si stabilizzarono in un quattro quarti decente, il volume si abbassò, si spense quasi, e fu allora che tu, sollevando una mano dalla tastiera, suggeristi qualcosa alla cantante.
La tua mano aveva dolcemente sorvolato l’aria, le dita si erano mosse lievemente ad indicare un attacco lieve, un “piano” o meglio un “pianissimo”, il respiro di un angelo che doveva nascere dal silenzio, mischiarsi con il nulla, avvilupparsi tra le note sussurrate in sordina sulla tastiera con una mano sola.
Guardando l’altra mano, quella che ancora accarezzava l’aria, fummo tutti invasi da una pace profonda.
Anche Emanuele, non più distratto dalla voce stridula della vecchia, si preparò alla dolce quiete che prometteva quel gesto, si accoccolò ancor più vicino a me sul tappeto, mettendo il muso tra le zampe davanti, mi diede un paio di calci con quelle di dietro e si dispose serenamente all’ascolto, immerso in quell’aspettativa di pace.
Nessuno s’aspettava il grido che uscì dalla bocca disegnata dell’Elsa. Adesso quella bocca che prima m’era sembrata un piccolo cuore dipinto s’era allungata a dismisura, mostrava denti candidi e grossi e, tra i denti, una lingua rossa, tremolante.
L’insieme emetteva un’unica nota con la forza di un mantice da fabbro ferraio e quella nota saliva di mezzo tono poi, poco prima di trasformarsi nella sua sorella più acuta, scendeva un paio di righe del pentagramma e diventava cupa e tetra, più che una nota un suono lugubre che sapeva di pianto.
Emanuele sollevò un’orecchia. Ha delle belle orecchie Emanuele ma un po’ cascanti nella punta. Un difetto che si porterà per sempre – mi hanno detto. E’ possibile un intervento ma i risultati non sono sicuri. Ho tentato di steccargliele, da cucciolo. Il veterinario glieli ha pure incerottati perbenino, ma tolti i cerotti la punta ha sempre mantenuto la piega.
Adesso quelle orecchie avevano assunto una forma perfetta, dritta fin sulla punta come si conviene ad un cane di razza ed entrambe vibravano. Vibrava pure il muso che aveva sollevato dalle zampe mentre la coda spazzava nervosa il tappeto.
Poi Emanuele si era mezzo sollevato sulle zampe anteriori tenendo le orecchie puntate verso quel suono inaspettato. Giuro che sul muso aveva disegnata un’espressione di grande incredulità.
Non è vero che un cane non può avere disegnata sul muso un’espressione di grande incredulità. Emanuele esprimeva benissimo il concetto, anzi lo sottolineava con ogni mezzo, sbarrando gli occhi, sollevando le labbra pelose, scuotendo la coda con il suo quarto posteriore ancora poggiato sul tappeto.
Anche tu, Michele, se ricordi, scuotevi forte il capo e per un poco hai persino chiuso gli occhi, poi hai di nuovo sollevato una mano dalla tastiera e hai colpito l’aria con forza, come per allontanare un insetto molesto. Quindi hai abbassato quella mano verso la tavola del pianoforte e l’hai fatta di nuovo ondeggiare piano, come accarezzando qualcosa.
Credo di averti sentito sibilare “No!, No!, No!” a denti stretti, ma la tua voce era inaudibile, totalmente sommersa dalle note impazzite che echeggiavano nella stanza.
Fu a questo punto che Emanuele si alzò. La cosa mi stupì perchè Emanuele era un cane pigro. Anche da cucciolo era pigro e non era migliorato crescendo. Se non aveva a sua disposizione un intero divano od un letto si accontentava di un semplice tappeto, ma in quel tappeto ci si crogiolava, assaporava le morbidezze della lana pettinata, annusava gli odori esotici che ancora emanava.
Quel giorno Emanuele aveva fatto i suoi calcoli di convenienza in materia di sopportazione e a quanto pare era venuto il momento – secondo lui – di sollevare anche i lombi posteriori da quel tappeto vellutato.
Intanto tu, Michele, continuavi rassegnato a seguire quel fiume di note oscillanti con accordi poco convincenti. Oscillavano anch’essi dietro o davanti a quell’improbabile canto e anche tu fingevi di seguirlo canticchiando qualcosa in sordina. (Mi confessarti, quella sera, mentre mezzo piegato, ti sostenevi ad un lampione e, ansante, ti asciugavi le lacrime dopo una serie di irrefrenabili risate, mi confessasti che in quei momenti tu canticchiavi ritornelli osceni. Ho sempre detto che sei strano, Michele, ma quella sera i ritornelli osceni non mi sembrarono poi così strani.)
Suppongo che Emanuele, anche per via della sua giovane età (era un cucciolone, dopotutto) non conoscesse ancora ritornelli osceni: ecco perchè suppose che l’unico modo per scaricare la tensione fosse quello di ululare.
Non avevo mai sentito, prima di quella sera, Emanuele ululare. Uggiolare, abbaiare, sì. Ululare mai. Ed invece Emanuele ha un bell’ululato. Un peccato nasconderlo. Inizia con una nota bassa, quasi in sordina, poi la nota sale, e intanto diventa corposa, cambia di tono fino ad arrivare ad un acuto limpido, un suono che sa di boschi impenetrabili e di luna piena, di rocce a strapiombo e vecchi manieri diroccati pieni di maghi e fattucchiere .
Dopo quella sera Emanuele è cosciente della bellezza del suo ululato e lo offre volentieri agli amici di casa in quasi tutte le occasioni, meravigliandosi non poco dei calci che riceve dopo appena mezz’ora di esibizione.
Comunque quella sera diede il meglio di se. Forse era nello spirito adatto. Forse l’ambiente era favorevole. Oppure può darsi che sia stato effetto dell’entusiasmo proprio dei debuttanti alla prima apparizione in pubblico.
Si avvicino alla mezza coda del pianoforte, sollevò in alto il muso, e flautò una nota corposa e insieme vellutata, mantenendola con perizia, senza sbavature. Solo un orecchio esperto poteva gustare appieno anche il leggero tremolo di sostegno, ma anche i non iniziati non potevano ignorare la maestria di quell’ululato.
Non la ignorò neppure Elsa. Quella perla di ragazza smise subito il suo canto lasciando completamente aperta la bocca per la sorpresa. Per tutto il tempo quella bocca restò aperta, quasi cascante, e muta.
Ed anche tu, caro Michele, hai aperto completamente gli occhi e, incredulo, hai guardato la bocca rossa e aperta della Elsa, mentre un sorriso finalmente soddisfatto si faceva strada sul tuo viso.
Certo non potevi vedere Emanuele, nascosto dalla coda del pianoforte, ma gustavi il sublime canto che – secondo te – usciva, inaspettato, dalla bocca della tua allieva.
Chissà quali pensieri turbinarono nella tua mente: aneliti placati e ansie superate sembrarono uscire fuori dal pianoforte attraverso gli accordi a due mani, mentre squillava – lungo e nitidissimo – un tuo “Sì, Siiii!” ripetuto più volte, sempre più forte, e in quel “Sìiii!”, bello e tonante, mettesti tutta la gioia e l’entusiasmo del maestro che vede finalmente coronati i suoi sforzi, la tua soddisfazione, il tuo plauso. Chissà, forse anche una punta d’amore per quella bocca e quel seno rigoglioso, capaci, insieme, di produrre un tale effetto.
L’unica che non seppe apprezzare Emanuele fu la vecchia madre. In venti secondi tutte le rughe che intessevano il suo scarno viso si macularono di chiazze violacee, la sua esile figura si sollevò dal divano e dalle sue labbra uscirono termini che una signora non dovrebbe neppure conoscere.
Anche le mire nuziali, forse appena intraviste, furono sopraffatte e sommerse, in quella donna, da un impeto d’odio.
Per fortuna Emanuele, per la sua conformazione mentale portata alla tolleranza e alla accettazione delle bizzarrie umane, non ebbe a patire, in seguito, dei traumi che avrebbero potuto provocare, a qualsiasi altro essere pensante, le invettive di quella donna colpita nell’orgoglio di madre.
Ci accompagnarono per le scale, le sue grida, ci seguirono anche in strada, scagliate dal balcone a voce piena e le udimmo anche oltre la cantonata finché esausti, ridendo in modo sguaiato, ci addossammo al primo lampione disponibile non essendoci prati o altri tappeti erbosi per rotolarci adeguatamente.
Intanto Emanuele manifestò il suo disappunto, misto ad un fine tocco di sano umorismo, inondando la base del lampione di pipì.
Enzo Maria Lombardo