Recensioni Teatrali: Avevo un bel pallone rosso-Storia di Margherita e Mara


Avevo un bel pallone rosso e blu, ch’era la gioia e la delizia mia. S’è rotto il filo e m’è scappato via, in alto, in alto, su sempre più su. Son fortunati in cielo i bimbi buoni, volan tutti lassù quei bei palloni (Margherita, nei suoi quaderni d’infanzia)

Margherita che si fa chiamare Mara/Mara che era sepolta in Margherita.
La strana genesi di una rivoluzionaria che sceglie di passare dal pur duro terreno delle battaglie intellettuali e ideali al ben più tetro campo della lotta armata. Che cosa può insegnare oggi la vicenda umana e “politica” di Margherita Cagol, divenuta Mara in seno alle Brigate Rosse, organizzazione che contribuì a fondare con il marito Renato Curcio? Vi è, ormai, una sufficiente distanza emotiva per un’analisi razionale di quegli eventi? Come si genera il fenomeno di una terrorista, capace di spegnere altre vite, che pure era partita da un forte substrato d’ideali di giustizia sociale? E questo in tempi che erano di una diffusa militanza pacifista altrettanto, se non più, dirompente ed efficace? Dove si produce lo scarto?
È forse l’eterna questione di giusti (o parzialmente condivisibili) princìpi che si perseguono con metodi sbagliati? Vero è che la violenza è un tragico spettacolo, nera spirale e facitrice di odio senza fine (ma esiste anche la violenza di Stato o
sistemica: quasi sempre impunita). Che cosa spinse la ragazza trentina di buona famiglia, tradizionalista e cattolica, dopo la sua speciale presa di coscienza e dopo la laurea in Sociologia a intraprendere la deriva del percorso armato? E, di contro, non è altrettanto violenta (e autolesionistica) l’inedia, l’inerzia, l’ignavia, la supina e passiva rassegnazione dei tanti? Eppure Gandhi e Martin Luther King insegnavano altre vie di lotta e partecipazione in nome dell’emancipazione e del mutamento.
Avevo un bel pallone rosso è un lavoro coraggioso: non giudica, bensì espone; seminando fatti pone dubbi. La vita di Margherita-Mara si dipana, fra le proprie svolte esistenziali, nell’ininterrotto rapporto con il padre: amore e conflitto, abbandono e ritorno, distacco e ricerca. Fino al dramma/trauma finale. Fino alla morte in un conflitto a fuoco con i carabinieri. In mezzo la placida tranquillità di Trento, la polveriera sociale milanese, l’inquietudine nelle fabbriche, l’agognato modello cinese (oggi un turbocapitalismo sotto il controllo ideologico del partito unico), il Giudice Sossi e gli altri rapimenti, l’assalto al carcere di Casale Monferrato per liberare Curcio che dopo l’arresto vi era detenuto. Poi, come detto, nel 1975 il tragico epilogo. A soli trent’anni Margherita-Mara lasciava questa terra.
(Renato Curcio non compare mai, ma il suo nome è sempre evocato nel corso di tutta la rappresentazione: ingombrante presenza-assenza)
Assolutamente interessante la scelta di usare il doppio registro linguistico: trentino e italiano, a segnare la discrasia fra la rassicurante dimensione domestica e l’immane in agguato, il futuro precipizio (l’altisonante burocratese dei comunicati delle BR…).
Un lavoro di grande valenza artistica e dall’accuratissima ricostruzione storica, ottimamente interpretato. Da far vedere ai più giovani.
Dalle note di regia di Carmelo Rifici: “La storia delle BR è un pretesto usato dall’autrice per addentrarsi in un terreno più fecondo e misterioso: quello delle relazioni umane profonde e dell’impossibilità della relazione. Senza dimenticare i luoghi della difficile relazione, Trento e Milano. A Trento Mara è Margherita, figlia e studentessa, a Milano Margherita è Mara, combattente membro del comitato esecutivo delle Brigate Rosse. A Trento Margherita parla in dialetto e si pone di fronte al padre con il dubbioso sentimento di amore e di ribellione, a Milano Mara parla un italiano burocraticamente ideologico e si pone di fronte al padre senza dubbi e con l’assoluto amore verso la causa brigatista. A Trento il padre parla in dialetto e il suo dialogo impossibile con Margherita è basato sull’amore assoluto verso i figli, la famiglia, la religione cattolica e il lavoro, un amore assoluto che rifiuta il relativismo emozionale, rifiuta il personale. A Milano il padre non sa più in che lingua parlare e cerca in Mara un sentimento filiale ormai impossibile da recuperare. Lo spettacolo tratta dell’impossibilità del linguaggio, che si palesa nel cancro alla bocca che ucciderà il padre, bocca dalla quale non uscirà mai la parola Amore, e nella perdita della lingua natale di Margherita, senza la quale è impossibile veicolare gli affetti più cari”.
La lotta armata seminò vittime e dolore, fu comunque erronea – oltre che una scelta perdente –, una intera generazione vi si smarrì (ancor più negli anni di piombo a venire, la morte di Aldo Moro un altro terrificante spartiacque). Quale lezione per la collettività civile? Forse… forse il messaggio della non violenza, la condivisione di valori, il rifiuto dell’arbitrio e del prepotere da qualunque parte essi provengano, l’arma della pietas?

Alberto Figliolia

Avevo un bel pallone rosso-Storia di Margherita e Mara, dal testo di Angela Demattè. Regia di Carmelo Rifici, Con Andrea Castelli e Francesca Porrini. Scene e costumi Paolo Di Benedetto. Musiche Zeno Gabaglio. Luci Pamela Cantatore. Video Roberto Mucchiut. Produzione LuganoInScena, TPE Teatro Piemonte Europa, CTB Centro Teatrale Bresciano, in coproduzione con LAC Lugano Arta Cultura. Piccolo Teatro-Studio Melato, via Rivoli 6, Milano (MM2 Lanza).
Fino al 4 novembre.
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16.
Durata: 80 minuti senza intervallo.
Informazioni e prenotazioni: tel. 0242411889, sito Internet www.piccoloteatro.org.

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