Recensione: Daniele Mencarelli – Tutto chiede salvezza


Il romanzo di Daniele Mencarelli, “Tutto chiede salvezza”, è un potente racconto che esplora la malattia mentale e le difficoltà che essa comporta nella vita di una persona.
Un libro che mi ha profondamente colpito, poiché affronta in modo intenso il tema della malattia mentale e delle difficoltà che essa comporta per chi ne soffre e per chi gli è vicino. Il libro ha toccato corde molto profonde in me, in quanto ha messo in luce le problematiche che si incontrano nell’affrontare una situazione così complessa e di difficile gestione, richiedendo una grande capacità di accettazione e di comprensione.
La malattia mentale imprigiona la persona nella sua mente, rendendola incapace di comunicare e di interagire con gli altri in modo adeguato, questo può mettere a dura prova la pazienza e la comprensione della famiglia, che spesso e volentieri si sente abbandonata a gestire un problema così grande.
Daniele, il protagonista, si ritrova improvvisamente in un ospedale psichiatrico senza alcuna memoria di come abbia fatto a finire lì, nei i sette giorni di trattamento obbligatorio, Daniele inizia a ricostruire la sua storia e a confrontarsi con la sua condizione mentale.
Il romanzo offre un’analisi attenta e approfondita delle esperienze dei pazienti dell’ospedale psichiatrico, mostrando la complessità della malattia mentale e le difficoltà di chi ne soffre. I personaggi che Daniele incontra durante la sua permanenza nell’ospedale – come Gianluca, Giorgio, Madonnina, Alessandro, Mario e Nina – sono tutti affetti da diverse forme di disturbi psichiatrici, ma condividono con Daniele una forte umanità e una vulnerabilità profonda.
Mencarelli racconta in prima persona di sé ventenne, sicuramente il suo vissuto porta a una narrazione attenta e sensibile, mostrando come la malattia mentale sia spesso trattata come un’aberrazione dalla società, ma che in realtà essa porta le persone che ne soffrono a vivere le proprie emozioni in maniera molto più intensa e reale rispetto agli altri. In questo senso, “Tutto chiede salvezza” è un invito a comprendere e rispettare le persone che lottano con la malattia mentale, a riconoscere la loro umanità ma soprattutto la loro dignità.
Il romanzo di Mencarelli è anche una storia di speranza e di rinascita: Daniele, attraverso il confronto con gli altri pazienti, impara a conoscere e accettare la propria condizione mentale e a trovare la forza di ricominciare una nuova vita. La sua esperienza rappresenta una testimonianza di come, con il giusto supporto e l’amore degli altri, sia possibile superare le difficoltà e trovare la propria strada.
Il disturbo psichiatrico colpisce molte persone e le loro famiglie, ma spesso è difficile riconoscere e accettare il problema. La malattia mentale può portare a comportamenti imprevedibili e violenti, isolamento e solitudine, stigma e pregiudizio nella società, per questo è fondamentale non vergognarsi di vivere questo problema, di cercare aiuto, comprendere la malattia e affrontarla con tutta la forza che essa richiede.
“Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli è un romanzo profondo e commovente che affronta temi importanti e difficili, l’autore ci invita a comprendere e rispettare le persone che soffrono di disturbi psichiatrici, mostrando come la speranza e la rinascita siano sempre possibili, anche nelle situazioni più difficili.

Titolo: Tutto chiede salvezza
Autore: Daniele Mencarelli
Prezzo copertina:
Editore: Mondadori
Collana: Scrittori italiani e stranieri
Data di Pubblicazione: 28 settembre 2022
EAN: 9788804765769
ISBN: 8804765763
Pagine: 204

Citazioni tratte da: Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli

Ho sempre pensato che mia madre abbia qualche potere soprannaturale, con noi figli specialmente, un dono le fa capire prima e meglio, oltre ogni parola possibile, ogni menzogna costruita ad arte.

«Ma io non so’ infelice, non se tratta de felicità, me sembra d’esse l’unico a rendese conto che semo tutti equilibristi, che da un momento a un altro uno smette de respira’ e l’infilano dentro ’na bara, come niente fosse, che er tempo me sembra come ’n insulto, a te, a papà, e me ce incazzo. Ma io in certi momenti potrei accende le lampadine co’ tutta la felicità che c’ho dentro, veramente, nessuno sa che significa la felicità come lo so io.»

Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?
O forse questa cosa che chiamo salvezza non è altro che uno dei tanti nomi della malattia, forse non esiste e il mio desiderio è solo un sintomo da curare. A terrorizzarmi non è l’idea di essere malato, a quello mi sto abituando, ma il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio.

… si aggredisce per primi per nascondere la paura di essere attaccati.

possibile che nessuno s’accorge che semo come ’na piuma? Basta ’no sputo de vento pe’ portacce via. Possibile cresce un figlio, levasse er pane de bocca pe’ fallo studia’ e ritrovasselo come un bambino de quattr’anni, perché? A che cazzo serve tutto?

«Che cura può esiste per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parla’ di senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Perché devo avere bisogno di un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo mori’.»
«La morte esiste, è un fatto, poi gli uomini e le varie civiltà hanno trovato codici diversi per spiegarla, e darle un significato che altrimenti non avrebbe.»

Quale malattia mi fa chiedere salvezza?
Quale educazione mi fa implorare pietà?
Fa che il mio sia solo uno scompenso della chimica, datemi tutta la chimica del mondo, ma chiudetemi gli occhi, il cuore, perché non ce la faccio più a soffrire così per quello che vedo, sento.

«Perché stregone?»
«Perché dalla punta dei piedi sino al collo la scienza qualcosa ha capito, ma di qui sopra» e si indica la testa, «ancora niente, stiamo ancora al tempo della stregoneria, sono mutati i riti, le formule magiche, le erbe sono diventate pasticche, ma la verità è che la medicina brancola nel buio, magari domani si svegliano e ci dicono che la malattia che ci avevano affibbiato non è così certa, che il meccanismo d’azione di questa o quella cosa non è come avevano sempre pensato.»

Vorrei avere una corazza, un’armatura del miglior ferro, capace di tenermi distante dalle cose, vorrei non disperarmi per la disperazione degli altri, non sentire la madre di Giorgio come mia madre, la vita degli altri saldata alla mia con un patto di sangue.
Perché il dolore costa fatica, ho vent’anni ma ho sofferto per mille, rimanendo sempre uguale a me stesso: un bambino, come Giorgio, di fronte a un dolore che non puoi conoscere né addomesticare. Ma i bambini non sono fatti per il dolore, nascono dalla gioia, per vivere in dolcezza gli amori che verranno.

«Magari lo spiego male, ma lì ho capito che la scrittura non è un gioco, ’na noia come me l’avevano sempre insegnata, ho capito a che serve veramente, e che è l’unico mezzo che può racconta’ quello che vedo, che m’esplode dentro.»

La nostalgia è un dolore fisico, colpisce in mezzo allo sterno, ai polmoni.

Il mio passato mi sfila davanti agli occhi come un’unica, enorme, occasione persa, sacrificata sull’altare del mio modo di essere, vedere.

Chi obbliga quelli come lui a esercitare la professione medica? Dov’è finita la sua vocazione? Quella che gli ha fatto scegliere il mestiere del medico. Possono una laurea, la sopravvivenza economica, lo status sociale giustificare una simile infelicità?
Perché l’infelice è lui, noi pazienti gli capitiamo sotto le mani al massimo per un’ora a seduta, ma è lui che deve stare con se stesso e la sua insoddisfazione giorno dopo giorno per tutta la vita.

Ho vissuto tanto, qualcosa l’ho capita, qualcun’altra no. Per esempio ho capito che l’intelligenza è sopravvalutata, come la stupidità sottovalutata, che bene e male esistono veramente, che l’uomo può perdere tempo prezioso in mille modi stupidi, il più stupido di tutti è giudicare gli altri, perché è troppo facile, perché non serve né a noi né agli altri.

L’idea di rimanere chiuso dentro me stesso è forse la peggiore visione che mi sia mai imposto. Impazzire in un corpo divenuto prigione, di quelle su misura per malati di mente, con le pareti imbottite, una camicia di forza invisibile. Assistere allo strazio di chi soffre per la tua condizione, senza poter fare nulla.

«Sono più di quarant’anni che frequento posti simili a questo, e noto come il concetto di disturbo mentale si stia diffondendo, oggi c’è una specie di rincorsa a battezzare per disturbo quello che fino a ieri era semplicemente una caratteristica della persona, se non addirittura una virtù. La scienza sta invadendo ambiti che non le appartenevano, oggi a un ragazzo che s’interroga sulla vita, sulla morte, su Dio, si risponde con la medicina, si parla immediatamente di depressione, sino a cinquanta, cento anni fa lo si mandava da un prete, o a farsi le ossa lontano da casa.»

«Non sto dicendo che non esista la malattia mentale, ci mancherebbe, ho conosciuto squilibrati da mettere i brividi, gente che godeva del dolore altrui. Ma oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché?»
(…)
«Perché un uomo che s’interroga sulla vita non è più un uomo produttivo, magari inizia a sospettare che l’ultimo paio di scarpe alla moda che tanto desidera non gli toglierà quel malessere, quell’insoddisfazione che lo scava da dentro. Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.»

«È vero, tu sei bipolare, io psicotico, dico solo che a essere sbagliato è il punto di partenza della scienza, è la stima iniziale rispetto a cosa sia l’uomo, l’universo, è lì la loro miopia. Tutto quello che l’uomo ha fatto di eccezionale in passato è stato anche grazie a quelle caratteristiche che oggi cataloghiamo come sintomi, patologie, come la capacità di farsi ossessionare da una determinata cosa, un progetto, un’idea, un’opera d’arte. Dico solo che loro non vogliono curare, ma depurare, purgare, invece dovrebbero saper dividere la follia buona, costruttiva, da quella cattiva, e distruttiva.»

L’ideologia, in sé, nel suo presumere la realtà come qualcosa di statico, nelle sue certezze incrollabili, è quanto di più lontano dalla mia natura. Lo dico a ragion veduta, dopo aver toccato con mano, e lo dice la mia storia, quello che ho fatto sin qui.

«Non farti sedurre dalla paura, pensa al fuoco, se lo guardi per troppo tempo, se ti avvicini troppo, alla fine ti brucia.»

Tutto mi chiede salvezza.
Per i vivi e i morti, salvezza.
Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina.
Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.

Katia Ciarrocchi
© Redazione Lib(e)roLibro

Nelle citazioni riportate, non ci sono i riferimenti alle pagine, perché ho ascoltato il libro su Audible.

Share This:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.