LA RISPOSTA di Enzo Maria Lombardo
Un amore alla Delice, fabbrica di marmellate, confetture e affini
Parte Prima
Domenica, ore 4,15
La sveglia sul comodino segna le quattro e quindici e i numeri verdi non cambiano da un bel po’. Da quanto tempo sono le quattro e un quarto?
Mi giro e il letto scricchiola.
Mi rigiro e sedici.
L’ho sognata ancora. Se mi riaddormento, forse…
Mi giro di nuovo e il letto si lamenta. Ancora l’ho sognata. E’ inutile, non posso più dormire e oggi è domenica.
Leggo? Che leggo? Il fatto è che sono agitato.
E sedici, ancora e sedici. Sì, la verità è questa, sono agitato. Oggi può essere un giorno importante.
Sdraiato sul dorso almeno non vedo i numeri verdi della sveglia. Vedo invece disegnate sul soffitto le strisce nette di luce che entrano dalla persiana abbassata. Quel lampione maledetto. E in quelle strisce, come in un pentagramma, scorrono visi, parole, rumori. Scorrono gli anni. Scorre la mia vita …
* * *
Ieri sono andato a parlare con la maestra di Matteo, il figlio di mia cugina Assunta Grazia Finocchiaro vedova Impallomeni.
Assuntina mi è cugina alla lontana ma da quando, tre anni fa, è morto suo marito, Impallomeni Maurizio, capo contabile alla Delice, lei si è avvicinata di nuovo alla sua famiglia e in particolare a me che abito proprio nel suo quartiere, vicino alla chiesa di Sant’Angela Merici, cinque minuti a piedi. Così, in certi giorni della settimana, quando lei non può per gli straordinari o per i turni, vado io a prendere Matteo a scuola e a parlare con la maestra del pomeriggio. Poi riporto il bambino a casa mentre lei è ancora al lavoro. Per questo ho le chiavi di casa sua.
La cosa non mi pesa per niente perchè mi piace fare da padre a Matteo e mi piace l’odore della casa di Assunta quando stò ad aspettarla anche per un paio d’ore buone, giocando con Matteo o guardando la TV, proprio come se fossi a casa mia.
Qualche volta ci vado di proposito a scuola perchè so di trovare lei ad aspettare Matteo. Mi batto il palmo della mano in fronte e dico: ma che testa!… e Assuntina fa finta di credere che ho sbagliato giorno e ritorniamo tutti e tre a casa, come una vera famiglia.
Assuntina lo sa che tutto questo lo faccio per lei. Anche fare da padre a Matteo lo faccio per lei e se mi piace l’odore di casa sua e perchè dentro ci sento il suo profumo.
Lo sento facendo frusciare i suoi vestiti nell’armadio, poggiando il viso sul suo cuscino, odorando le lenzuola, appena smosse, del letto.
Perché Assuntina m’è rimasta dentro da quando avevamo dodici anni e al paese le vecchie ci guardavano storto se giocavamo troppo insieme.
Da allora aspetto.
E neppure l’Impallomeni c’è riuscito, in vita, a togliermela dalla testa dove si era insinuata lenta lenta, crescendo insieme a me e ai sogni miei, alle mie fantasie.
Mille volte l’ho sognata accanto a me, di notte, nel mio letto d’una piazza e mezza, e stringendo il cuscino mi sembrava di abbracciarla e stringerla forte e le ho parlato anche. Le ho raccontato tutte le cose che non potevo dirle sul lavoro.
Perché lei e io lavoravamo insieme, nella stessa fabbrica ma laggiù era come stare a miglia e miglia di distanza.
Per l’Impallomeni no: lui veniva dalla palazzina degli uffici, nell’ora di pranzo e se la portava via. Me la portava via, capite? come una cosa sua, di proprietà, prima da fidanzato e poi da marito e io non potevo far altro che salutarli con un sorriso sforzato e a lui dovevo dire anche ciao Maurizio e la cosa non mi andava.
Perchè io all’Impallomeni l’ho sempre voluto chiamare Impallomeni e basta.
Anche con l’Assuntina, da sola, lo chiamavo Impallomeni e in quel lungo cognome assurdo ho sempre cercato di mettere tutto il rancore accumulato e l’Assuntina lo sapeva ma lasciava correre.
Da un po’ ho ricominciato a sperare e un giorno, a casa sua, mentre l’aspettavo, mi ci sono proprio sdraiato su quella parte del letto lasciata vuota dall’Impallomeni e stavo proprio facendo l’amore con Assuntina, lo facevo con tutta l’anima, abbracciando il suo cuscino profumato di capelli e accarezzando il suo corpo d’aria. Poi lo vidi, l’Impallomeni, col suo ghigno, che rideva sopra la cassettiera e mi alzai, rosso, ansante e pieno di vergogna.
Ecco perché quando giro nella casa d’Assunta, mentre Matteo è ipnotizzato dalla tivù o dorme sdraiato sul divano, non posso fare a meno di pensare che quell’Impallomeni che sta su tutte le foto sparse qua e là sui mobili, quell’Impallomeni che io ho odiato in vita e che continuo ad odiare anche adesso che è morto, non è andato via da questa casa.
Sento ancora le sue risate rimbombare tra le pareti, quelle risate che faceva abbracciando apposta l’Assuntina le rare volte che ero a cena da loro. Lo faceva per me, l’Impallomeni. Lo faceva apposta e mentre abbracciava Assunta, mi scrutava. Adesso è mia, mi dicevano quelle carezze fatte con le sue mani lunghe e curate, la vedi? Adesso è mia.
E ora lui se ne sta sui mobili, a mezzo busto, nella casa di Assunta, ad osservare tutti i miei movimenti, a seguirmi dappertutto, continuando a ridere.
* * *
Dieci anni fa…
Lavoravamo insieme alla Delice, Assuntina e io, dieci anni fa. Anzi ero stato proprio io a farle fare domanda appena ho saputo che cercavano operai per la nuova linea delle confetture. Non mi sembrava vero quando la cosa andò in porto.
Dieci anni fa…
Era appena salita su dal paese e si aspettava qualcosa l’Assuntina da questa metropoli. Non voleva restare in casa come le sorelle più grandi, diceva, che aspettavano il marito sferruzzando e cucinando. Voleva una casa tutta sua, diceva, una sua vita, una sua autonomia.
Così mi diceva senza voltarsi mentre passavano nel nastro della prima linea i vasi caldi delle confetture e la macchina le etichettava con un rumore di carta strappata e di battito di mani. Scratc, clap, clap, faceva la macchina e io intanto prendevo i cartoni pieni e li impilavo sul pallet mentre lei toglieva i barattoli ancora caldi dal nastro trasportatore e li metteva nei cartoni vuoti, su un altro nastro.
Io infilzavo il pianale di legno, lo sollevavo un poco e continuavo il giro con il carrello elevatore ma mi restava nella mente la voce dell’Assunta e negli occhi la sua figurina sottile vista da dietro, chiusa nel grembiule azzurro troppo grande che anche così mi faceva un male boia dentro a non poterla abbracciare.
Dai, Nico, fai il bravo, toglimi questa roba dal nastro, diceva l’Antonia dall’altra linea. Solo la Tina esiste per te? Se mi fai accorciare i tempi ti allungo io qualcosa. Lo diceva forte, l’Antonia, anche se faceva le mosse di sussurrare e poi esplodeva in una risata sonora.
Che dici, Tina, me lo lasci per un poco il tuo Nico che gli faccio passare io la malinconia? No, che non me lo lasci! Ho capito, continuava l’Antonia, è tutto tuo! Le altre ridevano di gusto superando per qualche secondo gli scratc, clap, clap delle macchine e rideva anche l’Assuntina, ma con un riso diverso, cristallino, puro come i rumori dei vasetti vuoti delle marmellate mentre passavano nella macchina riempitrice.
Con Domenico? diceva, ma che dite? E’ mio cugino, volete scherzare? Libera come l’aria sono. E libera voglio restare.
Forse non lo pensava davvero, l’Assunta. Io lo speravo quando tornavo da lei nell’ora di pausa e lei mi piantava i suoi occhioni nei miei e mi diceva: Nico, avranno da dire quelle se stiamo sempre insieme.
Lasciale dire, ribattevo, tanto parlano lo stesso e poi cosa ci sarebbe di male, Assuntina? dico a volerci bene davvero, io e te. Lei si stringeva la cintura alla vita, imbarazzata, e restava così, con le mani strette sul ventre. Ci sarebbe, oh, sì che ci sarebbe, Nico, diceva, non è ancora tempo, per me. Ma i suoi occhi non si staccavano dai miei.
Tempo per cosa? facevo io, ma la domanda restava nell’aria, senza risposta, mentre ci avviavamo alla mensa accodati alle altre ragazze delle linee, agli operai dei forni e ai carrellisti e mi sembrava di avere addosso tutti gli sguardi puntati su di noi.
* * *
La Delice è una fabbrica grande ma dalla strada provinciale non la vedi neppure perchè tutt’attorno ha una siepe alta e una doppia fila di alberi nel viale d’ingresso pedonale che quasi la nascondono e la fanno somigliare ad una villa.
Si sente solo l’odore appiccicoso della frutta cotta, di caramello e di forno quando passi vicino.
Se ti avvicini, però, vedi i cancelli automatici, i capannoni, i camion, le pile di casse e le macchine parcheggiate in ordine negli spazi disegnati nel piazzale e a lato della palazzina degli uffici.
Passandoci così, e dando un’occhiata di sfuggita a metà mattina, ti domandi dove sono i centoventi operai e i trenta impiegati che ci lavorano dentro.
I camion parcheggiati a ridosso dei magazzini, le auto che sonnecchiano parcheggiate nel grande piazzale e il silenzio rotto solo dal rumore soffocato, cupo e continuo, di macchine in movimento, può anche darti l’impressione di un’attività sonnolenta, appena indispensabile per tenere in vita la fabbrica in un giorno festivo.
Stranamente è un’impressione che continua a restarti addosso ancora per un poco anche quando entri nell’enorme capannone delle linee di produzione, fatto a elle e con vetrate enormi che si affacciano su un cielo di latte, con i lunghi forni, le caldaie e le macchine verdi in fila sotto i neon, nastri trasportatori dappertutto e tanti muletti che fanno la spola nei corridoi centrali.
Allora ti stupisci del rumore, che adesso c’è ed è forte, così come fortissimo è l’odore di sciroppo caldo, di caramello e di biscotto, ma degli operai te ne accorgi dopo.
Sono incorporati nelle macchine e nei muletti. Seduti nei carrelli o nelle linee, i movimenti concertati dallo scorrere dei nastri, mimetizzati dai camici, dalle tute, dai guanti e dai berretti, rischiano di passare inosservati nella vastità di quell’hangar. Non li vedi finché non incroci lo sciabolare veloce di sguardi curiosi (un occhio al barattolo caldo e roteante e uno a te) e non riesci a mettere a fuoco occhi, capelli, caviglie e a captare le voci che si rincorrono nel capannone, semicoperte dal pulsare meccanico e dagli echi rimbombanti.
L’Impallomeni veniva di rado nel capannone e solo per controllare, di tanto in tanto, qualche bolla di carico alla spedizione.
Passava impettito, dava un’occhiata alle donne e scompariva nel magazzino, in fondo al capannone, dove si aprono le ribalte posteriori dei camion e dei rimorchi.
A volte, se non pioveva, lui non ripassava neppure per tornare indietro. Scendeva dalla scaletta del piano di carico direttamente sul piazzale e da lì tornava alla palazzina degli uffici, forse per non impregnare i vestiti dell’odore che stagna nel capannone.
Io, dieci anni fa, la conoscevo poco quella palazzina: qualche volta andavo alle riunioni della commissione interna o a portare i certificati di malattia o a chiedere informazioni sulla busta paga, tutto qui. Però una cosa mi aveva colpito subito: erano in tanti. Stentavo a credere che fossero solo trenta. Gente nell’ingresso moquettato, gente per le scale e nei corridoi e gente in stanzoni pieni di scrivanie.
Impiegati dappertutto, seduti, in piedi, appoggiati alle fotocopiatrici o alla macchina del caffè. Non erano mimetizzati, loro, dalle macchine.
E anche gli sguardi erano diversi. Gli sguardi non sono veloci come da noi: quelli ti guardano con calma. Ti misurano, quasi, prima di distogliere lo sguardo dalla tua tuta.
Impallomeni Maurizio lo conoscevo appena, allora, ma notai che aveva intensificato il controllo delle bolle di carico da quando l’Assuntina fu assunta alla linea nuova.
Passava e ripassava anche se fuori c’era il sole e sarebbe stato meglio scendere sul piazzale, tra le siepi di lauroceraso.
E sventolava sempre un foglio, un ordine, una fattura o che so io; sì, aveva sempre un foglio in mano l’Impallomeni ma non andava alla spedizione perchè vicino all’Assunta si fermava.
Si capiva da un miglio che veniva apposta per lei. Io da lontano lo vedevo chinarsi vicino all’Assunta, guardare interessato la macchina e il nastro come se gli importasse qualcosa del nuovo sistema di etichettatura, e intanto parlava, parlava…
Non che potessi sentire qualcosa con tutto quel rumore… ma mi avvicinavo lo stesso con il mio carrello quando lui era in giro.
Era più forte di me.
* * *
Cominciarono ad andar via insieme, la sera, che era autunno inoltrato. Lei e l’Impallomeni. Insieme. Io l’avevo capito da un po’ ma quella sera andarono via insieme, e abbracciati.
Lui le cingeva la vita e chinava il capo per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Lei rideva, poi gli poggiava una mano sulla spalla e con l’altra gli aggiustava il colletto del soprabito e lo lisciava, quel colletto, lo lisciava e lo lisciava in una parodia di carezza, sempre sorridendo. E intanto lo guardava, incantata. Come lo guardava! Ad ogni battito delle sue ciglia uscivano pezzi di miele che si posavano sugli occhi, sulla bocca e sul collo dell’Impallomeni.
Cos’era quella? Una dichiarazione ufficiale fatta a beneficio di tutta la Delice? O era diretta a me quella dichiarazione, a me che me ne stavo ancora in tuta a ricevere i loro sorrisi lontani, a me che guardavo inebetito l’agitarsi di mani dei loro saluti frettolosi mentre si avviavano al parcheggio?
Con quello? dicevo tra me e me mentre mi facevo trascinare a casa dal metrò, perchè proprio con quello?
Ricordo che i vetri della vettura, quella sera, erano striati di sporcizia e riflettevano un viso stanco e tirato. Il mio.
Perché con l’Impallomeni?
Dieci, cento mani nervose si appoggiavano alle mie spalle, sentivo gomiti che mi spintonavano di qua e di là ma io continuavo a guardarmi nei vetri sporchi dei finestrini e a ripetermi: perché l’Impallomeni?
Ricordo, quella sera, i mille occhi della folla che scrutano senza interesse il mio viso sfatto tastandosi i portafogli sotto la giacca. Li vedo riflessi nel finestrino sporco e mi fanno paura.
I nomi delle stazioni rallentano, si fermano e poi fuggono di nuovo via con uno strattone assieme ai ghirigori osceni disegnati nei muri. Non mi dicono niente quei nomi.
Che fa? Non spinga, per favore.
Ho voglia di sedermi. Nascondermi. Non guardare l’indifferenza negli occhi di sconosciuti. Tenuto in piedi dalla folla oscillo ma non cado. Un sostegno, dov’è un sostegno? Lo trovo. E’ freddo. E’ morto.
Scende? Dobbiamo scendere. E’ la nostra. Si tolga, intralcia l’uscita. Cos’ha? Si sente male?
Niente, niente. Non è niente. L’Impallomeni… l’Impallomeni me l’ha portata via.
Amaro Ramazzotti. Più bianco del bianco. Una striscia rossa, filante, bagnata, va incontro al treno e scompare. Anche il vetro del finestrino è bagnato e mi rimanda un viso distorto, liquido.
Rumori, vocìo, silenzio.
Ora siamo solo in quattro nel vagone. Tutti scesi. Capolinea. Dove siamo? Dove sono?
Sul marciapiede vedo confuso, come immerso nell’acqua, un controllore o forse un vigile o un poliziotto. Una divisa scura che si avvicina.
Sto bene, grazie. Che ubriaco? Non sono ubriaco. L’Impallomeni… Devo salire. Devo salire, dov’è l’uscita?
Devo salire. Voglio respirare il buio della notte e perdermi. Perdermi in un quartiere sconosciuto. Non ho niente a casa per annegare l’Impallomeni, pensai.
Sapone di Marsiglia. Amaro Ramazzotti. Più bianco del bianco. Amaro Ramazzotti. Più bianco del bianco, Sapone di Marsiglia…
Una striscia rossa nella parete bagnata, un’altra striscia gialla e tremolante nella parete obliqua che scende ripida accanto alla scala mobile.
Silenzio rotto solo dai miei passi. Sono usciti tutti.
Mentre l’ultima rampa di scale mobili mi trascinava su, accompagnato dal rumore cadenzato di ingranaggi cigolanti, sentii finalmente l’acqua bagnarmi il viso. Non era fresca, era calda e salata e ci nuotavo io in quell’acqua ma non annegavo. Non annegavo.
L’acqua è dentro di me, pensai, viene fuori e mi bagna ma io non annego.
Perchè non annego?
* * *
Non che l’Antonia non mi piacesse e a guardarla bene ha proprio un bel personale. Più alta dell’Assunta, ben piantata, con i seni grossi e due gambe ben tornite che vengono fuori dalle vesti troppo corte e dal grembiule che, dicono, si accorcia apposta.
Quando sta seduta alla linea con le gambe accavallate e veste e grembiule scivolano indietro lasciando mezza coscia nuda, gli addetti ai muletti. passando, si sporgono di lato e fischiano.
E che!, non hai mai visto un po’ di buona carne?, dice lei mentre fa finta di tirarsi giù la gonna, senza riuscirci.
Giravano brutte voci sull’Antonia, forse per via delle sue gonne corte e del suo modo di fare. L’Antonia? dicevano, mezza fabbrica s’è fatta, maschi e femmine.
Ci sei mai stato, tu? sbottavo io con qualcuno.
Io no, rispondeva, ma se volessi… quella è ninfomane e anche un po’ lesbica. Ti interessa? Non è difficile.
E invece adesso so che non è ninfomane e neanche lesbica l’Antonia. Ho capito che assapora la vita a modo suo, magari usando il suo corpo come uno strumento per farne uscire vibrazioni di piacere. Forse vive di queste vibrazioni l’Antonia. Anche quando ride c’è qualcosa che vibra dentro di lei. E’ rumore di carne viva, la sua risata piena.
In viso non è proprio una bellezza, l’Antonia, perchè ha una bocca troppo grande in una faccia un po’ tonda, da contadina. Però ha dei begli occhi scuri.
Sì, gli occhi dell’Antonia sono penetranti. Sembrano frugarti dentro, curiosi e non ti lasciano finché non abbassi lo sguardo.
Quando pianta gli occhi nei miei io non riesco a combinare nulla a letto. Lotto per proteggere i miei segreti da quegli occhi. Eppure fino a qualche momento prima mi aveva stimolato quel suo corpo generoso e quel suo fare sornione quando rispondeva alle mie carezze.
Cosa pensi? diceva. Guai a te se pensi a lei mentre sei a letto con me, capito? Se vieni con me tu l’Assunta te la devi scordare. L’Assunta non esiste.
Non penso a niente, rispondevo, che c’entra l’Assunta?
Allora fai il bravo e prendilo questo ben di dio, prendilo tutto ché tutti lo vorrebbero! E me lo dava il suo ben di dio soffocandomi quasi con i suoi grossi seni stretti a due mani contro il mio viso.
E invece l’Assunta c’entrava. Ripensavo agli occhi dell’Assuntina quando l’Antonia chiudeva i suoi ed era il suo corpo minuto che accarezzavo ed era nel corpo dell’Assuntina che entravo e sussurravo pianissimo il suo nome, quasi dentro di me, mentre l’Antonia era al culmine e smaniava, vibrava, gridava arcuando cosce e fianchi, e mi stringeva tanto da far male.
Poi s’accasciava e s’intristiva. Quella te la devi levare dalla testa, diceva scompigliandomi i capelli. Se no con me non ci devi venire. T’ho sentito, sai? Non negare! Io non voglio gli scarti dell’Assunta, cosa credi? Mille come te ne posso avere io e tu lo sai.
Che scarti?, dicevo, Assunta è fidanzata con l’Impallomeni. Fidanzatissima. Con mia cugina non c’è niente. Non c’è mai stato niente.
L’Antonia scuoteva la testa. Non era stupida l’Antonia. Fisicamente forse no, diceva triste, però in testa c’è l’hai.
Non c’era mai astio nelle parole di Antonia. Neppure amore. No. Niente cose del genere. Forse pietà o amicizia o tutt’e due. Pietà, si! I suoi occhi m’avevano frugato dentro e avevano scoperto l’abisso nero che mi ero scavato e in cui mi nascondevo quando ero sobrio.
Quando andavo da lei mezzo bevuto e restavo a sorreggermi allo stipite della porta, sorridendo come un ebete, lei non diceva niente. Neppure come stai, mi diceva. Mi tirava dentro e mi offriva qualcosa. Qualcosa di caldo. Poi attaccava a ridere con quella sua bocca larga. Che tipo, diceva, proprio a me doveva capitare uno come te, proprio a me. E intanto mi trascinava sul suo letto e cominciava a baciarmi e a spogliarsi e tutto il suo corpo mi sovrastava e mi sembrava enorme e forte e io mi arrampicavo su quel corpo, tirandomi su dal mio baratro, aiutandomi con i suoi seni, con i suoi fianchi, con le sue cosce, prima a fatica, poi sempre più in fretta, sempre più in fretta, finché sentivo esplodere una luce nella testa e, nella pace che seguiva, per un momento non esisteva più Assuntina, non esisteva nulla oltre quella stanza, quei mobili e quella pelle di velluto vicino.
Poi Antonia s’alzava con un balzo, piroettava nuda nella stanza e mi chiamava brutto scemo facendo due o tre passi di danza, canticchiando, senza mai smettere di guardarmi, prima di scomparire nel bagno.
Una volta l’abbiamo fatto sulle coperte, vestiti. L’abbiamo fatto con furia e poi, esausti, ci siamo tenuti per mano senza dir niente. Ci siamo spogliati dopo, e sotto le lenzuola ci siamo cercati ancora e mentre l’oscurità invadeva pian piano la stanza e io accarezzavo quel corpo sodo e levigato, nel buio rividi l’Assuntina, con la sua veste nuova svolazzante contro le gambe dell’Impallomeni e le mie mani si fermarono.
Stanco? fece Antonia. Io scossi la testa ma Antonia non poté vedermi al buio. Si alzò, allora, e non accese la luce e io sentii che il suo corpo si era spento.
Vado a preparare qualcosa, disse, lasciandomi a letto.
Povera Antonia, pensavo rivestendomi, io non ti merito. Proprio non ti merito. Mi alzai anch’io e andai in cucina e la trovai seduta, senza far niente, pensierosa.
Ti fermi a mangiare? mi disse piano.
No, risposi cingendole le spalle, stasera andiamo fuori.
Sgranò gli occhi: di mercoledì?
Che c’è di strano? dissi, anche di mercoledì si deve mangiare e conosco un ristorante con la musica. Stasera musica, Antonia! Dai! alzati.
Nico, non sei obbligato a portarmi fuori, fece lei con una voce triste guardandomi dal basso, ma negli occhi si vedeva che era contenta.
Quella notte mi fermai da lei. Mi prestò un pigiama che mi stringeva da tutte le parti. Mi disse che era di suo fratello e io volli crederci.
L’indomani andammo insieme al lavoro e in macchina lei si fece seria.
Lo sai cosa dicono di me in fabbrica, vero?
Cosa? risposi soprapensiero.
Dicono che sono una puttana, disse lei. Ti và proprio di farti vedere con una puttana?
Ero fermo al semaforo e quando venne il verde non partii.
No, tu non sei una puttana, dissi spingendo indietro un groppo che mi serrava la gola e inghiottendo a vuoto due o tre volte mentre si alzava un coro irritato di clacson.
Tu sei un angelo, Antonia, un angelo.
Ma và là, và là, disse lei ridendo senz’allegria, vuoi vedere che prima o poi mi faranno una statua nel piazzale della Delice?
* * *
Durò quasi un anno con Antonia tra entusiasmi e ricadute e finì in sordina, una sera, come in sordina era cominciato. Colpa mia.
Non c’è lo fatta, Nico, con te. Mi disse. Ti voglio bene ma non ce la faccio più. Sono stanca, credimi. Sono stanca di farti da balia, da madre, da sorella maggiore. Devi crescere, Nico, devi crescere, devi reagire. Così non sei un uomo.
A quel punto una volta l’ho picchiata: una sberla che mi fece un male boia dentro per un secolo.
Mi sembrava di aver profanato qualcosa e quella macchia rossa sul suo viso mi brucia ancora l’anima come un peccato da inferno.
Lei non pianse. Tirò su col naso, abbassò gli occhi e mi disse solo: vattene. Me lo disse piano, senza odio, senza rancore. C’era tanto dolore in quella parola e non per lo schiaffo. Sigillava una sua sconfitta.
Invece piansi io mentre ero in ginocchio ai suoi piedi e le abbracciavo le gambe e le chiedevo perdono come ad una madonna.
Non ti stò cacciando, Nico, mi disse tirandomi su. Non potrei perchè ti voglio bene. Vai a casa, Nico e pensaci. Ma se torni da me non voglio più sentire la Tina tra di noi.
Ritornai a casa sua ancora una volta per dirle che a lei non potevo mentire.
Mi offrì qualcosa ma non il suo letto.
Da allora la vidi solo in fabbrica e lei non disse mai una parola di quella sera e di quell’anno.
Parte Seconda
Qualche giorno dopo capii fino a che punto ero precipitato nel mio baratro personale. Fu quando gironzolando in macchina di notte, conobbi due ragazze in un bar semideserto a dieci chilometri da casa, sulla provinciale.
Potevano anche essere carine quelle due se riuscivo a metterle bene a fuoco tra le sedie e i tavoli che continuavano a girare in tondo tra le pareti ondeggianti.
Avranno avuto forse vent’anni o qualcosa di meno. Una mora, con riflessi rossi nei capelli corti e l’altra con un caschetto biondiccio, entrambe in completi di jeans attillati con i calzoni strappati e sfilacciati al ginocchio e con una lunga serie di orecchini di forme diverse.
Se ne stavano sedute in ombra in un tavolino in fondo al bar, ridevano, si spintonavano a vicenda, bevevano.
Il barista, un ometto anziano con una corona di capelli bianchi e la cravatta nera a farfalla sullo sparato bianco, le guardava storcendo la bocca.
Fra un po’ le butto fuori quelle troiette, mi disse quando riuscii a sedermi sullo sgabello, al banco. Poi guardò anche me e la sua smorfia non si attenuò mentre asciugava il bancone con uno straccio.
Quello era il terzo bar, quella sera, mi reggevo appena in piedi ma avevo ancora voglia di bere. Quando ordinai, una delle due ragazze mi gridò di prenderne tre da bere in compagnia.
Il barista fece di no con la testa, ripetutamente. Se volete, disse, vi do anche una bottiglia intera ma andate a berla fuori di qui.
Pagai la bottiglia uno sproposito e le feci salire in macchina.
Mi dissero di chiamarsi Marcella e Renata. Due nomi così. Ma non ne sono sicuro.
Si tenevano alla portiera posteriore per non cadere e mentre entravano, chinandosi, vidi allargarsi un ghigno di pelle bianca nei loro jeans strappati anche sotto le natiche. Vollero sedersi tutt’e due dietro e mentre io tentavo di guidare senza una meta, loro ridacchiavano e bevevano passandosi la bottiglia finché non ne potei più e mi fermai in una piazzola, sotto gli alberi, e allora, con un rantolo incomprensibile, mi diedero la bottiglia mezza vuota e cominciarono a spogliarsi, a toccarsi e a baciarsi ridendo e mugolando, ignorandomi.
Mi attaccai alla bottiglia e la vuotai a piccoli sorsi guardandole contorcersi avvinghiate sul sedile al chiarore della luna, completamente ubriache e quasi nude.
Ero eccitato e insieme avevo sonno. Sentivo pulsare il sangue alle tempie e provavo nausea. Un rimescolio mi agitava le viscere ma mi sentivo invaso da un torpore strano che mi chiudeva gli occhi. Tutto insieme.
Quando volli passare nel sedile posteriore mi fecero posto, ma senza entusiasmo.
Vidi che una già quasi dormiva con la testa reclinata sullo schienale e l’altra ciondolava il capo. I miei tentativi goffi si arenarono, sommersi dall’alcool, sui jeans di Marcella o di Renata che ormai non le distinguevo più, e avevo solo voglia di dormire.
Quando mi svegliai già albeggiava e faceva un freddo boia dentro la macchina.
Mi ritrovai sul sedile posteriore, solo e con i calzoni impiastricciati di sperma. Poi vidi il mio portafogli aperto sul sedile e sapevo già cosa aspettarmi.
Niente soldi. Mi avevano lasciato solo la carta di credito e i documenti.
* * *
Tirarmi su non fu facile. Andavo in fabbrica pieno di sonno ed ero pericoloso con il carrello. I compagni all’inizio mi coprivano. Se stavo troppo in gabinetto o nel piazzale qualcuno portava in magazzino con il suo carrello i cartoni accumulati nelle mie linee. Poi mi dissero di piantarla e che erano stufi di vedermi ciondolare malconcio tutto il giorno. Fra un po’ se ne sarebbero accorti anche in direzione e rischiavo il posto.
L’Assuntina era in maternità, allora, e il suo posto l’aveva preso una donnina tonda, una temporanea dal viso spaurito che stentava a prendere confidenza con le macchine e con le compagne.
Io ringraziavo il cielo di non vederla, l’Assuntina, seduta alla linea con la pancia sempre più gonfia dell’Impallomeni. Ed ero anche contento che lei non mi vedesse in quello stato.
Quando passavo barcollando dalla Antonia lei abbassava gli occhi sul nastro e il suo viso s’induriva. Da un po’ di tempo non la sentivo più ridere l’Antonia.
Solo una volta alzò il viso di scatto e mi piantò addosso i suoi occhi penetranti. Mi sembrò che stesse guardando atterrita il nero vuoto che s’era formato dentro di me. Che cazzo stai facendo, Nico? mi disse sottovoce, scrollando il capo con le labbra socchiuse, che stai facendo?
Io passai avanti senza rispondere. Cosa potevo dire?
Però quello sguardo impaurito e quelle parole sussurrate, piene di rabbia e di sconforto, mi restarono appiccicate addosso e mi trasmisero qualcosa.
Cominciai a scegliere i turni più assurdi, quando potevo. In fabbrica credevano che facessi un altro lavoro di mattina ma non mi importava.
L’Assuntina era ancora in maternità e anche con l’Antonia ci incontravamo di rado. Uscivo tardi dalla fabbrica e pieno di sonno guidavo fino a casa e quando passavo davanti ai bar se avevo in mente di fermarmi mi accorgevo di sentire nausea e tiravo avanti.
A casa lasciai le bottiglie a svaporare nella credenza e qualche volta le annusavo ma non bevevo. Non ero ancora un alcolista, per fortuna, e decisi che non volevo diventarlo.
Mi ci vollero sei mesi per tirarmi su. Le mie richieste di turni serali cessarono e la sera cominciai a seguire alcuni corsi che vedevo pubblicati nella bacheca aziendale.
Studiavo come un forsennato, anche la domenica. Andavo a casa ancora più stanco ma almeno avevo un obiettivo: volevo lasciare la tuta per un colletto bianco.
Continuavo ad andare avanti e indietro con il muletto e intanto mi dicevo che solo un colletto bianco aveva potuto portarmi via l’Assuntina.
Ci volle un altro anno per togliermi la tuta di dosso ma non lasciai la produzione. Portavo un camice bianco e camminavo con un cronometro al collo. Prendevo i tempi, cronometravo i lavori, le pause e i tempi morti e qualche volta avevo una discussione con quelli della direzione come membro della commissione interna.
Mi sentivo importante e quando prendevo i tempi dell’Assuntina, lei discuteva sulle modalità e mi dava un fastidio tremendo sentir portare sempre in ballo i consigli del suo Maurizio. L’Impallomeni fa il suo lavoro, ribattevo, io faccio il mio. Cosa vuoi che ne sappiano, quelli dell’amministrazione, di tempi e automazione?
La lasciavo perplessa mentre l’Antonia dall’altra linea guardava divertita.
Dai Nico, diceva forte per sovrastare il rumore delle macchine, accorcia i tempi anche a me, mica solo alla Tina.
Rideva di nuovo l’Antonia, come una volta, con quella sua bocca grande e rossa e notai che i suoi occhi non erano più tristi. Si diceva che stava con qualcuno e che era una cosa seria.
Io non accorcio niente a nessuno, rispondevo con il viso truce, lavorate, schiave, lavorate che vi sorveglio. Poi scoppiavamo tutti e tre in una sonora risata e anche le altre ridevano e per qualche momento le risa sommergevano i gorgoglii e i risucchi della riempitrice e gli scratc, clap, clap dell’etichettatrice.
* * *
Il giorno che l’Impallomeni morì schiacciato da un tir che faceva manovra sul piazzale io ero fuori turno.
Lo venni a sapere per telefono da Antonia e mi precipitai subito all’ospedale ma era ormai troppo tardi.
Trovai Assuntina seduta in una seggiola del corridoio che, piccola com’era, neppure si vedeva perchè era circondata dalle compagne delle linee. Più in là c’era un gruppo di impiegati e qualche funzionario della fabbrica. L’Assuntina piangeva e scuoteva forte la testa, dicendo qualcosa a cantilena. Le vidi gli occhi che sembravano due fessure e il viso terreo. Qualcuna le teneva la fronte e un’altra le carezzava i capelli e le spalle dicendole “coraggio, coraggio”.
Non mi vide subito. Io restai indietro, indeciso. Mi sentivo bloccato da un mare di emozioni e fu Antonia a prendermi per un braccio e a spingermi dall’Assuntina. Ha bisogno di te, cretino di un Nico, mi gridò in un orecchio, cosa stai lì impalato? Sei l’unico parente qui, adesso. Non puoi lasciarla sola.
Quando Assuntina mi vide aprì un poco gli occhi e mi disse solo: Maurizio è là dentro. Poi sollevò il mento e due lacrime scivolarono sulla camicetta mentre tentava di alzarsi.
E’ là dentro, diceva Assuntina, fammi andare da lui. Voglio andare da lui. Nico, accompagnami da Maurizio.
E io l’accompagnai sorreggendola per un braccio e quel braccio tremava sotto la mia mano.
Lei andava avanti a passetti verso la porta a vetri della terapia d’urgenza e dietro sentivo il mormorio di tutta quella gente che sembrava un lamento lugubre, intonato in una cattedrale di dolore.
Stavano staccando i tubi dall’Impallomeni e io mi aspettavo un corpo fracassato ma non era così. Il guaio non si vedeva. Era dentro.
Sembrava dormisse l’Impallomeni e lei si avvicinò sorridendo, con gli occhi da pazza, scostando gli infermieri.
Maurizio, sussurrava, perchè dormi, Maurizio? Maurizio, svegliati! gridava, dove vuoi andare, Maurizio? Tu non puoi lasciarci, urlava, non mi puoi lasciare! Portami a casa, Maurizio, a casa, da Matteuccio tuo! E quei due nomi li ripeteva sempre più piano, sempre con meno convinzione, finché tutto diventò un sussurro incomprensibile in un gorgoglìo di pianto.
Poi si mise una mano alla bocca e strinse forte, al punto che si vedeva la pelle degli zigomi lucida e le labbra serrate lasciarono fluire un mugolìo cupo e continuo.
Quando Assuntina tentò di abbracciare l’Impallomeni, si fermò a mezz’aria. Vidi che chiudeva gli occhi e abbassava le braccia sui fianchi come un burattino slegato e fummo in tre a sorreggerla e portarla via di peso, svenuta.
* * *
Domenica, ore 7,30 . . .
Un uomo con un giaccone di pelle tutto liso e strappato ai gomiti è seduto su una cassetta della frutta sul marciapiede davanti alla chiesa di Sant’Angela Merici.
Da un berretto di lana calcato sino alle orecchie escono ciocche di capelli grigi e ha davanti una scatola di scarpe con dentro qualche moneta e, più discosto, un cartone di vino rosso.
Tempo gramo per mendicare, penso. Non c’è quasi nessuno a quest’ora di domenica e minaccia di piovere.
Da una traversa sbuca della gente e parlottando si ferma all’edicola dei giornali mentre una coppia giovane si avvicina allo scalone di cemento della chiesa tirandosi dietro due bambini.
L’uomo si fruga in tasca, lascia cadere qualcosa nella scatola di scarpe poi prende in braccio il bambino più piccolo e insieme salgono i gradoni della chiesa.
Il mendicante storce il collo rugoso e li segue a lungo con gli occhi cisposi finché i quattro non vengono inghiottiti dal portone. Poi scuote la testa, prende alcune monete dalla scatola e li mette in tasca, al sicuro.
Non è una bella chiesa questa di Sant’Angela Merici. Troppo moderna, stilizzata, con grandi ali di cemento ai lati che forse volevano significare qualcosa ma che adesso sono solo brutte, annerite dallo smog e striate dalla ruggine dei tondini di ferro che sporgono qua e là, bucate da assurde finestre ad arco gotico, con i vetri colorati.
In quella chiesa Assuntina è diventata Impallomeni. Bella roba.
Non c’entrerò mai in quel posto, penso, e intanto guardo le copertine delle riviste appese tutt’intorno all’edicola perchè è ancora troppo presto.
Dopo un po’ mi avvio lentamente verso la casa di Assuntina che è pochi isolati dalla Chiesa e le sue finestre danno proprio sulla strada. Cinque minuti a piedi.
In una pasticceria compro un po’ di paste con la frutta sciroppata, cammino ancora un po’ e sono sotto la casa di Assunta.
Ora la casa è veramente tua, Assuntina, pagata con i soldi della Delice e dell’assicurazione che c’è voluto un fior d’avvocato per farglieli tirar fuori.
Ricordo come ho dovuto lottare anch’io allora, come cugino e ancor più come rappresentante sindacale, nella commissione interna e negli uffici della direzione, sventolando i piani di lavoro e gli ordini di reparto che mi ero procurato all’amministrazione, ma qualcosa l’abbiamo spuntata. E che? Volevate lasciarla in braghe di tela l’Assuntina con un figlio di cinque anni e l’affitto da pagare?
Ora hai la casa, Assunta, e anche una pensione. Quella dell’Impallomeni. Ma questa la devi perdere, Assuntina, la devi proprio perdere, perchè ti sposo.
Te lo dirò più tardi, Assuntina, che ti sposo.
Un colpo leggero al citofono, perchè magari Matteuccio a quest’ora dorme ancora, e tu mi aprirai nella tua vestaglia rosa, con il viso ancora assonnato, e io te lo dirò, te lo dirò di furia, prima di svegliarti del tutto. Mi sentirai come in sogno. Mi abbraccerai. Mi dirai di sì.
Magari faremo colazione insieme e io potrò raccontarti cosa mi ha detto ieri la maestra di Matteo.
Te lo dirò guardandoti negli occhi e poi ti dirò … ti dirò… ti dirò…
Sono nel marciapiede di fronte al tuo palazzo. Una portafinestra al terzo piano, quella con i gerani, si stà aprendo e riflette lampi di luce.
Non è la tua. Si affaccia una donna che appoggia un tappeto a prendere aria sulla ringhiera. E’ presto. Ancora un poco, ancora un poco.
Attraverso la strada e sono al portone. La mano mi trema mentre schiaccio il tasto del citofono. Impallomeni, si legge a stento, sbiadito dal sole.
Sono io, Assuntina. Nico sono. Posso salire?
Sono entrato cento volte in questo portone ma oggi è diverso. Mi sento diverso.
Impallomeni, ritagliato da un biglietto da visita, sul pulsante del campanello.
Non suono ma aspetto con l’ansia e la paura di un adolescente e intanto mi riassetto i capelli e la cravatta.
Impallomeni, in ottone, sulla porta, lucidato a specchio.
Assuntina mi apre e non è in vestaglia, non ha il viso assonnato. C’è anche Matteo con lei, mezzo vestito.
C’è zio Nico, Matteo. Zio Nico ha portato le paste. Ma non dovevi, Nico, che t’è saltato in mente? E’ vestita di tutto punto, l’Assuntina, e armeggia con il cappottino di Matteo.
Esci, Assuntina? Così presto? Si, mi risponde. Però hai fatto bene a venire, Nico, così facciamo due passi insieme se ci accompagni fino alla Chiesa.
Quale Chiesa? faccio io.
La Sant’Angela Merici, quella vicino a casa tua, fa lei, quella in fondo alla strada; che mi ci sono sposata con Maurizio in quella chiesa, non ricordi?
Non è presto, dico, per andare a Messa con il bambino?
Lei mi guarda dal basso, inginocchiata per allacciare le scarpe di Matteo e forse legge la delusione sul mio viso mentre dice: Questa è una messa speciale, Nico. Proprio speciale. E’ la sua messa. Oggi è l’anniversario.
Non c’è solo delusione, nel mio viso, ne sono sicuro.
Dai, Nico, non fare quella faccia, lo so bene come la pensi in fatto di messe. Non ti stò mica chiedendo di venire in Chiesa. Se ti va facciamo la strada assieme.
Certo che mi va, Assuntina mia e anche se ho il magone dentro, per strada mi metto in mezzo a loro due e Matteo mi tira il braccio e mi storce la mano perchè vuole tornare a casa a mangiare le paste e non vuole andare in Chiesa.
Ieri la maestra di Matteo…, comincio io, sai, quella del pomeriggio, … beh, mi ha parlato…
C’è qualcosa che non va? dice lei aprendo gli occhi, preoccupata.
Oh, no, no, cosa vai a pensare! Va tutto bene, rispondo, Matteo è proprio un bravo bambino, vero Matteuccio che a scuola sei un bravo bambino? Ma c’è una cosa…una cosa … poi ti dico… Ora siete arrivati.
Siamo tutti e tre davanti alla Chiesa e Assuntina mi sorride triste e mi dice: Se vuoi venire a pranzo, lasagne e coniglio, e dopo magari mangiamo le tue paste. Mi fai contenta, davvero, Nico. E farai contento anche Matteo. Vero che vuoi che venga lo zio Nico a mangiare le paste con noi, Matteo?
. . . . . .
Cosa mi ha preso? Perchè mi viene voglia di prendere in braccio il piccolo Impallomeni e salire lo scalone assieme a loro? Perché dico all’Assuntina di sbrigarsi? Lei mi guarda, esita un attimo, poi ci segue mentre Matteo, divertito, mi tira un’orecchia e mi sembra una carezza.
E intanto penso. Penso veloce. Immagini, più che parole mi attraversano la mente.
Cinque gradini ancora.
“Impallomeni, oggi là dentro tutti pregheranno per te. Io sono dieci anni che ti odio, al punto che ho odiato anche il tuo nome di battesimo e ti ho chiamato sempre Impallomeni. Un cognome lungo lungo, il tuo, che fa gonfiare la faccia e arrotolare la lingua solo a pronunziarlo, quel cognome, ma adesso sono stanco! Stanco di chiamarti Impallomeni, stanco di odiare. Stanco di odiarmi… E se salgo con in braccio tuo figlio è perchè anch’io oggi voglio fare una preghiera, e farla a te, a te solo, Impallomeni… Anzi, a te Maurizio.”
Quattro, gradini ancora.
“Sì, Maurizio. Voglio chiederti umilmente, in ginocchio, a mani giunte, la mano di tua moglie Assunta!”
“Perché lo chiedo a te? dici. Dovrei chiederlo a lei? No, no, Maurizio, così non va. Tu ci sei proprio dentro all’Assuntina, neppure la tua morte vi ha separati. E’ una cosa troppo grossa per un essere umano. Forse tu puoi fare qualcosa, che so… chiedere meno amore … allontanarti, ecco… allontanarti. “
“Devi sapere che ieri alla maestra di Matteo, quella del pomeriggio, è scappata una frase, l’ha buttata lì come niente, sai che ha detto? Che ha bisogno di un padre, quel bambino. Di un padre, Maurizio, di un padre vivo, di uno come lei, mi ha detto, così premuroso, così attento, così affettuoso! Parlava di me, Maurizio, lo capisci? proprio di me parlava!”
Tre gradini…
“Ma non è solo questo, Maurizio. Adesso con te bisogna essere sinceri. Non è solo questo! A te non posso mentire… Da lassù tu puoi guardarmi dentro, Maurizio. Tu sai la verità. E la verità è che anch’io ho bisogno di un po’ d’amore…”
“Magari non tanto. Non come quello che è spettato a te. Un poco mi basta. Mi basta poco.”
“Lasciami un po’ d’amore, Maurizio, ti prego! Lasciami un po’ dell’Assuntina. Un piccolo spazio nel suo cuore… Quel poco per continuare a vivere… Solo un poco di quell’amore che tu hai già avuto in vita e che è stato tanto, enorme, immenso e che continui ad avere anche oggi, che sono passati tre anni.”
Due gradini…
“Tre anni, Maurizio! Capisci? Tre anni! Che te ne fai ora di tutto quest’amore, Maurizio? Dimmelo: che te ne fai?”
Ancora un gradino…
Assuntina è ferma davanti alla porta della Chiesa.
– Nico, non vai? dice.
Assuntina è perplessa. Tende le mani per far scendere a terra Matteo.
– No, no, lascia. Vi accompagno.
– Dentro la Chiesa, Nico? Tu? Tu vuoi entrare e sentire la Messa?
– Sì. Oggi devo entrare anch’io. Aspetto una risposta.
Enzo Maria Lombardo