Restava quasi immobile vicina ad un tronco avviluppato dall’edera, nei pressi di una fonte che sotto i raggi del sole primaverile colorava gli zampilli con i riflessi cangianti dell’iride prima di sparire tra i sassi calcarei di un piccolo alveo, quasi un bisbiglio misto al gorgoglio che ricordava la risata chiacchierina e intermittente di un bimbo che non ha ancora acquistato l’uso della parola.
Rivestita di veli bianchi adornati di sfumature diafane e disegni che dal nero fluivano nel grigio, restava quasi celata, discreta tra il verde di piante ed arbusti. Verdi che penetravano, invadevano cespugli di fiori esotici, di ciclamini, zafferani e viole che arricchivano il giardino.
Sorpreso d’incontrarla in quei luoghi, conscio della sua timidezza mi fermai a contemplarla con il cuore in gola ed il fiato sospeso.
Temevo che scorgendomi potesse perdere quel sorriso che sgorgava dalla consapevolezza di essere bella e avrebbe nascosto le armoniose nudità che i raggi solari lambivano e scaldavano. Ma non potevo restare nell’ombra, rischiare di lasciarmela sfuggire, di andare a nascondersi tra anfratti reconditi, sconosciuti, inaccessibili oppure, poiché la vedevo melanconica un poco in disparte, come fosse sola, dimenticata, avrebbe prestato orecchio all’invito di un altro viandante capitato nei dintorni e attratto dal suo mitologico fascino.
Titubante mi avvicinai. Bisognava osare.
Incuriosita dal fremere dei cespugli al mio passaggio, il suo sguardo fuggitivo mi scorse. Non avevo letto timori o ansie nelle sue sembianze e avanzai fin quasi a sfiorarla. Felci, capelveneri e fiori ridondanti di colori si dondolavano al soffio flebile della brezza, la cullavano.
Era ricca di una bellezza nobile, delicata e rispose con un sorriso incantevole al mio. Dolcemente, frenando l’impeto di una fiamma sensuale, le rivolsi il saluto e la parola. Lei tenue sì accomodò sul lato, prestandomi attenzione senza sentirsi scossa, invasa e dopo un poco vedendola tranquilla e fiduciosa le tesi la mano.
Titubò. Poi lentamente si accostò sfiorandola e posandovi sopra la sua.
Le dissi grazie chinandomi e strappandole un altro sorriso:
– Vuoi venire con me? – le chiesi anzi le sussurrai.
Mi guardò un po’ sorpresa. Per un attimo il timore di un rifiuto mi offuscò. Non ero un principe, né un fauno, né il dio Pane con una reggia ricca di piante e di fiori. Le avrei potuto offrire solo un posto esclusivo pieno di luce e di calore nel mio modesto alveo terrestre e nel mio cuore.
Non mi deluse, anche se il suo fu un sì appena accennato. Mi pregò però di prendermi cura di lei e di non esporla a strapazzi ai quali non era mai stata confrontata. I fondali marini che per secoli l’avevano custodita assieme alle altre Nereidi, non erano scossi dalle onde sollevate da Eolo e gli esseri che li popolavano non guizzavano ma passavano accanto quasi danzando, sfiorandola, accarezzandola, mentre il dio degli abissi mitigava la sua immensa potenza, trasformava il suo aspetto di signore assoluto in quello di una gigantesca belva ammansita, docile, soggiogata, che la proteggeva e curava con dolcezza ed amore.
– Posso prenderti sotto braccio?
Annuì quasi arrossendo, lasciandosi cingere con delicata attenzione, mentre il mio viso, le mie labbra sfioravano le sue chiome.
Venne via con me, poggiata alla mia spalla e mi guardò ancora una volta amorevolmente facendomi comprendere di volermi stare vicina.
Ero abbagliato, confuso, felice. Mi sembrava un sogno. Il mio cuore palpitava ripieno di lei, delle sue sembianze, della sua bellezza. Lei lo sentiva, lo gradiva e mi sfiorava delicatamente il viso facendomi sognare, accrescendo in me desiderio, passione, amore sensuale.
Orgoglioso di poterla sentire mia amica e compagna, la condussi nel mio piccolo reame regalandole il posto migliore dove si sarebbe potuta sentire a proprio agio, ornandolo di fiori ricchi di colori e tra i quali lei era felice potere sostare.
Mi fu grata e mi diede tutto di lei. Quando veniva a sfiorarmi il viso, le regalavo una carezza, uno sguardo, un sorriso e lei fremeva di affetto, si apriva al mondo che osservava dietro le ampie vetrate piene di luce o volteggiando sul terrazzo illuminato e riscaldato dal sole, felice di essere amata.
Un giorno mi pregò di allontanare arbusti e foglie asciutti, accartocciati dall’angolo che lei preferiva. Lo feci con cura ed attenzione mentre lei mi accarezzava il capo. Poi mi venne davanti lieta di poter manifestare la sua gratitudine guardandomi profondamente negli occhi e iniziando una danza che la vedeva fluire con grazia quasi seguendo la traccia di una sinusoidale eterea, fermarsi per un attimo a mezz’aria, scivolare tra i fiori, toccarli per un attimo, girarmi attorno sfiorandomi. Il bianco e nero delle stoffe che la coprivano con tutte le loro sfumature la avvolgevano per poi aprirsi, allargarsi denudandola al che lei sembrava fuggire, andare a rifugiarsi altrove facendo battere di ansia il mio cuore, per poi ritornare, sfiorarmi nuovamente il viso, scivolare sulla mia spalla, accarezzarmi i capelli.
Quando scelse di posarsi sui petali carnosi di una rosa vellutata, mi avvicinai e le chiesi:
– Galatea, perché hai abbandonato la tua reggia nel fondo degli abissi dove vivevi sicura e protetta?
– Volevo scoprire il mondo e provare le sensazioni che lo pervadono.
– E sei contenta? Sei riuscita a scoprirlo?
– Sì Aci, amore mio.
Furono le magiche parole che Galatea la mia ninfa pronunciò appoggiandosi al mio petto.
Con il nome della ninfa Galatea viene designata una farfalla: la “melanargia galatea” della quale il lettore può osservare le immagini in Internet.
Corrado S. Magro
Aci e Galatea, quasi miei concittadini della Sicilia orientale e del litorale catanese in particolare. Dovrei conoscerli bene, quei due, ma questa pagina ne offre una versione inconsueta e poetica, molto affascinante, che non conoscevo.
Complimenti, Corrado, e grazie per la bella lettura.