Barbarah Guglielmana – Davanti alla tenda


A cura di Alberto Figliolia

L’incandescente materia dell’amore. La nostalgia dell’assenza. La surrealtà che si annida implacabile nel quotidiano. La dolce potenza del ricordo. Le catene della libertà. E rimpianti o rabbia esistenziale, ma anche slanci: lirici e fecondi. È una poesia carica e densa, quella di Barbarah Guglielmana, medico ogni giorno della sua vita e, nel contempo, artefice di versi di straordinaria efficacia e bellezza. La poetessa chiavennasca, di stanza a Pavia, ha di recente dato alle stampe un libro di magnifica portata e contenuti: Davanti alla tenda (LietoColle, 2014, pp. 72, 13 euro).
Un libro felicemente sconvolgente, l’anima della poetessa messa a nudo come rare volte è dato di vedere. Per esser poeti ci vuole coraggio e la Guglielmana ne è adeguatamente provvista. Dolorosa calle e infide scale è la vita, ma non si può, non si deve rimanere al palo. L’itinerario è da fare, da provare, costi quel costi. Traumi e tormenti sono riscattati dalle visioni, dall’impegno, dalla parola.
Tu non eri ancora venuto/ o eri già venuto,/ non aveva quasi più importanza. […] Il dondolio/ delle piante selvatiche/ era il solo lusso/ che mi concedevo// come un sacchetto/ libero solo al vento. Sono i versi d’esordio, l’incipit che apre la raccolta. Una silloge che va in crescendo: raccoglimento interiore e coro tragico; volo e caduta; oblio e memoria; silenzio e grido… Posso anche gradire la musica brasiliana, se mi fotti ubriaca/ E le calze le infilo anche non strappate, se sono state rammendate/ Tramanda storie non vere, che non ti hanno mai raccontato/ Scrivi al computer che non ti senti amato, con la moglie che ti aspetta a letto […] Ascolta quello che ti dicevo, non era niente vero/ posso anche nuotare in un lago, affogandolo/ Nessuno crederà che il regista del giallo eri tu, e non io/ Finita d’esistere. Chiude un participio passato anomalo, quasi programmatico. L’apocalisse che ogni giorno avviene nei nostri cuori. Non si può spiegare; si sente. La definitività di quel… Finita d’esistere. Eppure, tentennando, a fatica rialzandosi dal fango, di nuovo ci si erge, a guardare il riflesso del cielo e delle nuvole nelle pozzanghere e il manto di stelle che vigila il nostro andare.
Si dipana il racconto in versi, in composizioni ora brevi e icastiche ora in forma di piccoli poemi. Scintillanti cattedrali di metafore, od oratori, in una sapienza creativa mai disgiunta da empatia, anche quando l’analisi è strazio, paura, abbandono. Forse mi sono ingabbiata/ e ho perso il raggio del cielo// Forse sono andata sott’acqua/ e mi sono dimenticata di respirare// Forse mi hai amato così poco/ e mi sono dimenticata di vederlo// Forse mi sono creduta libera/ e dello spazio attorno ne ho fatto un vuoto buio grigio// Forse sono diventata sorda e triste/ e non ne ho ascoltato la differenza// Forse il cielo bianco che vedevo dalla cella/ mi è sembrato di nuvole morte// Forse il mio spogliarmi/ sembrava la stessa cosa che il vestirmi, senza pensarmi corpo// Forse il mio silenzio mi ha lasciata a bocca/ asciutta davanti al tuo// E forse avevo finito di scusarmi/ con me stessa. Ma c’è sempre una terra di speranza, un’isola sperduta, non segnata sulle mappe, da raggiungere… mi ammalo di te, nel sangue/ abbandonandomi.
La silloge si divide in tre parti, le tappe di un lungo viaggio nelle età dell’essere che si fa, sfa e rifà incessantemente. Mi hai vista? Uscivo dalla polvere, sopra il cemento aperto in una voragine/ Nella colla di lacrime sepolte/ Avevo una gonna sgualcita, che però portavo ancora bene/ Sulle mie belle gambe/ cantavo sorde canzoncine/ In un delirio da febbre alta/ O da ubriaca triste/ E il rossetto me l’ero quasi tutto mangiato, ma gli angoli della mia bocca/ Ricordavano nelle loro pieghe che avevo sorriso… Lacrime come mandorle, schegge di sasso da una roccia minata, briciole d’osso senza carne, scarti e fotogrammi, un fado che rapisce, la città onnivora, la solitudine, paesaggi dell’anima, l’elenco degli odori dell’infanzia (Il caffè presto in cucina, dai nonni e c’era lo zio/ La polenta con la crosta, riscaldata non mi piaceva/ Il gelsomino, a primavera si aprivano le finestre/ Le margherite marce, al cimitero con la prima nonna/ Il formaggio fuso, che cadeva dal bastone alla brace/ Le vendemmie con i pincioli nell’erba e le vinacce a fermentare […] Il risotto giallo la domenica, anche se si litigava/ Ripassano di tanto in tanto/ Mi alzo con loro in aria/ Annusata dentro) e lo sfolgorante nel crepuscolo e nostalgico palazzo dei ricordi, nel tempo in cui ogni occasione era possibile e l’innocenza un dato certo, come nella superba stilisticamente ed emozionale poesia dedicata a nonno Enveri (già il nome sa di fiaba)… È il fumo Londra che sgocciola dalla tua testa trasparente,/ mentre in fila tre piccioni limitano il confine tra un tetto e/ un cielo stanco, che mi ripercorre la strada sgrigiata// Da bambina col nonno disegnavo la pioggia,/ era di righe diritte e di righe oblique,/ un po’ oblique a destra e un po’ oblique a sinistra// Ne facevamo pagine,/ pagine intere di queste righe di pioggia// E oggi pagherei con tutti i miei libri una pagina di quelle righe di pioggia,/ diritte e oblique, oblique a destra e oblique a sinistra/ E ancora, io e il nonno disegnavamo anche le grandi scale// della nostra chiesa bianca di Loreto/ Erano scalini che man mano che si avvicinavano ai due campanili/ diventavano più corti, per lasciare spazio all’impianto della chiesa bianca […] Cambierei ogni preghiera disperata di me adulta/ con quelle preghierine di allora […] Quel nonno che lavorava ancora la vigna e/// m’insegnava a rubare le castagne sotto la pianta che le faceva più grosse e/ che mi ha chiesto scusa la volta che mi sono arrabbiata con lui/ perché aveva strappato le piante di pomodorini […] o che mi rimproverava perché mi mangiavo le unghie/ Dopo che è mancato non l’ho mai più fatto// non me ne sono neanche accorta subito, ma vorrei farglielo sapere/ e vorrei fargli sapere che ogni volta che la pioggia viene giù diritta/ vedo le nostre righe diritte// e quando invece viene di vento/ vedo le nostre righe oblique a destra e oblique a sinistra/ E il fatto che in chiesa non ci andrò mai da sposa non mi preoccupa,// ma in quella chiesa bianca con due campanili/ quando ci torno penso ai nostri disegni,/ che conoscevano già la strada della vita// diritta e obliqua,/ obliqua a destra e obliqua a sinistra/ in salita e in discesa, tra la terra e il cielo// con noi in mezzo a disegnarci. Una poesia – o prosa lirica, fate voi – di immenso empito sentimentale, ma senz’alcuna traccia retorica, in cui è facile identificarsi. Un ipermetro che ci entra prepotentemente dentro, come quei tramonti estivi fiammeggianti, preludio alla notte e a una nuova vita.

Alberto Figliolia

Titolo: Davanti alla tenda
Editore: LietoColle
Collana: Blu erato
Prezzo: € 13.00
Data di Pubblicazione: 2014
ISBN: 8878488275
ISBN-13: 9788878488274
Reparto: Studi letterari

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