Qui una volta si faceva la Lambretta.
Sì, proprio qui, tra questi capannoni. Io me la ricordo, ce l’aveva mio zio.
La domenica ci prendeva, me e mia sorella, piccoli, di sei sette anni, e ci metteva una davanti e l’altro dietro. Ci portava al parco.
Ce l’ho ancora qui, sulla mia faccia sporca, la carezza del vento di Milano.
Rivedo tutto, come in un sogno.
Sì, perchè è come se dormissi, su questo ferro, il cui grasso mi fa da guanciale.
Da qui vedo la fabbrica, i suoi tetti e comignoli, i mattoni grigio topo che le cingono i fianchi, e la bocca semichiusa nei cancelli. Un essere vivente, perchè dentro ci muoviamo noi, gli operai, la sua carne,
E mentre il mio sguardo scorre lungo il viale d’ingresso, distinguo la gente, le persone, piccoli pupazzetti che si muovono alla fine di questo abisso così vicino e così lontano.
Le auto della polizia e dei carabinieri, qui, sono grandi meno di una mano. Le posso toccare, ci posso giocare con queste mie macchinine, come un bambino.
Ma non ne ho la forza. La mia mano scivola su questo pezzo di acciaio al di qua delle nuvole. E penso che sta finendo tutto qui, ora; anche per me.
Sono l’ultimo. I miei colleghi sono stati più fortunati. Hanno sofferto di meno.
Ma cos’è successo, perdio ! Dove siamo finiti ? Che cosa siamo diventati ?
Nulla. Un giorno s’arriva al lavoro e qualcuno dice “la fabbrica chiude, la fabbrica è in vendita, la danno via un pezzo alla volta”.
Non so spiegare cosa ho provato. Perchè il lavoro è quando muovi le mani, quando rendi possibile qualcosa. C’è un senso di sacrificio e di dovere che ti fa alzare la mattina presto, ti fa camminare nella nebbia, insieme ad altri; il senso è questo, forse… non so.
Forse è solo che mi sono sempre accontentato.
Forse… Ma se un giorno poi ti dicono “tu le mani non le muovi più, tu non servi, nessuno qui serve più”.
Non è solo una questione economica. E’ che ti dicono non servi più, non vali, non sei più un uomo.
E ci riescono. Torni a casa e, da solo, non ti senti davvero più niente, guardi tua moglie, i tuoi figli e…
E non te ne senti degno.
Comincia una vita in bianco e nero, fatta di giorni vuoti, ti alzi la mattina e… non sai dove muovere le mani.
Io e tre dei miei colleghi ci siamo guardati in faccia. Abbiamo letto la stessa, identica fine ognuno negli occhi degli altri.
Prima in silenzio. Poi abbiamo cominciato a parlare.
Non ricordo chi ha avuto l’idea, ma è stato un attimo. E ci siamo ritrovati quassù.
All’inizio ho avuto paura, non riuscivo a guardare giù, io lavoro in catena di montaggio, mica su questi affari giganteschi. Il ponte a volte dondolava, ma alla fine mi ci sono abituato.
Ecco come ho segnato il mio destino, così. Salendo in cima ad una gru.
E quando finalmente qualcuno ci ha visto e ci ha telefonato per chiederci che cazzo fate là sopra, noi abbiamo detto restiamo qui.
O ci ridate la fabbrica, ci fate muovere le mani… o non scendiamo più.
Pazzi.
Prima la polizia, poi la tv. Gli altri colleghi, le mogli, i bambini.
Sono venuti tutti.
Telefonate continue sui cellulari.
Mia moglie, mia moglie che non riesce a parlare, sa solo dirmi stai attento, e chiedere stai bene ?
Stai attento.
Stai bene ?
Stai attento.
Stai bene ?
Noi di qui non ci muoviamo. Vogliamo una trattativa seria.
E ci dicono, ora arriva il sindacato.
Il sindacato ?
Quale sindacato ?
Vi riferite forse a quegli esseri immondi senza spina dorsale, venduti, spariti, senza idee nè ideali ?
Certo… La ciggielle. Se la signora ciggielle e tutti quegli altri esistessero davvero e facessero il loro dovere…
Io non sarei certo qui, con la testa appiccicata al cielo.
Il sole, sopra la gru, ha cominciato a picchiarci in testa per ore ed ore. Ci mandavano su da bere e da mangiare, ma stare qui è una tortura.
L’acciaio, l’acciaio si fa incandescente, non ci si può sedere, fermare, dormire. Anche la piccola cabina di comando del mezzo diventa un forno.
La notte. Dopo un primo senso di sollievo, comincia il fresco, poi il freddo, e la tuta, sporca e ancora bagnata del sudore buttato durante il giorno, non serve a nulla.
Ma noi vogliamo lavorare, non è giusto, non è giusto essere costretti a far questo.
Pensavamo di farcela. Le cose sembravano aggiustarsi, c’erano margini di dialogo, possibili acquirenti… speranze.
Poi però qualcosa è cambiato. Attenzione, ha detto qualcuno, se questi ce la fanno si crea un precedente, un pericoloso precedente.
E sono corsi ai ripari.
Più nessuna trattativa, anche il sindacato ostile, le forze dell’ordine ci hanno ordinato di scendere.
No.
Ed è cominciata la guerra.
Ecco, ho segnato qui col cacciavite. Una tacca per ogni giorno.
Diciotto. Siamo qui da diciotto giorni.
Hanno cominciato a impedirci i contatti con i parenti e gli amici. Li vedevamo, sì, schierati, laggiù, sentivamo anche qualche grido di incoraggiamento. Ma ci hanno staccato la corrente, non potevamo più caricare i cellulari, quindi niente telefonate.
Lo fanno solo per pressarci psicologicamente, ci siamo detti. Resistiamo.
Dopo qualche giorno…
Dopo qualche giorno hanno mandato su solo una bottiglia d’acqua. Una bottiglia. Per quattro persone.
E quando hanno visto che anche questo non serviva…
Non hanno mandato su più nulla.
Una notte abbiamo chiamato il collega che dormiva nella cabina di comando della gru. Era finito il suo turno di dormire lì dentro, toccava a un altro di noi, adesso, approfittare di quella poltroncina.
Lo abbiamo chiamato con la voce rauca e la bocca impastata.
Poi abbiamo capito. Ma non avevamo lacrime per piangere.
Siamo rimasti giorni, senza mangiare e senza bere, abbandonati esausti in questo caldo infernale. Nessuno si è più mosso, non avevamo più forze.
Le nostre famiglie ci vedranno scendere da qui all’interno di un sacco.
Laggiù già lo sanno che siamo morti.
Le istituzioni, quelli che ci dovevano appoggiare, aiutare, difendere, ci hanno abbandonati quassù e lo hanno fatto deliberatamente.
Mi danno fastidio le mosche.
Arrivano qui, non so come diavolo fanno, attirate dai cadaveri dei miei colleghi, e non risparmiano neanche me.
Non mi dispiace morire nel grasso, io nel grasso ci ho passato la vita e ne sono orgoglioso.
Mi dispiace invece morire quassù. Perchè il cielo è così vicino, ma non riesco a toccarlo.
Se ne sta, come sempre, tranquillo e ben lontano dalle nostre miserie.
L’ho visto galleggiare per l’ultima volta
a un centimetro appena dal gancio d’acciaio di questa gru
Thomas Pistoia