«Pà, avete visto all’orizzonte?»
«Sì. Va a dire a tuo fratello che stanotte gli animali restano nelle stalle.»
Sulla cima dell’Etna, ultimo orizzonte visibile nel quasi crepuscolo, a qualche decina di chilometri dalle ultime colline che dall’Appennino Ibleo scendevano sui versanti marini dove l’Ionio si confondeva con il Mediterraneo, i cirri crescevano. Spuntavano dietro la cresta del cratere principale e si accumulavano maestosi.
Titani impegnati a dar seguito alle loro querele scambiandosi sferzate saettanti, zig-zag istantanei, colpi sfavillanti sul gigantesco biancore delle forme membrute dove affondavano, ed ai quali alcuni secondi dopo seguiva lontano il brontolare profondo e cupo del loro lamento: il tuono. L’orizzonte sul levante si copriva di un grigio fosco che si tingeva sempre più in nero. A volte il chiarore dello strascico luminoso di un altro fulmine lo percorreva in lunghezza ma restava muto, distante, forse ancora arroccato sull’Olimpo ateniese e assorbito nel suo propagarsi dalla superficie marina che, percorsa da un tremolo presto sostituito dai marosi, si svegliava.
Ad occidente il sole inviava i suoi ultimi raggi e benché ancora giorno, nel contrasto di luci e ombre, era già visibile a distanza la lanterna del faro di Capo Passero che si prodigava ad avvertire che la notte sarebbe stata tutt’altro che tranquilla. Meglio lasciare il natante agli ormeggi. Si sarebbe evitata un’altra vedova con figli orfani.
La giornata era stata soffocante.
Paolo andato alla fontana della vallata ad accompagnare il branco all’abbeverata non si era reso conto della situazione e quando Janu gridando gli comunicò la decisione del padre, aveva reagito in malo modo imprecando. Gli toccava avviare le bestie verso un altro cammino e non sarebbe stato semplice. Si ripromise di disapprovare, e lo fece quando finalmente dopo vociare e bastonate, gli animali ripresero il cammino delle stalle, scornandosi, muggendo e sollevando con gli zoccoli un polverone asfissiante dalla strada costruita su un fondo di pietre e calcinacci, che attraversava la tenuta.
«Che diavolo vi prende?»
«Stanotte avremo tempesta.»
«Ma non fa freddo, e fuori nel pendio sono protetti anche dal vento.»
«La tempesta sarà violenta per gli uomini e non risparmierà le bestie. Anche loro sono di carne ed ossa.» aveva risposto il padre senza altri commenti. Aveva già detto più del necessario.
Janu era il più giovane e gli toccava obbedire anche se gli ordini erano palesemente in contrasto o si accavallano. Eseguendone alcuni era costretto a lasciare inevasi gli altri e così accettare le eventuali rimostranze. Ma ora aveva parlato il padre e una sua parola bastava.
Già a cena mentre si consumava la minestra fumante di lenticchie cotte con scorza di formaggio stagionato, un folletto aveva spazzato via resti di paglia e fieno sparsi sul suolo di un cortile scosceso, più adatto alle capre che alle persone. Il cielo si era fatto tetro e il turbine del folletto si trasformò presto in uragano. La porta di un fienile rimasta semiaperta sbatteva senza pausa. Janu si alzò per andarla a chiudere, tanto ben presto glielo avrebbero ordinato. Una violenta raffica di vento nel bel mezzo del cortile, tra le mura che lo circondavano, lo investì facendolo traballare. Dovette avanzare piegato per non farsi travolgere e alcuni secondi dopo i primi goccioloni misti a chicchi di grandine quasi come noci, si abbattevano al suolo e sulle tegole con il fragore di una sassaiola. Quelle poche decine di metri che nel buio intenso rischiarato dai guizzi lo separavano dal vano dove sedevano al desco, bastarono a inzupparlo. Fradicio si scosse con la mano l’acqua che sgocciolava dai capelli. Prese posto e continuò senza commenti a scodellare la minestra rimasta ad aspettare.
Erano tutti muti.
Ora il vento ululava e i fulmini si susseguivano ininterrottamente accompagnati da rombi, scoppi e crepitii che sembravano voler distruggere, divellere alberi e case. Era tutto un chiarore come un sole che si oscurava per pochi secondi per brillare poi più intensamente. Per fortuna la nube di grandine spinta via dalle correnti d’aria, era stata di breve durata.
«Nottata da cani.» disse la madre tra un frastuono e l’altro, quando la voce non veniva sommersa.
La fiammella del lume a petrolio che si sforzava d’illuminare il vano, danzava, si allungava nel tubo di vetro che la proteggeva, quasi a dileguarsi, render l’anima, sotto la spinta di un soffio che attraverso le fessure di porte e finestre sgangherate la metteva alla prova.
«Speriamo che non faccia troppi danni.» aggiunse il padre.
L’altro figlio, Turi, era andato in città in vespa con la moglie.
«Non credo che Turi tornerà stasera. Forse si è reso conto della tempesta.» osservò la madre
«Domani dobbiamo alzarci più presto se siamo solo noi due.» esordì Paolo con stizza guardando Janu.
« Perché? Gli animali sono dentro, non dobbiamo andare a cercarli nei prati.» aggiunse Janu che faceva già fatica a lasciare il giaciglio da poco passate le due dopo la mezzanotte.
«Vorresti mungere con le stalle piene del letame della notte? O cosa? Vuoi che faccia tutto io?»
Paolo non faceva sconti e spesso provava piacere ad un poco di sadismo, ma sia detto, non si tirava mai indietro e perfezionista e puntuale, era impensabile che “Jadduzzu”, come soprannominavano il lattaio, si presentasse con la moto nel cortile prima che avessero finito di mungere a mano.
Janu non aveva aperto bocca, anzi abbassò il capo, fissando il piatto ormai vuoto.
«Mi sembra che non si è mai tirato indietro.» intervenne la madre.
«Ci mancherebbe. Il bel tempo è finito da un pezzo.» aggiunse Paolo alludendo al periodo che Janu aveva passato in collegio.
A tavola ci stava anche una delle sorelle che non aveva detto una sola parola tutta la serata, turbata dalla violenza della tempesta. Con voce grave, rivolto ai commensali, il padre disse:
«A me sembra che fa tanto quanto voi e forse più di voi.»
Il discorso era chiuso e non lasciava spazio a repliche, ma per Janu la speranza di un quarto d’ora in più di quel sonno che dolce come il miele ti accarezza e bacia, era svanita. Finito d’ingoiare un boccone di pane con un’oliva in salamoia andò ad infilarsi tra le lenzuola un poco ruvide, di puro lino filato in casa e tessute al telaio ultracentenario della zia Agata che faceva guizzare le spole al ritmo sincronizzato delle calcole con il loro trac-trac per aprire e serrare l’ordito. L’ululato del vento e il rumore della tempesta, assieme alla fatica spossante di una giornata intensa, ebbero come sempre l’effetto di un sonnifero.
Doveva essere passata da poco la mezzanotte, perché il gallo aveva cantato tre volte e allora, vivendo tutto l’anno secondo il ciclo solare, con il canto del gallo anche senza svegliarsi il subcosciente registrava l’ora. Non c’era bisogno di accendere un fiammifero per guardare le lancette della vecchia sveglia che batteva i secondi con lo stesso rumore degli zoccoli di un cavallo che attraversava un guado al trotto. Quante volte Janu avrebbe voluto buttare via quell’aggeggio dalla finestra.
La tempesta non si era calmata e i cani tra una pausa e l’altra dei fulmini, partivano latrando intensamente. Ritornavano a rifugiarsi nelle stalle per riprendere di nuovo a latrare e a correre verso la strada.
«Che diavolo hanno stanotte i cani.» biascicò Janu strappato dal sonno.
«Forse un cane estraneo. Ma per me possono anche squartarsi. Non mi alzo per andare a vedere.» aveva detto Paolo anche lui svegliato dal baccano e dall’abbaiare che non cessava.
Janu provò a girarsi su un lato e a tirarsi le lenzuola sulla testa. Inutile. I latrati infuriati, il rombo dei tuoni e della tempesta non gli facevano riprendere sonno e fra non molto avrebbe dovuto alzarsi. Irritato, con i nervi a fior di pelle, infilò pantaloni e scarponi, si coprì alla meno peggio con la giacca e proteggendosi sotto il grande paracqua di cerata con le aste di bambù, venne fuori per andare a vedere. La pioggia scendeva a catini. I cani che rientravano scuotendo il vello irsuto e bagnato, scorgendolo ripresero slancio e tornarono alla carica mentre lui armato di un robusto bastone di oleastro si avviava verso la strada dove si concentravano i latrati.
Rannicchiato contro il muro del prato antistante ai pilastri d’accesso della fattoria, fuso con il grigiore delle pietre rischiarate dai fulmini, si scorgeva per il colore chiaro delle canne della cesta anteriore che pendeva dalla spalla mentre l’altra poggiava al muro. Alzava il bastone minaccioso contro i cani che ringhiavano, provavano ad avvicinarsi ma levavano il campo al prossimo schianto.
Mugugnava, imprecava disperato, sembrava singhiozzare, ritornava a bestemmiare.
Era “u zu Turi l’uvaru”.
Lo chiamavano “zu Turi” che in siciliano vorrebbe dire zio ma serve anche ad indicare una persona anziana, di umile stato, rispettata da un lato come un vecchio zio e nello stesso tempo vivente in un semi-anonimato sociale. Calzava scarpe sempre affamate che sembravano volerti azzannare quando il piede le premeva contro il suolo. Piccolo, un po’ curvo, non per la gobba ma per il peso delle ceste, arrancava a piedi arrivando a percorrere in un giorno decine di chilometri che salendo dalla città lo facevano arrivare alle fattorie delle colline. Partiva da Noto appena passata la mezzanotte e ritornava il giorno dopo, le ceste a spalla, piene di uova impagliate, comprate alle massaie. Estate ed inverno, con freddo sferzante o con caldo cuocente, si proteggeva la testa con un sudicio “Tascu” assicurato da un fazzolettone da donna che l’avvolgeva, legato sotto il mento e che lasciava appena apparire una faccia annerita dal sole e dal raro uso che faceva di acqua e sapone. Spesso mentre avanzava con quel suo ritmo costante accompagnato dal tonfo del bastone di oleastro, dialogava con se stesso a voce alta, imprecando minaccioso come avesse avuto davanti chi gli faceva salire la bile.
Janu l’aveva visto passare il giorno prima quel vecchio. Saliva come sempre a piedi se non s’imbatteva in un camionista che andava a caricare blocchetti per la muratura nelle cave di pietra dove le seghe a diesel e le scariche di tritolo sventravano la natura. Ad un’età ormai vicina ai settanta, era la sola debolezza che si permetteva accettando di prendere posto in cabina. Aveva anche scoperto il ponte di diverse decine di metri, che sosteneva i tubi del nuovo acquedotto unendo le pendici dell’altopiano solcato da una vallata che richiedeva più di un’ora di cammino tra dirupi e cespugli per essere attraversata. E lui a cavallo del tubo, ignaro se fosse stato in grado di resistere al suo carico, si trascinava con le ceste vuote o piene fino alla parte opposta. Non soffriva le vertigini perché forse non scorgeva il salto che lo separava dal letto del ruscello che scorreva sotto nascosto da platani e noci. Anche non avendo mai varcato la porta di una scuola, sapeva fare di conto e non c’era da trarlo in inganno. Calcolava a modo suo e se qualcuno ci provava le cose si mettevano male. S’imbestialiva e bestemmiando sciorinava i termini di un linguaggio rude che forse, fin da piccino, lo aveva plasmato anche di carattere.
«Zu Turi, ma che diavolo fate?!»
Janu tranquillizzò i cani che pisciarono sui muri attorno prima di rientrare. Il grosso gli restò vicino e ogni tanto allungava il muso annusando il vecchio che al suono di una voce umana lanciò una ennesima bestemmia dando sfogo alla sua disperazione.
«Buttana ra miseria, unni sugnu?!» (… della miseria, dove mi trovo?)
«Che non mi riconoscete? Siete vicino Villa Vela. Sono Janu.»
«Ah Janu sei?! Credevo essere più lontano.»
Rassicurato, abbassò il bastone ed emise un breve singhiozzo rischiarato da un guizzo che riuscì a far intravedere la smorfia di smarrimento delle sue labbra. Janu si avvicinò riparandolo sotto il paracqua. I guizzi dei fulmini che cominciavano a diradarsi, schiarivano quella faccia scura su cui l’acqua che impregnava il copricapo scorreva a fontanelle. Inzuppato com’era emanava quasi lo stesso odore del vello bagnato dei cani. La tempesta lo aveva sorpreso forse dopo avere attraversato le valli. Aveva continuato perché a meno di trovare riparo in una grotta, lui non poteva fermarsi. Sapeva che era pericoloso restare sotto un albero. Ad un certo punto uno schianto più forte del solito lo aveva inchiodato. Stanco, sfinito, accecato dal bagliore e atterrito, non si era più reso conto dove fosse. Con le ceste alla spalla si era poggiato al muro per cercare di rianimarsi. Non poteva deporle per terra, quasi abbandonarle, respingerle. Esse facevano parte di sé e custodivano il frutto della sua fatica.
«zu Turi, venite dentro nel fienile. Dove volete andare ancora?!»
«No. Ora che so dove sono, continuo. Così arrivo presto e posso vendere le uova.»
«Ma siete stanco e piove.»
«Aiutami solo ad aggiustare meglio sulla spalla queste ceste.»
Janu chiuse il paracqua lasciando che la pioggia imbevesse anche lui. Per deporre con cura il carico per terra, dovette chiamare a raccolta tutte le sue forze. Il vecchio si scrollò, poggiò il bastone contro il muro, aggiustò alla meno peggio quella che era stata forse una giacca che ora colava acqua, si abbassò e aiutato da Janu riappese a bisaccia sulla spalla le sue ceste. Senza aggiungere altro, nella notte sotto la pioggia abbondante che i fulmini rischiaravano come fili d’argento che scendevano sulla terra, si riavviò al tonfo ritmico del bastone contro il suolo.
Corrado S. Magro
Riletto con piacere. Il tuo racconto è una macchina del tempo: mi ha riportato di peso nella mia terra, tra mestieri ormai dimenticati anche in Sicilia. Forse in me c’è ancora il barlume di un ricordo infantile di una figura enigmatica come Turi l’uvaru… passava a Riposto e scendeva a piedi dalle falde dell’Etma. Forse l’ho solo sognato. Bellissimi i paesaggi del tuo racconto, le espressioni intraducibili (o che – se tradotte – perdono molto della loro forza…).
Complimenti vivissimi e grazie della bella lettura.
Enzo M. Lombardo