A cura di Augusto Benemeglio
1. La morte di Virgilio
No, amici lettori , non è il Salento che vide Publio Virgilio Marone tornando dalla Grecia in quel lontanissimo giorno di un settembre di fuoco, col sole a picco, senza ombre, fiumare asciutte, terra gialla di stoppie ,rintronata dal frinire ossessivo di cicale scoppiate ( “ogni notte scoppiano tra i rami cigolii sanguinari”); quello fu un Salento nero , pieno di occhi di luna e strisce di lutto , in cui il mantovano trovò la parola chiusa , che diventa morte, trovò la sua lenta fine (Hermann Broch , nel suo libro ,“Morte di Virgilio”, immagina una lunga agonia di diciotto giorni). Il grande poeta morì tra le antiche colonne del porto di Brindisi , il 21 settembre del 19 a.C, raccomandando ai suoi fidati amici e discepoli , Plozio Tucca e Vario Rufo , di distruggere il suo poema perché non aveva avuto il tempo di rileggerlo e limarlo a dovere. Se ciò fosse accaduto, probabilmente sarebbe cambiata tutta la storia dell’Occidente. Come avrebbe fatto Dante senza “L’Eneide”?, e la poesia di Baudelaire, a partire dalla Andromaca , che sembra tradotta da una lingua morta, inesistente, frammista di Virgilio e liturgia cristiana, come sarebbe stata ? Cosa avrebbero studiato le infinite generazioni di studenti romani e di tutti gli imperi ed esarcati dell’occidente , orfani del più grande poema della latinità?
2. Il prof. Virgilio
Il divino si riconosce dal portamento e lui fu sempre maestro in questo. Tutta la cultura ne sarebbe stata gravemente diminuita, parola del suo omonimo , prof. Virgilio, insegnante di letteratura italiana al liceo Scientifico di Galatina, uno che il latino lo conosce bene , e nel Salento ci è nato circa duemila anni dopo quello storico e triste evento , e continua a viverci senza rimpianti o desideri di fuga, pur facendo costante esercizio di una lunga pazienza ( è per impazienza che abbiamo perduto il paradiso, disse una volta Kafka), con momenti insonni, di palpebre non chiuse, e di indignazione per il degrado, l’indifferenza, l’incuria in cui vengono lasciate le cose
sotto questo cielo ancora intatto ( teatri, tumuli funerari di grandi discariche, mercati agricoli e capannoni industriali abbandonati, edifici diruti , attività artigianali collassate) ;ma ci sono anche momenti di nostalgia, quando le lunghe ombre cardarelliane dei ricordi attraversano i giardini della sua infanzia e le finestre s’aprono dentro il cielo come in un quadro di Magritte. Ecco la masseria dei Doganieri, lu Pindaru con gli olivi centenari, il canale dell’Asso formare un’ansa e un folto canneto, il declivio de lu Cola Maria trasfigurato dal padre in un podere del Chianti, li cozzi de Corianu e la Melelea , poche are di terra che gli avi materni avevano sottratto alla roccia, che diventano il giardino dell’Eden! Insomma , lunghi esiti di memorie , elegia alla stato puro , occhi limpidi di innocenza che si alternano i suoi umori scuri per le altalene arrugginite, gli scivoli inghiottiti dalle erbacce, gli alberi intristiti , le notti della taranta , o le notti del delirio per la conquista del mondiale di Calcio (era il 1982 e Virgilio era ancora un ragazzo , si sedette su una panchina – sulla spalliera – e non partecipò alla festa dei tamburi e delle bandiere ). “Per qualche stupido goal eravamo già dimentichi del mondo che volevamo cambiare. Contava solo vincere , vincere la partita, vincere il mondiale , vincere….vincere che cosa? Mi si avvicinò un giovane storpio e senza amici, che allora andava sempre in giro per il paese suonando un’armonica a bocca, sbeffeggiato da tutti. Mi disse: “Te la regalo, e insistette per prendessi la sua armonica. Penso che la sua solitudine sia stata molto simile alla mia, perché tutte le solitudini si eguagliano e solidarizzano tra loro. ( pagg.135-136)
E’ vero, “vi sono solitudini simultanee per far innamorare”, parola di un gallipolino doc come Eugenio Barba. Gianluca fa le sue passeggiate fra illuminazioni e lave di cenere , e il profumo dei ginepri , percorrendo sempre “vie traverse”, strade dimenticate, luoghi di periferia paesaggi della memoria, alla ricerca di un’identità salentina che sta scomparendo, che sarà – forse – inghiottita , spazzata via dall’inevitabile “liquidatore” di turno . Le nostre mani sono troppo vuote. Arriverà lo straniero – chissà da dove e chissà quando – e ci porterà via anche quello che non abbiamo , cambierà tutte le cose, anzi le cose stanno già cambiando giorno dopo giorno senza che ce ne accorgiamo.
3. Così stanno le cose
“ Così stanno le cose” , ripete Gianluca Virgilio , nel titolo del suo ultimo libro – edit Santoro, 2014, – e lo dice da un osservatorio privilegiato , da professore di lettere, da educatore di giovani menti , anche se oggi è divenuto un “ mestiere inutile” (… “l’idea stessa di insegnare mi sembra inconcepibile”, aveva scritto Cioran), un mestiere da “fannullone” ( “Prendere uno stipendio per non far nulla , è il massimo, come dicono tutti.”), come auto-ironizza lui stesso in “Frammenti scolastici”, una delle quattro parti di cui si compone il libro…
Ma se così stanno le cose, e tutto va a finire nel fossato della notte , nei sepolcri della luna bodiniana , noi – scrive Virgilio nel preambolo – dobbiamo dirlo : “ Sostiamo e raccontiamo senza mitologie, senza querimonie, disarmati, guardando in tutte le direzioni. Non diamo retta a chi ci mette addosso la paura dell’essere esposti al mondo, al passaggio violento del nemico. E’ lui il nemico. Sostiamo senza paura, con molta curiosità verso quanto avanza tutt’intorno, lungo la linea lontana dell’orizzonte. Da lì, come sempre, i nostri amici, migranti come uccelli, porteranno le risposte giuste a noi che sostiamo… Raccontare è certo il miglior modo per sostare” (pag.13).
Ci sono pause , come queste , che sono schiarimenti , e la coscienza dei nostri limiti ci assilla e ci disorienta , è vero, ma ci offre anche l’occasione di svolgere – insieme – un lavoro quotidiano onesto , concentrarci con concretezza e semplicità sulle cose da fare, svolgere bene ogni azione a livello professionale e artigianale e farle con precisione essenziale , con attenzione, con cura , considerare ogni nostra azione vitale , come fosse l’ultima possibile per dare una sterzata, un deciso cambiamento alle cose che ci riguardano . Ecco, solo così possiamo dare un immagine di un Salento vero, concreto, volitivo, umile, capace di svolgere il suo ruolo con volontà, professionalità e “misura” ( La stessa misura che richiede la scrittura: mai scrivere una parola più del necessario) Se ciascuno fa le cose con cura , dimenticando se stesso, tutto può cambiare; se voi lo volete , se avete passione ed entusiasmo , potete cambiare il mondo, diceva don Tonino ai giovani salentini. Non lasciate che gli altri lo cambino per voi.
4. Salento minimo
In questo libro , l’elzevirista Virgilio, raggruppa tutti i suoi articoli che pubblica su una rivista locale, “Il Galatino”, che poi sono tessere di un vasto mosaico che abbracciano diversi argomenti e momenti del vivere di tutti i giorni, – tempo e ingranaggi, edera e occasione, speranza e ignoto, seme e angoscia, civiltà, fiori e droga , animali e monumenti, notti e deserto, mare e uomo, zero e spirale, ricatti e fretta, firma e potere – inizia dalla “cultura”, quel sovrappiù su cui è fondata la nostra civiltà, come amava ripetere Tagore, e lo fa aprendo le porte a tutti, tramite l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, che dirige , eredità preziosa e inalienabile di grandi uomini come Zeffirino Rizzelli ( che conobbi molti anni fa, grazie a Maria Rita Bozzetti) e Giuseppe Giannini.
Il suo – come abbiamo accennato – è un Salento minimo, pudico, appartato , umile, antiretorico, che non ha nulla di mitico e di fantasmagorico: si parla di una regione violentata, con i ricatti della miseria e della disoccupazione, i vetri infranti e l’occhio cieco della civetta , o degli allocchi, un Salento in costante attesa di celebrare il suo grande funerale kitsch, con “i fasti della nuova retorica neobarocca, che alla fine della festa, all’alba, lascia le vie deserte solo di immondizie e macerie che prima o poi nessuno sarà in grado di smaltire” . In una società come la nostra , in totale crisi di valori , che ha perduto il senso dell’etica – dice Luca Ronconi – non si può parlare nemmeno più di dramma o tragedia, né porsi i soliti interrogativi di chi è nato al Sud: “ partire o rimanere? Andare al Nord, sostare al Sud? Spostarsi a Est o a Ovest. In realtà – scrive Virgilio – sono saltati tutti i punti cardinali”. E’ un falso problema . Oggi siamo tutti in preda al banale grottesco , al giro di giostra quotidiano, nessuno più ti assicura un posto di lavoro , esistono contratti per tre mesi, e poi avanti con la droga violenza guerre migrazioni bibliche terrorismo a go go’ , e la banalità del male, come diceva Arendt , una banalità ininterrotta che non finisce mai , come ripeteva la Sontag, in cui è difficile intravedere spiragli per il futuro.
5.Scrivere per respirare
Io mi ricordavo – invece – di un altro Salento in cui la logica si frantuma davanti al mistero , pervaso come sono tuttora dallo stupore di una terra che forse ho solo sognata , che non è mai esistita veramente , che è un miraggio, qualcosa di irreale, col suo cuore di pietra e di miele, i merletti , i nastri i fiori e frutta, le colonne tortili , i capitelli, i rosoni e le balaustre , una confusa schiera di gioielli che vengono calpestati tutti i giorni con indifferenza e insensatezza. Ma io ormai sono lontano ed estraneo a quel mondo , mentre lui , il prof. Virgilio, respira atomo per atomo quella polvere , vede quell’intrico dei ricatti in cui sbatti sempre la testa , la luce troppo accesa, i semafori rossi il cesso tutto lustro i seni-bottoni e i cordami fitti fitti , ode quei canti lontani di cicale uccelli lucciole , quel tessuto di silenzio, quella materia che si stende ora con asprezza , ora con dolcezza e ti invita al respiro del sogno o della rivolta , della ribellione o dell’amara partenza, l’addio che è sempre un’angoscia, un tradimento, una saudade da cui non puoi sfuggire; lui tasta il polso ogni giorno alla sua città e lo fa con la sensibilità di uno scrittore per vocazione (“Non si può decidere di scrivere o non scrivere , ma si può solo respirare, finché abbiamo fiato”) , è un fine osservatore della realtà, uno che scrive di cose che conosce, ma capita anche che sulla pagina affiori ,misteriosamente, anche ciò che non sa, che ti viene dettato: …corrispondere a invisibili e imponderabili sollecitazioni ,essere investito da correnti aeree che trascinavano ideali vortici di nomi, giri di frasi, sequele di parole, torme di lettere, di cui mi sono trovato a farmi carico e quasi a sentirmi responsabile, tanto da impegnarvi con piacere molte ore del mio tempo libero, senza altro fine che quello di assecondare il fluire della scrittura.
6.La cura dell’orto
Inizialmente la sua prosa mi aveva ricordato un po’ le “Veglie di Neri” di Renato Fucini, ma sbagliavo . Gianluca non ha molto da spartire con i macchiaioli , è più scabro ed essenziale, come certi paesaggi salentini che sanno di Grecia e Liguria , e in questo senso – se mai – ha qualcosa di Sbarbaro, ma è soprattutto se stesso, un griko-messapico salentino che sa essere fortemente critico e autocritico, ironico e autoironico , anche satirico se parla degli intellettuali salentini (o salentinizzati) del loro “ego gigantesco” , del loro linguaggio degli – ismi , maestri di vanità e del Nulla. Lui è uno che scrive la vita stessa nel suo fluire , uno che canta lo spazio senza corni e trombe, e lo fa usando macchie, incroci di linee, stellette come note nelle loro partiture , uno che non ha perduto i propri antenati, che non ha perduto la propria anima salentina , si muove seguendo il ritmo dell’idioma parlato dai genitori , ed ecco il nero delle pietre, le linee aspre e aggressive, i fiori gialli spinosi carichi di sole, i paesaggi della memoria: “Prendevamo la strada /che porta ai Paduli e la seguivamo /– curvando a destra o a manca – /verso Aradeo o Cutrofiano , / oppure dritti nell’agro di Collepasso ,/ dove un settembre avevamo villeggiato / in una casa senza elettricità// L’accensione a sera / del lume a petrolio / proiettava lunghe ombre sulle pareti / e somigliava a un rituale antico e inquietante . Le barrette ce l’ho messe io , per dimostrare come una prosa lineare e semplice , fatta di parole del quotidiano , si possa trasfigurare in lirismo e toccare il cuore del lettore con un desiderio di abbracciare le cose che ci circondano , perché in fondo , dice lui stesso , citando Zanzotto, “Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio” ; scrive di cose cittadine ( galatinesi, in particolare) , di città abbandonata, della diseguaglianza degli uomini, di esercizi di saggezza su cui riflettere e meditare a lungo, i caduti i ribelli gli inquieti i deboli , i compromessi, i sigilli, le paludi senza fondo, gli spigoli dell’infanzia, l’ordine, la misura, l’amore. E’ uno che ama prendersi cura delle cose e della geometria dell’esistere , perché –cita Heidegger – “si è ciò di cui si prende cura”. E di botto scopre che la vita è come un grande orto ( è il suo ultimo esercizio di saggezza) che trova in sé la sua cura; “curare l’orto è dedicarsi a…dimenticando se stessi. Sembra paradossale, ma la cura di sé passa attraverso la dimenticanza di sé, e la dedizione a qualcosa che senza di noi non potrebbe esistere”(pag.141)
Sembra una lezione cristiana, una sorta di Vangelo ( ma ricordiamo che se non fa male , se non ferisce, non è quello giusto, dice un mio amico prete) , da cui poter ricominciare.
Roma , 21 settembre 2013 Augusto Benemeglio.