Addossato alla balaustra del giardino l’avvocato Luigi Liguori guardava lo strapiombo nero maculato di verde, lucido per le piogge recenti di un inizio umido d’estate, annunciata da folate di vento caldo e smentita da improvvisi acquazzoni e seguiva con lo sguardo i ruscelletti che si insinuavano tra le rocce di lava, stagnando qua e là a formare piccole pozze grigio argento.
In basso, lontana, confusa dalla leggera foschia, s’intravedeva Catania e il mare immobile, abbracciato dalla distesa di tetti rossi, dalle cupole e dai bianchi riflessi dei palazzi nuovi e, più a destra, dalla lunga pennellata di sabbia della Plaja che si perdeva, lontano, nell’azzurro indistinto del cielo e del mare.
Girandosi, da quella prospettiva, Liguori poteva vedere, più su, a monte, tra i tornanti della provinciale, le altre ville, simili tra loro nel voler sembrare ad ogni costo arabeggianti, bianche come cumuli di neve tra il nero della montagna e le radi siepi di ficodindia, tutte disabitate in quel periodo dell’anno.
“Tutte abusive – mormorò Liguori a denti stretti – e manco belle. La volete la villa sull’Etna? E allora fatevela, santissimi, ma fatela bene! Tanto, qua non c’è né re né regno. Terra di nessuno è!” Il mormorio si perse in un mezzo sorriso quando riportò lo sguardo alle linee austere della sua casa, costruita bene, con cura, sulla sciara vecchia, solida e ferma come ogni cosa sua.
La accarezzava con gli occhi, quella casa e la rivedeva quando, adolescente, tutta la famiglia Liguori saliva da Catania a vederla crescere, dalla grossa buca spianata delle fondamenta, con le sue travi e pilastri che si alzavano nell’aria dritti e bianchi, assurde crescenze da un ventre di lava, a sfidare le asperità della montagna.
E veniva su in fretta, allora, la Villa Liguori, tra le grosse macchine che mescolavano pietra e cemento e i plinti umidi, ancora con l’impronta delle assi di legno che somigliavano proprio ad alberi calcinati, con l’anima di ferro, sagomati apposta per sorreggere per sempre la più bella casa della frazione di Liconiso.
Sempre poggiato alla balaustra, con in faccia la villa ancora immersa nel silenzio, sonnolenta nella prima calura del mattino e con solo qualche imposta appena aperta, Liguori rivedeva suo padre Benito ai margini di quella buca. Lo rivedeva insieme all’architetto, le mani sui fianchi, il mento sollevato, bello e possente mentre dava ordini al capomastro come fosse lui il direttore dei lavori.
Che lo avesse scelto apposta piccolo e brutto, quell’architetto? – pensava sorridendo Liguori. E rivedeva il padre quando, sul margine della buca o scendendo il ripido pendio, con una mano puntata ad indicare questo e quello, tuonava con quel suo vocione roboante e l’architetto, dalla spianata, lo guardava intimidito, annuendo sempre, con un sorriso stampato in quella faccia rinsecchita.
e anche gli operai si fermavano ad ascoltare l’Avvocato assieme al capomastro e restavano così, masse inerte nell’arena, e anche loro annuivano e solo il capomastro, di tanto in tanto, accompagnava il rispettoso gesto del capo con un “Sarà fatto Don Liguori” o “Voscienza sarà servito, Cavaliere” o “Non dubiti, Avvocato”.
L’aveva perso presto, il padre, divorato da un tumore a cinquant’anni, ma ripensando a quei momenti di massimo fulgore, a Liguori-figlio sembrava di rivivere storie viste solo in alcuni documentari storici, roba in bianco e nero, e la figura del padre, l’Avvocato Cavaliere Benito Liguori, cassazionista nella Capitale, si mescolava con quella di Mussolini dei vecchi Film Luce ed era un mescolamento strano perchè, per quanto poteva rivangare nei confusi ricordi di bambino, il padre, dopo la guerra, si era sempre dichiarato “anti”. Ma mica un antifascista sfegatato. No. Un “antifascista mentale”, come soleva definirsi. Uno che con quella storia non voleva avere niente a che fare, uno che guardava solo al futuro delle masse, diceva, all’Italia rinnovata, ai fratelli d’oltre oceano.
Per giunta aveva seguito un corso intensivo d’inglese e aveva cominciato ad utilizzare il suo secondo nome, Mattia, in onore del nonno, diceva. Un nome comune, molto democratico e – soprattutto – senza echi del ventennio.
Se suo padre, subito dopo la guerra, non era entrato difilato in politica, era stato per via degli impegni della professione forense e poi per la lunga malattia. Questo si diceva in casa.
In casa e nella cerchia degli amici si diceva anche che uno così, uno come lui, un uomo di ferro ci voleva in Sicilia per aggiustare le cose. E che era un peccato non presentarsi alle elezioni.
Così si diceva, anche se qualcuno, malignando, aveva tirato fuori una vecchia storia di tessere, di brutte amicizie romane e di un processo evitato per un pelo.
– “L’invidia fa parlare anche le pulci e i pidocchi!” – diceva alterandosi il Cavaliere quando gli arrivavano all’orecchio quelle maldicenze – A questo punto, di solito, chiudeva gli occhi e scuoteva la testa, infastidito dai ricordi molesti che giravano nell’aria come le mosche d’estate. – “E vanno ancora a ripescare la vecchia storia della tessera, sempre la storia della tessera… una storia vecchia… passata… roba di ragazzi. Un’altra epoca. Che vuol dire la tessera? Perché, si poteva anche non avere la tessera? La tessera! Cos’era poi? Un lasciapassare, era! Un pezzo di carta straccia, ecco cos’era!”
E infatti l’aveva stracciata, quella tessera, dopo.
Era ancora calda di petto, dicevano, quando l’aveva sostituita con un’altra.
* * *
Luigi Liguori si era girato nuovamente a valle, quasi a voler espandere quei ricordi nella lucentezza di quel panorama così aperto e chiaro, e all’immagine del padre e della villa si sostituì quel paesaggio maculato di nero e di verde, coperto dall’azzurro scuro di un cielo lavato di fresco.
Quindi si mise ad annusare l’aria, come faceva sempre a quell’ora del mattino quando saliva in villa a Liconiso, socchiudendo gli occhi, cercando il lontano salino e riempiendosi i polmoni di quel pizzicorino strano che saliva dal basso e che sapeva di nascosti mandorleti, di giardini a limoni, di zagare e gelsomino.
E in quel paesaggio reso così immobile dalla lontananza, l’unica cosa che stonava, dando un movimento innaturale, erano le poche macchine e la corriera del mattino, con i loro colori accesi e volgari che si arrampicavano nei grigi tornanti della provinciale.
La corriera, in particolare, con quell’azzurro cupo, le fasce bianche ai lati e quel tetto sporco di ruggine e fuliggine, sembrava proprio fare a pugni con il resto, un’offesa agli occhi e all’olfatto, chè già l’avvocato paventava la puzza di nafta che avrebbe lasciato passando, mentre superava la villa senza fermarsi, come faceva quasi sempre, portandosi dietro una scia di fumo denso e oleoso.
Ma quel giorno la corriera si fermò e Liguori poté udire distintamente il pulsare cupo del motore in folle che ansimava ritmicamente, ad una trentina di metri dal cancello, quasi a voler riprendere fiato nell’attesa della prossima salita.
Quando quella macchia d’azzurro e di bianco sporco riprese la strada e superò la villa, Liguori storse il naso con disgusto: ecco cancellate di botto i dolci profumi di zagara e gelsomino, tutta la poesia del luogo annullata da una nuvolaglia nera e manco c’era un alito di vento per disperderla in fretta.
Ma quella nuvola di fumo non era poi tanto densa e nera da impedire di scorgere una macchia più nera salire piano quel tratto di provinciale e poi inerpicarsi in un viottolo che costeggiava la villa, radente alla cancellata.
Liguori aguzzò gli occhi e seguì l’avvicinarsi di quella figura nera, anche se, dalla prima occhiata, sapeva già cos’era.
Una vecchia saliva con passo malfermo, la lunga gonna svolazzante sull’erba alta e sembrava che, ad ogni passo, si aggrappasse ad un bastone invisibile, muovendo in aria una mano per compensare l’oscillazione del corpo.
Nell’altra mano reggeva un involto, un rotolo lungo di carta velina da cui traspariva il rosso di cinque o sei garofani.
Il primo impulso di Liguori fu di rientrare in casa. Avrebbe chiuso la porta, serrato le finestre per non vedere e per non essere visto. L’avrebbe fatto di sicuro se non avesse incontrato il suo sguardo. Stavolta sorrideva persino, quella vecchia, mentre arrancava sulla mulattiera e tutte quelle rughe in viso le si contorsero come serpentelli quando accennò, ancora lontana, una specie di saluto. Forse stavolta gli avrebbe risparmiato i lamenti, pensò Liguori, forse era nella giornata buona se l’avevano fatta uscire da sola dall’ospizio.
– “Di nuovo qua, signora Musumeci?” – gli gridò l’avvocato portandosi un po’ sulla destra, verso la cancellata che cingeva un lato della villa, una mano ad imbuto sulla bocca perchè sapeva che quella donna era quasi sorda.
– “Oggi è il giorno suo, avvocato!” – rispose la vecchia. Aveva una voce squillante, manco sembrava risentire della salita. Il corpo, invece, era provato, e si vedeva. La donna si fermò e con la scusa di rassettarsi il vestito e il fazzoletto che portava sulla testa, si appoggiò alla cancellata e intanto guardava con una specie di voluttà il grosso tronco d’albero, tagliato di netto fin quasi alle radici, lasciato lì a marcire ai bordi del viottolo, un buon sedile per chi voleva arrampicarsi tagliando i tornanti della provinciale.
– “Mi siedo un poco, avvocato, con permesso. La salita è lunga. Ma oggi è il giorno suo, dovevo venire per forza. Ci ho pure parlato, con Salvo, sa? La manda a salutare.”
– “Anche tre giorni fa era il giorno suo. e anche tre giorni fa aveva parlato con Salvo. La stessa cosa ogni anno. Una cosa infinita! Come la mettiamo, signora Musumeci? Quanto deve durare questa farsa?”
La vecchia non si scompose, anzi lisciandosi la gonna, con dignità ma anche con un che di civettuolo, insospettabile a quell’età, fece:
– “Ma quale farsa, Avvocato! Si vede che lei non si ricorda da un anno all’altro. Avrà tante cose per la testa, pover’uomo… I giorni sono due: uno è quello dell’assassinio, un’altro quello del funerale.”
– “E questo sarebbe…?”
– “Avvocato, vossia che fa, babbìa o mi vuole confondere? Il funerale! Il funerale, certo! Uno, prima muore e poi lo sotterrano. Così è. Così deve essere. e oggi è il funerale. Ma lei lo sa che io non posso andare al cimitero, ad Acquicella. Lì ci ho tutti i miei morti. Tutti meno uno. Laggiù vado a trovarli. E non solo per la Festa dei Morti e per gli anniversari, chè pieni di fiori sono le tombe dei miei. Giardini, sono, più che tombe! e i marmi! Vedesse vossia i marmi e le fotografie che sembrano nuovi di zecca da quanto li lucido! Ma Salvo no. Salvo mio non c’è ad Acquicella. e io che devo fare? Devo venire su. Finché posso, sa? Certo che con queste gambe…, ma finché posso, con la grazia di Dio, io ci vengo fin quassù.”
Liguori si staccò dalla cancellata, fece alcuni passi sullo spiazzo ghiaioso con le mani in tasca.
“Che cosa dico ad una pazza? – pensava – Pazza furiosa. Anche se a vederla così sembra una madonna addolorata.” e intanto guardava la casa ancora addormentata, la persiana serrata della stanza da letto, meno male che Lucia e i bambini ancora dormivano.
– “Lei lo sa che è contro la Legge, vero? – disse l’avvocato avvicinandosi nuovamente per non alzare troppo la voce – Non si può importunare la gente in questo modo, non si può ossessionare all’infinito, lo sa questo?! Non si può, lo capisce, signora Musumeci, che non si può? Come glielo devo dire? C’è stato un processo, tanto tempo fa, è stato chiarito tutto in istruttoria! Anche un’intimazione c’è stata, cosa debbo fare ancora? Chiamo l’ospedale e la faccio rinchiudere di nuovo? Oppure debbo far venire i carabinieri, la forza pubblica, il vescovo? Cosa debbo fare con lei, signora Musumeci?”
– “Cosa deve fare? Ma niente avvocato mio. Niente deve fare! Non mi veda, avvocato, faccia finta che io non esisto, che non sia mai esistita. La ragione degli uomini è dalla sua, lo so, non me lo ripeta ogni volta che mi vede… Tanto la patente di pazza io ce l’ho già, con il bollo e la firma. Ma io voglio la sua pietà. E non solo per me.”
– “E per chi altri? Per suo marito, forse?”
La vecchia sollevò la mano con l’involto di carta velina e poggiando una mano sul ceppo si alzò a fatica e si aggrappò alla cancellata. Gli occhi erano fermi e duri e non esprimevano pazzia. C’era razionalità e determinazione dietro quegli occhi. e anche qualcos’altro. Qualcosa che usciva da quel nero, lucida e infuocata come lava liquida da una bocca nuova.
Liguori represse la voglia di arretrare davanti a quegli occhi e non fu neppure sorpreso quando la voce della vecchia salì di un tono, dicendo:
– “Che c’entra Salvo, avvocato? Perchè lei dovrebbe avere pietà per il mio povero marito? Per me, certo. Tanta pietà, per me. Sono una povera vecchia, sola, mezza pazza e con i giorni contati. Ma per lui no! Non ne ha bisogno Salvo di pietà! Nè della sua nè di nessun altro!”
La sua voce si affievolì un poco, si spense quasi in un soffio quando disse:
– “Poi, vossìa manco l’ha conosciuto il mio Salvo… Sa a stento quelle quattro cose che sono state scritte dai giornali, cose vere e cose false, e chissà se in fondo al cuore vossìa non se l’è anche fatta la sua verità! Per questo io dico sempre a Salvo che il figlio dell’avvocato è una brava persona, che qualche volta fa anche finta di non vedere, di non sentire. Proprio ieri notte, saranno state le due o le tre, mi ha detto: Ti raccomando, salutami il figlio dell’Avvocato, se lo vedi.”
– “E allora per chi altro dovrei avere pietà, signora Musumeci?”
La donna aveva ancora una mano serrata alla cancellata. Era magra, quella mano, con pelle di cartapesta. In certi punti trasparivano grosse vene azzurre. Poteva indovinarsi il sangue pulsare a fatica in quel corpo ormai rinsecchito. Nell’altra mano il lungo involto, sollevato in alto come un bastone o come un vessillo, si alzò ancor di più verso un cielo che diventava di minuto in minuto sempre più azzurro. Accecante.
-“Conservi la sua pietà per suo padre, avvocato, la conservi per il Cavaliere Benito Liguori – sibilò la vecchia – Suo padre sì che ne ha bisogno! Dobbiamo tutti avere pietà per lui. Per lui sì! Anche questo mi ha detto Salvo, ieri notte. Me lo ha confidato in confidenza: chissà, forse non poteva. Mi ha detto che dobbiamo provare pietà per lui perchè forse non era neppure tanto cattivo e perché ha già sofferto le pene dell’inferno prima di morire. Il fatto è che non poteva dire di no a Puddu Scandurra o ad altri più in alto, magari nella Capitale. Lui si è solo girato dall’altra parte. Non ha visto. Non ha voluto vedere. Ha dato solo le chiavi del cantiere. Accomodatevi, signori. e il capo mastro ha dato gli ordini giusti. A quest’ora, avvocato, poteva esserci suo padre nel cemento, se diceva di no. In fondo ha solo fornito la tomba a Salvo. Gratis.”
-“Signora Musumeci, basta così…”
– “No, no, mi lasci dire. Magari non mi vedrà mai più. Non sono eterna. Chissà se potrò salire per un altro anniversario… Mi lasci dire almeno questo: che non ce l’ho con suo padre. Non più. In fondo non l’ha ammazzato lui. e in quanti sono quelli che possono dire di avere la tomba in una villa sull’Etna? Pochi, sono. Qui c’è aria buona, una vista magnifica, tutta Catania ai piedi. E che possiamo pretendere…! Altro che Acquicella! Troppo rumore, laggiù, camion, gente che va e che viene. Qui è diverso. Un po’ troppo distante, è vero, ma diverso. E con la corriera, in un’ora…”
-“Signora Musumeci, la mia pazienza…”
– “Ecco, la sua pazienza. La sua pietà e la sua pazienza. Per suo padre che lassù ancora soffre come un cane, e questo lo so perchè me lo ha detto Salvo, e un po’ anche per me, per quei quattro giorni che ancora mi restano. E poi, che le chiedo? Che lei non guardi, le chiedo. Perché io non vado nella roba sua. Mica ci entro in casa, io. Striscio sul muro esterno, come una lucertola e lei mi lascia strisciare. Le manda via le lucertole che strisciano sul muro? Manco le vede le lucertole. Ecco, faccia finta che io sia una lucertola. Striscio e dopo un po’ me ne vado. Giusto il tempo di mettere questi fiori nell’angolo a monte della casa, di stare un po’ vicino a Salvo. Il plinto è quello, il primo, a monte. Lei che ha letto le carte lo sa che è quello, vero?”
A questo punto il dottor Liguori agita le mani in aria. Il dottor Liguori si passa le mani nei radi capelli grigi. Fa finta di strapparseli.
– “No, no, non è lei la pazza, signora Musumeci! Sono io, io sono il pazzo! Io che la stò a sentire! Anche gli insulti, anche le dicerie più strane, anche i vaneggiamenti devo sopportare…! Cosa vuole che ne sappia io di plinti, di angoli, di muri! Ma adesso basta! Basta! Basta! Vada a mettere i suoi fiori su quel muro, e via! E poi prenda la corriera e non si faccia più vedere in giro a Liconiso! La prossima volta sciolgo i cani. Lo faccio. Pazza o non pazza giuro che lo faccio, quanto è vero…”
Ma la vecchia non l’ascoltava più, stava già allontanandosi camminando radente alla cancellata, curva sotto un sole che ormai scottava, una figura nera, a tratti quasi invisibile, confusa con il nero della pietra lavica.
Mentre la vecchia saliva, Liguori sentì ancora biascicare qualcosa, la vide mettersi una mano in una tasca della lunga gonna, trarne un piccolo lumino di cera, avvolto in una carta rossa.
Poi lei si girò verso di lui, mostrandoglielo.
– “Avvocato…”
– “Cosa c’è ancora?”
– “Avvocato, se per caso il lumino si spegnesse, col vento che tira quassù…”
Enzo Maria Lombardo