Maria lo sapeva, fin troppo bene, cosa significa il sacrificio e la fatica fisica. A metà fra i venti e i trenta si era già fatta una buona esperienza di vita sentimentale e professionale, per capire come andavano le cose e come girava il mondo. Ma certo quella notte era proprio difficile da dimenticare: bruciava ancora tanto sulla pelle. Per fortuna aveva buone gambe, per correre veloce, proprio come le diceva suo papà da piccola: e anche prima di perderlo del tutto, dopo quella infame e veloce malattia che non aveva perdonato il suo vizio di bere un goccetto e di fumare. La sua ultima raccomandazione alla piccolina di casa fu: “Maria, corri via veloce!”.
Eh sì! Per fortuna lei correva veloce, in quegli assolati pomeriggi con il suo papà, sin da piccola, sui campi in fiore, per vedere chi arrivava per primo in cima alla collina. Correre per un dolcetto, correre per un abbraccio e per un sorriso strappato a quel viso burbero ma dagli occhi e dal cuore dolcissimo di quell’uomo, negli ultimi giorni di vita. Leggera come un uccellino, capelli biondi al vento, sorriso birichino, svolazzava come una farfallina, respirando la vita in compagnia del suo papà.
Ma quella notte lo aveva capito ancora meglio, sulla sua pelle, senza il suo papà, cosa era il sacrificio e il dolore. Dopo la perdita del padre in famiglia erano rimaste lei, la mamma e le altre tre sorelle più grandi. Si erano rimboccate le maniche. Maria, la biondina, l’ultima arrivata, la più esile, la più schiva, la più indipendente. Lei che rubava attorno al tavolo della cucina lo studio ad Anna; lei che spiava da dietro la porta le affettuosità di Silvia con il fidanzato; lei che meditava sulla forza fisica di Sonia al ritorno dal lavoro in fabbrica. Lei, che con il suo silenzio e la gioia del cuore, sapeva ricolmare di affetto e di amore la mamma e tutte quante loro messe insieme, radunate in cucina, o sul lettone a darsi la buonanotte e la benedizione.
Era cresciuta Maria, ed anche troppo in fretta, ma la forza di andare avanti e di affrontare la vita faccia a faccia le scaturiva da questi dolci ricordi e dall’affetto che la legava alle sue sorelle e alla mamma. Benché lontana, lei con il suo spirito libero alla ricerca di avventura e di fortuna, voleva dimostrare al mondo intero che avrebbe vinto quella sfida con se stessa. Era infatti partita da casa con un lavoro sicuro in tasca che l’attendeva al nord: aveva lasciato così la casa nativa, la sicurezza, malgrado fragile e precaria, delle sue donne attorno al focolare domestico.
Dopo il lavoro e la nuova sistemazione venne anche l’amore. Il suo primo fidanzato serio, la sua ingenuità forse malcelata, il suo primo grande impegno. Tutto da soli: un amore a prima vista, bello e grande come il sole, che li rendeva invincibili e ciechi. Una convivenza felice malgrado i tanti sacrifici. Negli occhi di Maria brillava orgogliosa la voglia di vivere e di dimostrare a se stessa e alla sua famiglia, l’altra, quella lontana che ce la poteva fare.
Malgrado i sacrifici e le ristrettezze, quelle della casa materna, Maria era cresciuta con i sogni delle fiabe in testa. Ed ora che aveva trovato il suo Principe Azzurro, come raccontava alle sue donne nelle lunghe lettere a casa, era felice: era un amore bello, solido, immenso. Ma il primo. E lei si sentiva bene. Così il meglio dei suoi venti e pochi anni correva via, giorno dopo giorno, mese dopo mese, fino alla nascita del piccolo Nicola. Tutto lei, da sola: moglie, madre figlia allo stesso tempo, in un corpo fragile ma sorretto da una volontà ferrea.
Con l’avvento dell’euro i primi segnali della irta salita. La vita di Maria, di moglie e mamma, il suo cammino terreno, non era più pieno di rose e fiori, bigliettini di auguri, confetti e anniversari. Ormai non c’era più tempo per badare a queste cose: c’era l’affitto da racimolare, il lavoro da difendere, il bambino da viziare e consolare, il marito da servire e riverire. Maria lo sapeva quale sacrificio, quale duro prezzo da pagare per l’amore e l’unità della sua famiglia. Ma ce la doveva fare da sola, proprio come le altre donne di casa, anche se lontane tiravano la corda, tiravano avanti fino alla fine del mese; ce la doveva fare, ripeteva ogni giorno a se stessa fra il latte e pannolini sporchi, l’asilo nido comunale, i turni al lavoro, la spesa, il pane quotidiano. Ce la doveva fare e ripensava agli occhi di quel buon padre che la sfidava alle corse, allenandola alla importante gara della vita. E doveva vincere, voleva vincere quella sfida.
Con umiltà e con la gioia di vivere, giorno dopo giorno, Maria rinunciava sempre più ad una parte di sé per accomodare e allentare le tensioni e le incomprensioni che nascevano e lievitavano, come panna montata, con suo marito. Lui era cambiato. Lui sempre nervoso e irascibile. Non era stato mai così prima della nascita del bambino. Sempre tenero e affettuoso. Sempre attento e accorto al benessere di Maria ed anche durante tutta la gravidanza, premuroso e gentile nei riguardi della “futura mammina”. Ora non era più così. Ora Maria era stanca. La sera, dopo aver lavorato il turno in fabbrica, iniziava un’altra giornata di lavoro a casa: giocare con il bambino, pensare alla spesa, lavare, stirare e preparare la cena. Addormentato il bambino e spente le luci si abbandonava, sfinita, sul divano e spesso rifiutava, scusandosi gentilmente, le richieste di amore e di affetto del marito.
Lui non la capiva. Lui si ingelosiva. Lui si arrabbiava. Lui tirava calci alle sedie. Lui non si dava pace e sbatteva la porta rinchiudendosi al bagno o uscendo di casa. Maria era stanca e se “per una sera non faceva l’amore con suo marito – pensava fra sé – non succede poi la fine del mondo!”. Il bambino la assorbiva. Il lavoro la stressava: la direzione non vedeva di buon occhio le donne appena sposate che sfornano figli in gran quantità, erano come bombe ad orologeria. Il suo fisico sottile e fragile non si era ancora gran chè ripreso dopo il difficile parto. Maria lo sapeva. Ma suo marito non voleva capire. Ogni giorno era più diffidente ed ostile. Ma lei ricordava l’esempio dei suoi genitori. La bontà e la fiducia negli occhi di suo padre quando guardava sua madre e si rispecchiavano così uno nell’altra. Giorno dopo giorno. Affrontando insieme, non senza difficoltà, le gioie e condividendo le sofferenze.
Maria lo sapeva il sacrificio che costava l’amore di suo figlio ormai avviato al primo anno di scuola materna; il conto degli spiccioli, il risparmio su un vestito o un paio di scarpe. E suo marito, “quel bambino mai cresciuto”, come confidava a sua madre scrollando la testa e difendendolo in fondo al suo cuore; che tornava a casa sempre con le grandi idee, di investimenti, di colpi di fortuna, di occasioni che ti capitano una sola volta nella vita, e intanto non si scomodava a stare a giocare con il bambino, o urlava e cambiava stanza se Nicola piangeva per un capriccio o aveva mal di pancia.
Prese, così, l’abitudine di uscire di casa sempre più di frequente anche la sera, perché non si sarebbe mai abbassato a tenere lui il bambino mentre Maria tentava un secondo lavoro o finiva l’ultimo turno. Dove era scritto che la donna lavora e il marito sta a casa a fare il Baby Sitter: “Ma che ci vogliono mettere in testa queste donne?” predicava il marito al bar davanti al tavolo del biliardo. “Le donne devono stare a casa; e poi vogliono la parità dei diritti. Le farei lavorare io… come le schiave! Tsè” si esaltava e si vantava sempre di più il marito alle spalle di Maria, con aria da gradasso e burbero, nella intima consapevolezza di aver perduto la libertà di una volta ora che era salito di un gradino nella scala della vita. Si inorgogliva ogni giorno di più, vedendo la sua vita divisa fra il lavoro alienante della fabbrica, i pianti del bambino, la sua Maria sempre stanca e distratta. Non era più al centro dell’attenzione, quel bambino lo aveva spodestato dall’essere servito per primo a tavola, dalle cure e coccole che Maria un tempo gli riservava.
Maria invece, nel suo umile quotidiano silenzio, sopportava questa situazione arrivata ormai quasi al limite; faceva ogni sforzo per completare quello che ogni marito dovrebbe, di dovere, assicurare alla famiglia senza sperperare tutto in birre, sigarette e discorsi al vento. Finchè lui, un bel giorno, per seguire il consiglio degli amici al bar e di colleghi in fabbrica, invece delle raccomandazioni della moglie, all’inseguimento dei sogni impossibili, aveva tentato la sorte: un colpo di pazzia, un biglietto sola andata per la Polonia. Una nuova azienda che apriva di un suo ex capo o chissachi, possibilità di lavoro come autista. I risparmi messi da parte con sacrificio e umiltà, nella speranza di rinnovare la vecchia utilitaria e concedersi qualche agio in più spariti in una mezza giornata, con i sogni di gloria e di vanità di quell’uomo che si era bevuto fino all’ultimo sorso del suo cervello.
Maria non aveva bisogno del parrucchiere, li teneva corti apposta, un po’ di gel e via! Maria non aveva bisogno di scarpe eleganti, non usciva mai per feste, ma qualche volta una birra e una pizza e andava comoda con le sportive con i lacci. Maria non si dilungava con i giornali all’edicola, non aveva tempo di dedicarsi a tutte quelle raccolte. Maria e suo figlio, anzi per essere precisi, Nicola e Maria. Tutto per lui e quello che restava per lei. Si concedeva solo un libro ogni tanto, la sua unica, grande passione che la faceva volare in posti incantati, le faceva sognare storie d’amore bellissime, la faceva commuovere; da quelle pagine, dalla condivisione delle gioie e sofferenze traeva la forza per andare avanti, a testa alta, malgrado i sacrifici e il pane e lacrime di cui si nutriva da quando, anche il marito l’aveva abbandonata al suo destino. Neanche più una telefonata. Silenzio assoluto. Il nulla. Ma a volte, pensava fra sé Maria, non tutti i mali vengono per nuocere!
Così ora era davvero sola. Maria, sola con se stessa ma con suo figlio e, naturalmente, la ricarica del cellulare per sentire la mamma, cordone ombelicale virtuale per non interrompere quella comunione di affetto, dolcezza, sostegno morale, alimentando così quel corpo esile ma pieno di energia. Ritrovata la tranquillità apparente dopo la partenza dell’uomo di casa, Maria aveva ripreso in mano la sua vita: riusciva a gestire il turno di lavoro, la scuola materna e anche un secondo lavoro la sera, lasciando il bambino alla vicina di casa, miracolosamente apparsa in suo aiuto. Aveva potuto accettare così la gestione estiva di un chiosco, situato proprio nei giardini vicino casa sua, insieme ad una sua amica: fra granite, caffè shakerato e birre fredde passava le serate in allegria, socializzando con gli stranieri in visita ai monumenti della città, rimbalzando i pensieri tristi e la solitudine fra i tavoli, all’aperto, sotto le stelle.
Ma quella notte, di “Parole e Musica per Luna e Stelle” non era facile da dimenticare. Avevano organizzato una serata di intrattenimento e degustazione vini sotto le stelle di San Lorenzo, accompagnati dalla magia delle note musicali e delle calde parole della voce recitante le più belle poesie alla Luna. Un’emozione unica. Ma anche tanta fatica e lavoro. Un continuo lavare piatti, bicchieri, asciugare, sparecchiare, fare scontrini, servire, sorridere, parlare, abbozzare, camminare avanti e indietro. Tanta gente. Applausi e allegria. E un buon incasso a fine serata.
Maria era stanca ma felice e soddisfatta di sé, e dei suoi sacrifici. Tutto per la sua creatura. Tutto per se stessa. “Buonanotte Livia, si è fatto veramente tardi” Maria salutò così la sua amica, affrettandosi per il parco sulla via di casa.
Nel silenzio e nella quiete dell’estate, placata la calura, fra le aiuole del parco e le fontanelle, Maria, scossa da un brivido di freddo affettò il passo. Il suo cuore batteva. Batteva forte e rimbombava sempre più, come una sveglia antica nella notte insonne, martellando l’assordante silenzio del vialetto. I lampioni in quel punto sembravano addormentati; le panchine spoglie, i cestini ricolmi di rifiuti abbandonati dagli ultimi ritardatari, amanti del cielo e delle stelle.
E all’improvviso un’ombra spuntò alle sue spalle, un’ombra veloce che sopraggiunse da dietro i suoi passi. Una mano le tappò la bocca soffocando le sue inesistenti urla. Quel fiato sul collo, un alito caldo, profondo. Quell’ansimare con il respiro grosso, quella voce impastata dall’ultimo wiskhy, rauca e animalescamente profonda, quelle labbra carnose che le mordevano la fresca pelle delle spalle nude. Un unico brivido. Un unico urlo nel silenzio della mente. Un unico desiderio: correre veloce. “Finalmente soli! Ahh come sei bella Maria… mmh questi capelli, che profumo… la tua pelle abbronzata… il tuo odore di agro e di limone…” pronunciava quella voce nauseabonda. Maria si divincolava come una biscia, si piegava, si contorceva nel suo esile corpo, cercando di evitare quel forte contatto; quella forza di maschio che la offendeva, la cercava, la spogliava, la toccava, disordinatamente, selvaggiamente.
Quelle urla soffocate le provenivano dal profondo, dal suo intimo centro. E una forza cieca, una rabbia in quel corpo da uccellino, non le impediva di tirare calci, pugni morsi come e dove capitava. Era bloccata. Maledettamente e tremendamente in quell’abbraccio che l’aveva sorpresa alle spalle; il fiore della sua femminilità fra le mani infangate di quella bestia, alla ricerca di carne da mordere e divorare.
“Maria corri. Maria scappa”. Maria piangeva. Maria lo sapeva quello che stava per accadere. Maria che non si poteva girare. Maria che guardava implorante le stelle, esprimendo l’ultimo desiderio che mai avrebbe desiderato, mai avrebbe pensato. “Ferma Stellina, non avere paura, ci sono io con te a proteggerti. Vieni qui, stai buona, eri così brava prima a muoverti fra i tavoli con i tuoi amici, perché ora non sei carina con me. E’ il mio turno. Io ti voglio, lo senti quanto ti voglio? E’ da tanto che cerco di dirtelo, ma tu non mi stavi ad ascoltare. Avevi sempre fretta. Venivo a trovarti tutte le sere, al chiosco, a salutarti, a cercare i tuoi occhi azzurri, a consolarti. Come sei bella, Maria. Mi fai impazzire. Con questo corpo da bambina cresciuta. Si… Si… finalmente sei mia…”.
Maria piangeva. Maria lo sapeva e conosceva il sacrificio e il dolore. Ma quella notte il suo corpo fragile e sottile, seppure offeso, era riuscito grazie alla grinta e alla forza della disperazione a liberarsi da quella trappola infernale. Maria quella notte scappò via, veloce; scappò via da se stessa. Il suo Spirito libero avrebbe consolato la ferite del corpo, di quel corpo sottile e fragile, sorretto da una grande forza d’animo e da una magnifica voglia di vivere. Maria era sola con se stessa. Ma a casa c’era qualcuno ad aspettarla: suo figlio, che dormiva tranquillo i sogni più belli del mondo.
A Maria e al suo spirito libero
Lucia Cucciolotti
“Premio Letterario Nazionale Scriveredonna 2006”
Ogni commento sarebbe fuori luogo. Complimenti.
molto bello!
lo sò ho già commentato mesi fà ma il racconto è toccante come pochi.Brava Lucia