Ettore


di Mario Ughi

Se avesse voglia di guardare al passato, scoprirebbe che soltanto una cosa, nel corso degli anni, lo ha sempre sostenuto e guidato: la potenza evocativa del proprio nome. Tiene costantemente presente la figura dell’eroe sereno, impegnato nella difesa della città, pronto ad accettare una sfida che sa di non poter vincere, e che affronta la morte a viso scoperto, conoscendo in anticipo l’esito del duello: impossibile contrastare il mostruoso invulnerabile Achille. Questa immagine informa ogni suo respiro.
Certo: l’eroe sconfitto fallisce il tentativo di salvare i suoi affetti più cari, e neanche riesce a immaginare l’inganno che presto aprirà le porte al nemico: la sua stessa dignità gli impedisce di figurarsi un atto tanto meschino, e forse in cuor suo accoglie la morte con la dolce accettazione di chi sa che gli verrà risparmiata l’immensa amarezza finale. Ma questo ha poca importanza. Nell’atto di creare il proprio mito, non fugge il destino. Anzi, accettando di viverlo sino all’esito estremo, conferma e costruisce la propria immagine immortale.
Comunque Ettore non ha voglia di guardare al passato, o meglio, non ne ha bisogno. Ha la certezza di aver compiuto ogni singolo gesto nella più perfetta integrità. Non ha niente da rimproverarsi. Se altri sono rimasti delusi di lui, non è affar suo. Lo devono soltanto alla loro debolezza di carattere. Ettore non ha mai avuto inclinazione al compromesso; non negli affetti, nelle amicizie, e in generale nella vita tutta. Chi ha avuto la sventura di scontrarsi con lo scoglio che immobile affronta il mare in tempesta, ne ha ricavato soltanto lividi e sbucciature. Non che Ettore sia un violento: mai si è dato di vederlo alzare le mani. Tuttavia, la quasi crudele fermezza del suo modo di fare, di dire, ha colpito violentemente in faccia più di uno. Con maggiore violenza di un pugno. Anche se questo andava oltre il suo volere, e lui per primo avvertiva un silenzioso dolore alla vista degli occhi sgomenti di coloro che malvolentieri subivano il suo sguardo severo e le parole taglienti.
Ettore ha tenuto testa alla vita come l’eroe del mito ha affrontato Achille. Con lo stesso coraggio e il medesimo risultato. Soltanto, l’eroe del mito è riuscito a morire in modo repentino, un rapido dolore e poi il buio, mentre Ettore convive con una morte lenta, costretto a guardarla in faccia sin dalle prime luci dell’alba, quando si sveglia, fino a notte fonda, quando riesce a cadere in un sonno inquieto. Non una morte fisica, naturalmente, e neanche una malattia: è integro nel fisico quanto nell’anima.
Ettore muore ogni giorno, nella solitudine.
Può rimproverarsi, se i figli per primi, e poi la moglie, lo hanno abbandonato? Lo capisce: è difficile, forse impossibile, sedersi ogni giorno alla stessa tavola del cavaliere dalla scintillante armatura impegnato senza sosta a rimarcare ogni manchevolezza, anche il più piccolo cedimento, l’inezia di un rammarico. Correggere i propri errori e poi guardare avanti, senza mai crollare, è un’arte in cui pochi riescono a cimentarsi. Accettare le conseguenze dei gesti compiuti, delle parole dette, ai molti risulta difficile, se non impossibile.
Ma non a lui. Quando i suoi affetti più cari sono usciti dalle mura entro le quali si è sforzato di difenderli, non una sola incrinatura è affiorata nel suo sguardo. Il dolore, per quanto a volte insopportabile, per lui è la medicina alla vita. La capacità di sopportare i colpi, inestinguibile. Affronta ogni battaglia con la stessa stoica determinazione.
Poi, una volta che gli amici pian piano si sono allontanati, ha scoperto l’avversario più temibile.
La solitudine è un nemico invincibile, invulnerabile. Non si può cogliere di sorpresa, riesce a schivare ogni colpo, non dorme mai. Non lascia spazio o respiro, tranne nei brevi periodi di sonno, ma dall’umore col quale si sveglia, Ettore sospetta che venga a visitarlo anche nei sogni. Ma quelli per fortuna non li ricorda.
Soltanto negli ultimi tempi ha imparato il modo, se non di atterrare il possente guerriero, almeno di tenerlo a distanza, per guadagnare un po’ di respiro.
Scavando dentro di sé, ha trovato le parole gentili e i gesti affettuosi da sempre evitati, le carezze negate alla moglie, ai figli; i sorrisi agli amici.
Gesti e parole che aveva dentro di sé, nascosti, e che oggi gli arrivano come da lontano un vento fresco ad asciugare il sudore dell’interminabile battaglia.
Parole che sussurra al vento perché possa portarle lontano, a raggiungere orecchie che mai le hanno sentite.
Gesti disegnati nell’aria, come carezze involontarie, delineano il contorno di volti che non ci sono più.
Ettore è rimasto sorpreso, nello scoprire dentro di sé un mare sotterraneo fatto di dolcezza, un sorriso senza altro scopo se non di sorridere.
Ma anche questo, come ogni altra cosa nella vita, non è per lui fonte di rammarico. Non si ferma a valutare l’ipotesi che a tirar fuori per tempo questo suo aspetto sconosciuto, molte cose avrebbero potuto andare diversamente. E ancora oggi, soltanto a volerlo, un fiume di lacrime potrebbe asciugarsi. Questo pensiero non lo sfiora mai, neanche quando per strada lascia cadere una parola affettuosa, silenziosa al mondo, o delinea con la punta delle dita il contorno di un volto perduto. Non quando sorride, al ricordo.
E’ una debolezza che non può permettersi, se vuole trovarsi in piedi all’inizio della prossima battaglia.

Tratto da: Livorno – Cronache immaginarie
Mario Ughi

 

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