«Ehi? Sentite che bella» esclamò Michele. Si bloccò con le valigie in pugno per ascoltare con attenzione un diabolico arpeggio tropicale. «Ma com’è ‘stu fattu? Questa non pare una fisarmonica, suono diverso fa.»
«È il bandoneón, lo strumento nazionale.» Bruno accennò all’insegna del locale: «Ecco perché l’hanno chiamato così».
Entrarono in una casaccia dietro l’angolo che sembrava essere stata bombardata il giorno prima. Nella tromba delle scale, fra vetri rotti e calcinacci, si udì il pianto lancinante di un neonato.
«Fallo sta’ ‘nu poco zitto… Zitto!» gridò una voce maschile.
«Genna’, ma è na criatura!» rispose una donna.
Nell’immenso androne si sentiva russare, bestemmiare, so¬spirare di piacere, fra violenti litigi e dolci note di un’arpa paraguaya.
«Ma’» bisbigliò Olivia, «Diana sta meglio a Bagheria che qua. Papà dice che ha salvato noi, ma ha salvato lei.» Caterina scavalcò un ubriaco che dormiva di traverso sul pianerottolo, si segnò: «Speriamo!».
Attraversarono il ballatoio del primo piano. In una stanzetta, una bambina seduta sul tavolo beveva una tazza di latte mentre i genitori amoreggiavano accovacciati per terra; in quest’altra s’intravedevano otto piedi dietro una tenda. Qui un vecchio cinese col pizzetto e una veste di broccato blu da mandarino leggeva non si sa perché “Le Figaro”; lì una napoletana scar¬migliata dondolava una culla di legno mentre un omaccione in canottiera si tappava le orecchie per non sentire i vagiti.
Nella dodicesima e ultima stanza al secondo piano, sopra un sacco di canapa, un gigantesco indio guarani stava inventando una canzone accompagnandosi con la piccola arpa paraguaya. Cantò: «No tengo tu amor, Florencia. / ;Grande es mi pasión, y tu indiferencia!».
Di fronte a lui, uno spagnolo suonava un piano immaginario.
Bruno aprì la porta. «Olimpo? Luis?… Por favor.» I due in-travidero la famigliola con le valigie, lasciarono generosamente campo libero ai Maggio. Il genovese spalancò la finestra per cambiare l’aria.
«Signora, qui è gratis, almeno avete un tetto.»
«Santa Rusulia vi binirìca, signor Bruno.»
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