Laggiù in fondo di Renzo Montagnoli 2


Da quando avevano scoperto il giacimento di antracite ed era stata avviata l’attività di estrazione tutti gli uomini del paesino avevano lavorato nella miniera, una generazione dietro l’altra, e anche ora che la vena stava inaridendosi nessuno pensava di lasciare quella pericolosa attività e di emigrare all’estero, come avevano fatto quelli della valle vicina. Il rischio era sembra incombente, la fatica ogni giorno più improba, ma il legame con la propria terra, con le origini era più forte di qualsiasi considerazione.
Anche Fasulin, benché avesse solo 14 anni, ogni giorno scendeva nel pozzo a sudare, a respirar polvere di carbone per 12 ore, perché così aveva fatto suo padre, e prima ancora suo nonno, e perché la fame era sempre tanta.  Aveva cominciato a 10 anni, quando ancora le mani avevano quella morbidezza e quel colorito roseo dell’età, e ora si erano già indurite e nelle unghie si annidava il nero del carbone, così tenace che nemmeno a lavarle con la spazzola veniva via.
Era stato il bisogno a farlo scendere in miniera, ma in lui c’era anche una vocazione, nata nelle lunghe sere d’inverno intorno al focolare, quando il nonno e gli altri vecchi raccontavano le storie del mondo sotterraneo. Lui se ne stava ad ascoltare per ore, gli occhi sgranati, quasi rapito da quelle vicende di elfi, di folletti che animavano le buie gallerie del sottosuolo. E anche se alla fine dicevano che non era vero, ma solo una favola, lui stava zitto, mentre i suoi occhi vedevano profondi cunicoli animati da lucine volteggianti, da omini verdi che cantavano canzoncine allegre e melodiose.
Quando, in uno dei tanti incidenti, gli venne a mancare il babbo e la sera si ritrovò di colpo solo con il nonno da tempo inabile e con la mamma, stravolta dal dolore e da una vita di stenti, fu giocoforza proporsi di andare a lavorare giù in miniera. Lo presero subito, visto che se rendeva la metà di un adulto, però lo pagavano un quarto del salario, una miseria appena sufficiente per sopravvivere. Ma lui andò, perché almeno la grande fame non fosse di casa e anche perché voleva entrare in quel mondo di fantasia che tanto sognava. Gli diedero come istruttore il vecchio Giamba e così cominciò una dura realtà che Fasulin volle vedere come una fiaba.
– Per i primi tempi, scenderemo poco e non scaverai, ma aiuterai a spingere i carrelli pieni di carbone. Così, poco a poco, ti abituerai all’oscurità, alla poca aria e imparerai i segreti della miniera.  
– Sì, parlami dei segreti, voglio sapere.
E Giamba si lasciava andare a raccontare cose strampalate, a cui nemmeno credeva, leggende che aveva ascoltato da bambino e che la dura realtà aveva quasi cancellato dalla sua mente.
– Sembra che sotto non ci sia nessuno, ma la miniera è più popolata del paese. Ci sono gli gnomi, piccolissimi e dispettosi, che ti tirano i capelli. E poi gli elfi…
– Come sono gli elfi? Descrivimeli, per piacere.
– Sono difficili da vedere.
– Ma tu li hai visti, vero?
– Sì, una volta, in una delle gallerie più profonde. C’era un gran buio, ma poi è comparsa una gran luce, insieme a una musica allegra, come quella che si suona per ballare nella festa del paese. Mi sono guardato intorno e a non più di tre metri da me l’ho visto.
– Era brutto?
– No, no, sembrava un bambino come te, tutto vestito di verde; mi guardava e cantava, con una vocina sottile, ma melodiosa. E’ stato solo per un attimo, ma poi è ritornato subito il buio e con esso  il silenzio.
Fasulin era rimasto come imbambolato, come se davanti agli occhi vedesse l’immagine descritta dal vecchio. Quella sera neanche mangiò quel poco che c’era e corse subito a coricarsi; benché rotto dalla fatica, si trattenne dal dormire subito, sforzandosi di vedere nel buio della stanza quell’immagine che si era impressa nel cervello in modo indelebile.
– Sono cattivi gli elfi?
– No, sono buoni, come i bambini. Di cattivo c’è solo l’orco.
– Com’è?
– Non lo vedi, ma senti il suo puzzo di gas e quando si arrabbia esplode come un tuono e fa crollare tutto. L’ha già fatto diverse volte e molti di noi sono rimasti laggiù, senza poi poter tornare in superficie.
– Come il mio papà?
– Sì, come lui. Quando senti quel puzzo, corri più che puoi, cerca di risalire e l’orco non ti prenderà.
Fasulin restò muto, ma nei suoi occhi si vedeva la paura. Quella sera andò a coricarsi molto tardi, mentre gli continuavano a rimbombare nella mente le parole del vecchio Giamba. Inspirò profondamente, ma l’aria della camera non puzzava e allora, vinto dalla sonno, chiuse gli occhi.
Progressivamente si abituò alla vita della miniera, al duro lavoro di tutti i giorni e quando arrivò a 14 anni, abbastanza robusto per usare il piccone, i padroni decisero di farlo scendere nel pozzo più profondo. Per Fasulin fu una giornata memorabile: ora anche lui era un minatore come tutti gli altri, con un salario pieno, anche se misero, e, nel suo caso, con la possibilità di scendere in quel mondo che la sua fantasia tanto vagheggiava.
Stranamente, però, non accadde nulla e né ebbe ad avvertire il puzzo dell’orco, né tanto meno gli si presento l’occasione di vedere gli elfi.
Di questo mondo sotterraneo parlava continuamente con Giamba, che stava ad ascoltarlo e ogni tanto scuoteva il capo. Un giorno si stancò, lo prese da parte e gli disse:
– Senti, ragazzino, non ti sembra che sia venuto il tempo di non credere alle favole? Il lavoro è già bestiale, la miseria tanta, e mi pare che sia giunto il momento che tu apra gli occhi: non c’è l’orco, non ci sono gli elfi, ci sono solo leggende che incantano i bambini e che a noi grandi, quando le raccontiamo, fanno dimenticare quanto sia grama la vita che conduciamo. Sono il sogno di un momento e nulla di più.
– No, sono il sogno di tutti i miei giorni, di tutte le mie notti, e solo così non sento la fatica, ho meno fame e quando torno a casa la sera non vedo quel povero vecchio mezzo scemo di mio nonno e mia mamma che sembra vecchia ancor più di lui. Io ci credo e sento che invece è tutto vero quello che mi hai raccontato e un giorno lo vedrò.
Ma i giorni passavano e, se anche il sogno permaneva, agli occhi di Fasulin la miniera si presentava sempre come un buio budello in cui ammazzarsi di fatica.
Poi, in una nebbiosa giornata di novembre…
Giamba, sento il puzzo dell’orco!
Il vecchio si fermo, inspirò profondamente e avvertì l’acre odore del gas.
Via, via tutti, il gas!
Cominciarono a correre verso la bocca del pozzo, Fasulin davanti e Giamba, meno in forze, dietro. Erano già risaliti, come gli altri, di un centinaio di metri quando avvenne l’esplosione. Un lampo accecante percorse i cunicoli, bruciò senza pietà gli uomini che si trovavano sul suo cammino e le travi di sostegno delle volte, che cominciarono a cadere.
Poi tutto finì e Fasulin si trovò, solo, in una galleria che piegava verso il fondo, chiusa dall’altro lato da una montagna di detriti. Si guardò intorno, ma non vide nulla, se non il buio più assoluto.  Rimase fermo, incerto sul da farsi.  Passarono le ore, ma i soccorsi non arrivavano e forse non erano nemmeno partiti, perché quando l’orco si arrabbiava non c’era nulla che l’uomo potesse fare. Decise, allora, di muoversi e, poiché era buio fitto, procedette a carponi lungo il cunicolo che degradava verso il basso. Andava piano e non poteva sapere né quanta strada avesse percorso, né quanto tempo fosse passato.
In superficie, intanto, intorno all’imboccatura del pozzo sostavano i parenti, i compagni degli altri turni, in attesa del ritorno alla luce della squadra di soccorso. Quando emerse dalle viscere, il capo non potè far altro che scuotere le braccia, perché non avevano trovato che morti, in pratica gli operai di un intero turno, fatta eccezione per uno: Fasulin. La madre, impietrita dal dolore, se ne stava in silenzio, guardava quel buco nero da cui suo figlio non sarebbe più tornato.
Laggiù, intanto, Fasulin continuava ad avanzare, avvertendo però già i segni della stanchezza, il freddo che gli saliva dai piedi e lo faceva tremare. Infine, non ebbe più la forza di andare avanti e si rannicchiò contro la parete. Il buio era completo e cominciò a pensare che la sua illusione altri non era che il sogno disperato di evadere da una realtà senza speranza.
“Aveva ragione Giamba: non c’è nulla per i poveri come noi, nemmeno la possibilità di continuare a sognare. Al mondo non siamo altro che un bruscolino nell’occhio del tempo: troppo piccoli per apparire, troppo miseri per renderci conto di vivere. E’ inutile che il prete ci dica che nostro sarà il regno dei cieli: siamo talmente in basso che Dio non ci potrà mai vedere.”
La stanchezza, il freddo e la poca aria cominciavano a prendere il sopravvento, il tutto acuito dallo scoramento, perché si rendeva conto che nessuno sarebbe venuto a prenderlo, che i soccorsi erano una speranza su cui non era possibile contare.
Cercava di tenere gli occhi aperti, di penetrare quel buio così assoluto che stava entrando in lui, ma le palpebre cominciavano ad appesantirsi, il cuore rallentava sempre più i battiti, il respiro diventava affannoso. Provò a levarsi in pedi, ma cadde; gli occhi gli facevano male, gli sembrò di gelare del tutto; ansimando tese una mano verso il nulla e le palpebre gli si chiusero. E fu allora che una luce vivissima illuminò la galleria, mentre le volte furono percorse dal suono di una canzoncina che tanto gli ricordava una ninna nanna che la mamma gli sussurrava da piccolo. Spalancò gli occhi: eccoli, li vide. Vestiti di verde, sorridenti, gli elfi erano intorno a lui, e più dietro ancora c’erano tanti volti noti e fra questi Giamba e suo papà che sembravano invitarlo.
Si sentì straordinariamente leggero mentre le sue gambe percorrevano i pochi passi che lo separavano da loro.

Renzo Montagnoli

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2 commenti su “Laggiù in fondo di Renzo Montagnoli

  • Corrado S. Magro

    Lo sforzo di fare apparire la realtà della miseria come un mondo di favola che si spegne nel buio di una fine tragica, non può non toccarci profondamente. Scritto con la maestria di una penna d’autore.

  • Enzo Maria Lombardo

    Con il suo stile impeccabile e piano, Renzo Montagnoli ci offre il resoconto di una tragedia sul lavoro che si tramuta d’incanto, con la magica forza della poesia che trasuda da questa pagina, in una favola triste ma dolce. E la morte, pur presente, appare lontana e impossibile, così come la miseria, la fame e la fatica, sconfitte dagli Elfi.