Cammino immerso nel chiarore freddo della luna piena con a lato la mia ombra, deformata, compressa. Striscia, quell’ombra, e si contorce a ogni asperità del terreno, a ogni buca, quasi rappresentando il dolore per l’intima morte che mi gela l’anima. Però, a volte, s’arrampica sul muretto che costeggia l’argine del fiume, si allunga, diventa filiforme e sbarazzina, quasi possedesse vita autonoma e una sua personalità assai più libera e gioiosa del mio corpo appesantito dalla depressione.
Quando il sentiero curva, l’ombra si nasconde e gioca dietro di me. So che c’è, la sento, mi tiene compagnia anche se nascosta, pronta a riapparire all’altra curva, in un gioco infantile, di semplici inganni.
A destra le siepi basse lasciano intravedere l’acqua sonnolente, nera con striature d’argento: è leggermente increspata vicino agli argini dove piccole onde si frangono sui canneti ma al centro è liscia, come asfalto bagnato.
Anche la strada è nera, con riflessi d’argento, e in questa luce preziosa ma senza colori, appare lunghissima, si perde in lontananza come un nastro translucido sospeso nelle tenebre.
Non troppo lontano due figure interrompono la solitudine del luogo. Sono due uomini: li vedo di spalle. Uno di loro è alto, con un lungo impermeabile scuro, lucido e un cappello a larghe tese. La sua sagoma nera quasi si confonde con la strada: anch’essa riflette strani barbagli d’argento. L’altro è grasso e basso, ha una giacca chiara. La luce della luna imbianca il suo cranio calvo.
Vedo il Corto parlare e gesticolare indicando il fiume, gli alberi, la strada, il cielo punteggiato di stelle. Non distinguo le parole ma la sua voce è dolce, ben modulata, sembra cantare e rotolare in mulinelli come l’acqua degli argini. Il Lungo, invece, emette un gorgoglio monotono, sonnolento, quasi ipnotico.
Le loro voci mi giungono attutite: non spezzano il silenzio ma lo completano, quasi rumori d’aria e d’acqua, stormire di foglie e canne a un refolo di vento.
Mi avvicino. Il Lungo si avvolge sempre più nel suo impermeabile lucido: adesso appare più alto e dinoccolato. La sua figura spettrale oscilla come un pioppo al vento, impossibile e vera nello stesso tempo. Annuisce al compagno e il largo cappello amplifica i movimenti mentre le loro figure sembrano fondersi in un’unica sagoma informe, ondeggiante sul nastro più chiaro della strada; una sagoma che oscilla, s’incurva, e infine si poggia nella panca di un piccolo spiazzo del lungofiume, immersa nell’oscurità.
Siedo anch’io a una estremità della panca perché non voglio trascinarmi ancora la mia ombra sofferente. Quei due ora tacciono, la mia presenza li ha chiusi nel loro mondo: sento il piccolo spazio tra noi diventare immenso e mi chiedo se sono davvero vivi, reali o se sono stati costruiti dalla mia fantasia eccitata. Mi chiedo se posso toccarli. Forse non è impossibile. Ma la Luna sta scomparendo dietro una nuvola solitaria e, con l’oscurità più fitta, il muro d’aria che ci separa diventa un ostacolo reale, quasi palpabile, un diaframma tra due mondi che si allontanano in un silenzio siderale.
Cosa succederà quando la Luna sarà completamente nascosta? Mi accorgerò che nessun altro, oltre me, è seduto in quella panchina? Potrò cercare ancora qualcosa nell’oscurità o tutto scomparirà, come in un sogno, senza traccia e senza tempo?
* * *
Estranea e lontana, una lama di luce filtra dalla porta di un bar, dietro la siepe.
Il Lungo allontana le falde del suo impermeabile e si scorge appena il bianco di una camicia. Si scuote dal suo torpore silenzioso, mi guarda puntandomi in viso due occhi nerissimi. Dice:
– Anche lei, eh?
– Io cosa?
– Immerso in questa sera strana.
– Oh, sì: è davvero una strana sera. Sarà il silenzio, sarà la luna…
– Forse..
Poi solleva il cappello con un gesto fluido, in una parodia di presentazione, mastica qualche parola incomprensibile, forse due nomi, con accento straniero. Con voce appena più chiara, dice:
– Qui è troppo umido. Il bar è ancora aperto. Venga.
Così mi ritrovo seduto a un piccolo tavolo immerso nel profumo di siepi d’alloro, abbastanza alte da schermare l’insegna al neon.
Chi sono costoro? mi chiedo quando vedo i loro occhi incrociarsi, ignorandomi per qualche secondo. La tenerezza dei loro sguardi sembra raccontare una storia, forse una storia importante tra loro, ma io ne resto escluso. E’ come udire una conversazione in una lingua sconosciuta: strani fonemi, qualche incerta espressione; la solitudine e il silenzio in una babele di rumori. E in questo momento so con certezza di essere un estraneo spettatore e non ho curiosità ma mi assale la tristezza di essere solo.
Come l’acqua del fiume, presenza liquida il cui fruscio s’avverte a stento oltre la siepe, io sono, o mi sento, una presenza effimera, malata, caduta per caso tra loro, destinata a scorrere e svanire nel mare in un delta lontano. Dimenticata.
Eccomi: una molecola di realtà tra due improbabili esseri senza nome, tra sguardi incomprensibili, chiuso alla loro storia e al mondo da siepi di alloro alte come case.
– Si starà chiedendo chi siamo e perché ci piace trascorrere la serata in questo umido lungofiume… – comincia così il Lungo con la sua voce cupa, monotona, dall’accento vagamente esotico.
Chissà perché quella voce richiama il rotolio di sassi smussati nell’acqua, trascinati dalla corrente, attutito dall’erba degli argini. La frase è monca, inutile, aspetta di essere completata, ma si blocca.
Forse vorrebbe stimolare un discorso, aprire un varco, preludere a una storia. Oppure è solo una frase di circostanza, una frase falsa, che concede poco: uno schermo su cui rimbalza il mio gesto cortese, la mia futile risposta e poi il mio silenzio camuffato in un sorriso, anch’esso falso.
* * *
Sul tavolo striscia un fascio di rose. Nell’oscurità quelle rose appaiono nere, quasi lucide.
Le tiene in mano un bambino e le agita goffamente facendo tintinnare, sul tavolo, i cucchiaini dentro le tazzine di caffè, ormai vuote.
Quel bambino è sbucato dal buio passando dalla siepe. Una nuova presenza, improbabile e goffa: l’emblema di un mondo che certo esiste oltre i rami d’alloro, oltre la strada e il fiume.
Si è materializzato con una maglietta a strisce bianche e nere e un paio di pantaloncini corti, di un grigio metallico e, dopo averci guardato senza speranza, riprende il mazzo e si allontana strascicando i piedi e facendo oscillare fino a terra, come una scopa, le rose tenute per i gambi.
Ma il Lungo si fruga in tasca cercando una moneta e il gesto non sfugge al bambino che si avvicina di nuovo, alzando di malavoglia il mazzo, sfilandone una rosa.
Adesso c’è una rosa sul tavolo e i piccoli denti del bambino luccicano al chiarore lunare mentre il Lungo gli parla piano, avvicinando una sedia al nostro tavolo. Lo fa sedere, poi chiama il cameriere e bisbiglia un’ordinazione.
– Un paio di paste e una cioccolata calda non lo faranno certamente più felice – mi sussurra il Lungo in un orecchio – ma almeno lo scalderanno un po’. Queste notti limpide sono ancora troppo fredde.
Il Corto è rimasto in silenzio. Solo il suo sorriso diviene pian piano più accentuato mentre fissa immobile il piccolo zingaro.
– Altre rose, signore? – Il bambino sfila speranzoso altri due fiori dal mazzo.
Ora sul tavolo ci sono tre rose. Il Corto le unisce in un piccolo mazzo e lo poggia su un lato del tavolo.
– Non c’è signora? – chiede ancora il bambino.
– Hai ragione – risponde il Corto – manca proprio una donna cui offrire le tue belle rose nere.
– Nere? No nere, signore. Rosse. Sono rose rosse, signore!
– Rosse. Oh sì, è vero: il buio ha tolto i colori. Anche la tua maglietta sarà a strisce rosse…
In effetti in quell’oscurità resta vivido solo il bianco della tovaglia e quello dei denti del bambino che, dopo avere addentato una pasta, ci guarda, si blocca, resta impacciato. Questo strano terzetto lo diverte.
Mi accorgo che gonfia le gote e stringe il labbro inferiore con i piccoli incisivi sporgenti, sforzandosi di non ridere.
Ci guarda perplesso con un moto circolare del capo mentre le sue gote appaiono sempre più tese. D’un tratto il riso compresso esplode, cristallino, violento, insieme a spruzzi di cioccolata.
Piccole macchie scure si disegnano sulla tovaglia, qualcuna si indovina sull’impermeabile del Lungo e sulla giacca del Corto. Anch’io mi scopro a cercare tracce di cioccolata sulla camicia.
* * *
Quel riso fa scattare qualcosa dentro di me e ricado sul mondo.
Forse perché è un riso umano, comprensibile, vero. E’ riuscito a squarciare gran parte dell’oscurità che mi avvolgeva, strappando quel manto scuro e silenzioso che prima gravava sui miei pensieri.
Ricado sul mondo e il mondo mi accoglie e si colora. Sono colori tenui, soffusi, ingentiliti dal chiarore lunare, ma non per questo meno reali. Diviene reale il fiume, si delineano le fisionomie incerte, anche il mio respiro diviene più ampio, assorbe l’aria della sera, l’umidità è un balsamo odoroso.
Ora lo sguardo dei due amici oscilla tra il bambino a me. Ridono entrambi ripulendosi i vestiti con un tovagliolo ma il loro sguardo è sereno, intriso di quella complicità infantile possibile tra due esseri uniti da un sentimento forte.
I loro occhi, prima esitanti, ora raccontano tutta la loro storia senza riserve, anzi raccontano tante storie, mille vite, milioni di possibilità e di avvenimenti a ogni battito di ciglia. E io, inaspettatamente, assorbo quegli sguardi, capisco tutto. Entro in quelle storie, in quelle vere e in quelle solo probabili. Entro in quegli esseri e riesco a immaginare, quasi a comprendere, le intime emozioni che li agitano. Le storie, i sogni, le emozioni che li legano diventano miei, anche se solo immaginati.
Ad un tratto voglio associarmi senza riserve al riso del bambino e a quello dei miei ospiti perché non sono più un estraneo e ho anch’io da raccontare una storia, la mia storia. Perché ora so, finalmente, che il corpo non è una prigione che incatena un’anima depressa. Ne posso uscire con un riso. E, con un riso, dare accesso.
E’ forse questa la libertà? E’ questa la vita?
Guardo le mie mani e le sento calde, vive. Le lascio scorrere sul viso e sento, nelle tempie, pulsare il sangue. Quasi lo visualizzo mentre irrora, con nuova vitalità, muscoli e cervello e contemporaneamente sento una nuova forza che si espande fuori di me. Verso esseri che credevo estranei, verso cose che credevo inerti: il tavolo, le sedie, l’insegna del bar, la siepe d’alloro, l’invisibile fiume.
Tutto in un intreccio di storie e sogni, di suoni e silenzi, in una melodia non di note ma di luci e ombre lunari, non sorprese e spente dalla realtà ingannevole del Sole.
Enzo Maria Lombardo