Il giorno dopo 1


raccontidi Renzo Montagnoli

La città quella sera era pressoché deserta; pioveva in quel precoce autunno che non vedeva il sole da diversi giorni. I rari passanti frettolosamente arrancavano allo scarso riparo delle grondaie con un unico desiderio: ritrovare il riparo e il caldo del focolare domestico.
Solo un’ombra s’aggirava lentamente, senza meta, protetta solo da una mantellina e da un elmetto, incurante degli scrosci, quasi non le importasse nulla di eventuali malanni, non improbabili con quell’umidità ed il freddo tignoso che penetravano fino alle ossa.
Mario alzò il bavero, poi si asciugò il viso e proseguì il suo cammino; era la sua ultima sera di libertà, il suo ultimo giorno di certezze, poi l’indomani sarebbe partito per quell’inferno di cui tutti parlavano e da cui pochi erano tornati: il Carso.
La guerra durava ormai da due anni e l’annuncio trionfante che sarebbe stata breve era stato rapidamente cancellato.
Vent’anni era l’età di Mario, un’età di gioie, di speranze, di innamoramenti; questo in altri tempi, non in quelli dove l’unica certezza era che la vita poteva essere tremendamente breve.
Era tutto il giorno che girovagava senza una meta, con la disperazione che può avere chi sa che la vita finirà da lì a poco.
Aveva ascoltato con angoscia i racconti dei soldati in licenza, in particolare del cugino che non riusciva  a capacitarsi  di essere  ancora vivo. Frasi mozze, pronunciate con voce soffocata, accompagnate da un percettibile tremito del viso.

“ Fango, fango, o pietraie, ma ovunque morte; il tormento dell’attacco, il balzo fuori dalla trincea, chi cade intorno a te, le mitragliatrici fiammeggianti che ti puntano, l’immane esplosione dei proiettili delle bombarde.
Mario ascoltava e, mordendosi il labbro, pregava che non fosse vero, che fosse frutto di esagerazioni, ma poi si accorse sgomento che i racconti del cugino collimavano con quelli di altri reduci, e in tutti colpiva quel tremito del viso, quella sorta di espressione attonita, rassegnata.
– Vedi, arrivi ad un punto che ti rassegni; speri solo di non soffrire. I primi caduti ti lasciavano sgomento, poi sono diventati talmente tanti che….; non c’è posto per le amicizie, perché non potrebbero durare. E poi tutta quella sporcizia, il cibo scotto, i piedi permanentemente nel fango, i pidocchi che ti tormentano… A volte penso che l’inferno non potrà che essere meglio.”

Quando aveva ricevuto la cartolina dal distretto l’aveva letta solo come chi può leggerla uno che è già preparato alla fine dei suoi giorni, e quel giorno di pioggia che volgeva alla notte l’aveva trascorso come fosse stato l’ultimo della sua vita, perché l’indomani sarebbe partito per un viaggio senza ritorno.
Aveva camminato a lungo senza una meta, fermandosi solo in ogni osteria a farsi un goccio, nella speranza che l’alcool ottenebrasse la sua mente.
Quando preparano un attacco non ce lo dicono, ma lo comprendiamo, perché si raddoppiano le dosi di acquavite. Ci vogliono ubriachi, senza volontà, perché se il cervello funziona chi mai si sognerebbe di correre incontro alla morte certa.”

Che cos’era stata la sua vita?  Aveva cominciato da giovane a fare il garzone nella macelleria sotto casa; ore e ore di lavoro mal pagate, rimbrotti continui, la miseria di una famiglia con tanti fratelli, e un solo sogno: fuggire via, ovunque, senza pensare, per ricominciare, crearsi una vita giorno dopo giorno, metter su famiglia; la famiglia, lui che non aveva mai baciato una donna! Che schifo di vita: nulla di bello da ricordare e allora tanto valeva la pena di terminare presto, anche se era ingiusto. E domani…

Isabella uscì dal lavoro e si affrettò verso casa, riparandosi il capo, per quanto possibile, con la borsetta.
Lavorava dieci ore al giorno in una modisteria, fatiche continue, assai poco retribuite, ma le permettevano di non pensare a quel marito caduto in uno dei primi mesi di guerra dopo solo un anno di matrimonio.
“Quanto l’aveva amato! Era stato il suo primo uomo ed in lui aveva apprezzato la gentilezza, non disgiunta da una evidente forza interiore. Il loro era stato un rapporto forzatamente breve, ma intenso, ed il ricordo che ne serbava le faceva palpitare il cuore. Quand’era partito per il fronte era stato capace di trasmetterle la sua forza che aveva placato l’angoscia e la trepidazione che la pervadevano.
 L’aveva accompagnato alla tradotta e nel momento del commiato – Amore mio, torna, torna. Tieni questo mio fazzoletto e se lo appoggerai sul tuo cuore sentirai battere anche il mio –  gli disse fra le lacrime, che lui aveva asciugato con quel piccolo pezzo di tela che profumava di violetta. Era poi partito, ma il fazzoletto era rimasto fra le mani di lei. Altre lacrime lo avevano inzuppato quando era giunta più tardi la notizia della morte avvenuta in combattimento. Da allora l’aveva sempre tenuto nella borsetta, così da non separarsene mai.”
Isabella girò l’angolo e venne urtata da uno sconosciuto, un militare.
– Mi scusi, signora.
– Va bene  – e si chinò a raccogliere la borsetta caduta a terra.
Nel rialzarsi osservò lo sconosciuto: un giovane, forse della sua età, fradicio di pioggia e con uno sguardo triste.
– Non l’ho vista; è che sono frastornato; sa…, domani parto per il fronte. Se posso…, non so…, se vuole…; qui piove e fa freddo; le andrebbe di bere un caffè?
Non era una cortesia, era una supplica ed Isabella se ne accorse; non sapeva che fare, non le sembrava decoroso entrare in un’osteria con uno sconosciuto, ma anche lui sarebbe partito il giorno dopo e chissà quali tormenti l’affliggevano.
– Sì.
Lì vicino c’era un’osteria, un ambiente fumoso dove l’odore acre del vino si mescolava al puzzo dei toscani.
Entrarono e presero posto ad un tavolo traballante, uno di fronte all’altro.
Mario guardava la donna alla luce della lampada che pendeva dal soffitto: non poteva essere definita una bellezza, ma in lei c’era un innato senso di dolcezza che le dava splendore e poi emanava una forza interiore che si poteva scorgere nel suo sguardo mite, ma fermo, quasi che gli eventi della vita fossero per lei nulla più che un ricordo dal quale trarre spunti per proseguire.
Un lungo silenzio li accomunava, ma gli occhi finirono per incontrarsi e quelli spenti e tristi di Mario si accesero di una nuova luce che non passò inosservata ad Isabella.
– Sono vedova; mio marito è caduto nei primi mesi di questa tremenda guerra; da allora è la prima volta che sono seduta ad un tavolo con un uomo.
– Capisco e anche per me è la prima volta che sono davanti ad una donna, una bella donna.
– Non esageri, sono una come tante.
– No, lei è diversa, lei è la cortesia, la dolcezza…, è tutto quanto di bello c’è al mondo; lei è la vita.
Isabella sorrise per i modi impacciati di Mario, ma quel ragazzo le faceva tanta tenerezza, con quella sua aria sperduta, quel timore per il domani che si poteva leggere nei suoi occhi. E poi, non sapeva il perché, ma sentiva per lui un’attrazione che non riusciva a giustificare.
Bevvero distrattamente il caffè, o meglio quel liquido nero e caldo che avrebbe dovuto essere caffè, ma non sentirono il gusto, perché i loro sensi erano tutti orientati in un’unica direzione.
Il pendolo dell’osteria battè le dieci. – Mi scusi, si è fatto tardi; devo andare –  e si avviò verso la porta. Mario la rincorse; uscirono in strada entrambi e sotto la pioggia si guardarono ancora una volta. Fu solo un attimo, un brevissimo istante, ma le loro labbra si incontrarono.
– Ci sarò anch’io domani alla partenza – gli gridò Isabella e corse via.
Mario rimase fermo sotto la pioggia che gli sembrò diventata amica.
Il giorno dopo la Stazione Centrale era affollata per la partenza della tradotta. Mario continuava a guardarsi intorno, la cercava, doveva vederla. E come promesso, lei venne.
– Come ti chiami?”
– Mario Stuani.
– Io Isabella Damato; ti ho portato un dolcetto e nel pacchetto c’è anche il mio indirizzo: mi scriverai?
– Ma certo che ti scriverò, ogni giorno, sarà come parlare con te.
Questa volta il bacio fu più intenso, insieme con un abbraccio forte e fremente.
Il treno fischiò.
Mario si ritrasse. – Aspetta – e frugando nella borsetta la donna ne trasse il fazzoletto. – E’ mio, ma adesso è tuo.
– Lo porterò sempre con me, me lo metterò sul cuore. – Saltò  come trasognato sul predellino.
Il treno si mosse e cominciò a prendere velocità. Mario continuò a guardarla fino a quando non scomparve dalla sua vista.
Si mise il fazzoletto sul cuore; si sentiva raggiante: era passato dalla rassegnazione al desiderio di vivere.
Quel ritaglio di tela lo accompagnò per i lunghi anni della guerra, si sgualcì, si intrise di fango, ma rimase sempre lì e alla vigilia del Natale del 1918 ritornò alla sua padrona.

Renzo Montagnoli

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Un commento su “Il giorno dopo

  • Corrado S. Magro

    Uno sprazzo di luce capace di dare vita e speranza tra gli orrori che gli stolti impongono agli esseri su cui si arrogano il diritto di vita e di morte