Quando ho iniziato Lolita di Vladimir Nabokov, sapevo di avere tra le mani un romanzo controverso, ma non immaginavo quanto sarebbe stato difficile attraversarlo, pagina dopo pagina. Non per la scrittura – Nabokov è un maestro del linguaggio, un incantatore di parole – ma per il senso di disagio crescente che mi ha accompagnato per tutta la lettura. È stato un libro che ho più volte pensato di abbandonare, troppo denso, troppo disturbante, troppo… ambiguo. Eppure, alla fine, ho capito che quella sensazione di spaesamento era proprio ciò che l’autore voleva ottenere: costringere il lettore a guardare il male non attraverso la condanna, ma attraverso il filtro seducente e ingannevole della parola.
La storia è ormai nota: Humbert, uomo colto e raffinato, si trasferisce in America e sviluppa un’ossessione morbosa per Dolores Haze, dodicenne ribattezzata da lui Lolita. Per starle vicino, ne sposa la madre, Charlotte, e quando questa muore, prende in custodia la bambina, trascinandola in un viaggio attraverso gli Stati Uniti che è, in realtà, una prigionia mascherata da avventura. Attraverso la sua narrazione, Humbert cerca di convincerci che Lolita sia complice, che sia lei a sedurlo, ma Nabokov è troppo intelligente per lasciarci cadere davvero nella trappola. Perché leggendo tra le righe, osservando gli eventi da una prospettiva meno avvelenata dalla voce del protagonista, la realtà emerge con chiarezza: Lolita non è altro che una bambina abusata, e Humbert è il suo carnefice.
Ma la genialità di Nabokov sta proprio qui: non dipinge Humbert come un mostro tradizionale, bensì come un uomo consapevole della propria ossessione, disperato nella sua autodistruzione, intrappolato in un vortice di desiderio malato che lo consuma. Il lettore si ritrova allora in una posizione scomoda, quasi costretto a provare un barlume di empatia per un uomo che, nella realtà, si dovrebbe solo condannare. Questo è il grande inganno di Lolita: attraverso una prosa sublime, Nabokov ci porta nella mente di un predatore e ci fa vedere il mondo con i suoi occhi, rendendoci partecipi del suo dramma, senza però mai assolverlo.
Ci si potrebbe chiedere se Humbert, a sua volta, sia una vittima. Vittima della sua ossessione? Forse. Vittima di un trauma infantile mai superato? Possibile. Ma tutto ciò basta a redimerlo? No. Perché in questa storia c’è una sola vera vittima, ed è Lolita. Una bambina che viene privata dell’infanzia, della libertà, della possibilità di scegliere. E non importa quanto Humbert soffra, non importa quanto si strugga nel suo dolore: il suo è un male autoinflitto, mentre quello che ha inflitto a Lolita è irreversibile.
Leggere Lolita è stato come trovarsi davanti a uno specchio deformante: pensi di guardare una cosa, ma poi, con il tempo, capisci che la verità è un’altra. E la verità è che Nabokov non ha scritto una storia d’amore, né una storia di redenzione. Ha scritto una storia di manipolazione, di inganno, di abuso mascherato da poesia. Eppure, nonostante tutto, Lolita resta un capolavoro, perché è raro trovare un romanzo capace di smuovere così tanto chi lo legge, di obbligarlo a riflettere, a provare disgusto, a interrogarsi sul potere della narrazione e su come le parole possano trasformare il male in qualcosa di apparentemente accettabile.
Alla fine, quello che mi resta di Lolita non è tanto la figura di Humbert, quanto quella di Dolores Haze. Una bambina che il mondo ha conosciuto con un nome che non era il suo, una bambina che la letteratura ha spesso frainteso, romanzato, distorto. Eppure, sotto la patina delle parole di Humbert, sotto il gioco brillante e crudele di Nabokov, c’è sempre stata lei: una vittima che nessuno ha mai veramente ascoltato.
Titolo: Lolita
Autore: Vladimir Nabokov
Prezzo copertina: € 13,00
Editore: Adelphi
Collana: Gli Adelphi
Edizione: 16
Traduttore: Arborio Mella G.
Data di Pubblicazione: 30 ottobre 1996
EAN: 9788845912542
ISBN: 884591254X
Pagine: 395
Katia Ciarrocchi
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