Chet Baker all’età di 20 anni è un discreto e sconosciuto trombettista in cerca di ingaggio e già si trova a fare i conti con quello che sarà il suo eterno specchio e termine di paragone. Miles Davis.
Proverò a spiegarmi Chet attraverso le innegabili e talvolta esoteriche rispondenze di riflessi specchiati e capovolti che intrigano le vite dei due trombettisti.
Riflessi che si rincorrono, rarissimamente si toccano solo per ripartire velocissimi, rifrangono sdoppiano le realtà rimanendo l’uno fronte l’altro al di qua ed al di la dello specchio, l’uno negativo fotografico in bianco-nero nell-dell altro.
Chesney Henry Baker Jr. nasce nel 1929 e muore nel 1988. Miles Dewey Davis III nasce 3 anni prima e muore 3 anni dopo, come a chiuderlo in parentesi di 3.
Chet è bianco, anzi nordico.
Miles è nero, anzi negro.
Dalla profonda provincia degli States dove sono nati e considerato il periodo si potrebbe ipotizzare per i due un destino scritto: il bianco jazzista compassato e intellettuale, il “negro” maledetto ed instabile.
Ma lo specchio comincia il suo lavoro. Miles è giovanissimo e già sta diventando famoso, tecnica straordinaria, innovativa. Un carattere serio e deciso. Chet viene scartato anche dal servizio militare per una sorta di “inadeguatezza mentale”. Dopo qualche anno ottiene una scrittura e comincia a suonare in giro con un discreto successo, addirittura un anno lo fregiano del “best trumpet” battendo Davis, ma tutti sanno che è un disperato tentativo dei critici di dare una mano di bianco al jazz.
Gli americani in quegli anni avevano ancora lo spettro di Jesse Owens, di Ray Sugar, insomma avrebbero dato il braccio destro per vedere un bianco correre più di un “nigga” o metterlo KO.
Ma senza biografare i due, riporterò alcuni dei tanti punti di contatto che paradossalmente li hanno allontanati.
Due trombe, quasi lo stesso suono e quasi lo stesso fraseggio, poetico e rilassato.
Quasi. Niente di più distante.
Davis ogni nota un pensiero, una lama nel ghiaccio.
Baker ogni nota un ripensamento, un indeciso canto d’amore non corrisposto.
Davis è freddo scostante anche nella vita, decisamente un vincente, milioni di dischi e folle oceaniche come nel 70 all’ isola di Wight. Grandissimo compositore ed innovatore propone e dispone più di una rivoluzione musicale. Influenzerà tutti. Dico tutti.
Meno Chet.
Chet è quasi autistico, sempre in penombra, innamorato e abbandonato dalla musica e dalle donne pur essendo il “James Dean del Jazz”. Pur in queste definizioni si scova la depersonalizzazione dello yankee che non comporrà mai niente di rilevante, non farà mai rivoluzioni, anzi suonando classici degli altri, spesso titoli di Davis stesso, negli ultimi anni sussurra romantiche e struggenti ballate anni 50.
Tutti e due accomunati dall’eroina, direte. Ma mentre in Davis la roba è una reazione di rabbia e di freddezza contro la società per Baker la tossicodipendenza è un caldo e assurdo rifugio.
Davis se ne libererà con forza più volte, alla fine per sempre, e quando ha avuto bisogno di soldi non ha esitato a fare il magnaccia e lo spacciatore.
Chet quando è scoppiato con la morfina prima si è fatto rompere tutti i denti da un pusher e poi si è messo a fare il garzone ad una pompa di benzina e non si mai disintossicato.
“inverse corrispondenze” la voce.
Già prima degli anni 60 Miles era preda di afonie gravissime (in un filmato d’epoca il presentatore annunciandolo avverte che suonerà ma non parlerà per via di una laringite, e si vede per altro Davis che fuma l’ennesima sigaretta..) in realtà un enfisema lo porterà alla morte e gli lascerà un filo di voce per il resto della vita. Voce, o meglio, un roco sibilo salito dagli inferi.
E Chet? In quegli stessi anni era famoso più come cantante che come strumentista, una voce flebile bellissima e pensosa, intonatissima ma a volte incerta piena di note dritte e sghembe come solo un cantante di jazz sa fare. Un canto infantile di pura poesia romantica, un angelo dalle ali spezzate in volo.
Un angelo dicevo, infatti Chet nasce bianco e bello come James Dean ma nel corso degli anni il volto si deforma e avvizzisce in un quadro assurdo e surreale di rughe, senza denti ed al posto degli occhi due orbite piccole e vuote scolorite dalla morfina.
Davis nasce nero, ma un nero atipico, non bello e carnale ma piccolino e con gli occhi in fuori da sospetto ipertiroidismo. Nel corso degli anni la sua pelle non mostrerà una ruga, sarà sempre più affascinante e nei suoi ultimi concerti vestiva sgargiante e chi non lo sapeva avrebbe dubitato della sua età. Entrava in concerto e tutti i musicisti aspettavano un suo cenno minimo, un impercettibile ed infallibile movimento della sua ineffabile tromba. Sicurezza e carisma impressionante.
Chet Baker entrava in scena guardando per terra annunciato da musicisti più famosi di lui come Stan Getz che gli hanno sempre voluto bene e sopportato le sue entrate fuori tempo e le pause troppo lunghe tra un fraseggio e l’altro e il finire i “soli” sospesi a mezza via ( il concerto con Stan Getz in Svezia nel ’83 è emblematico) ma solo poi capirne il senso complessivo del suo sviluppo melodico vocale o strumentale.
Un autistico insieme di infantilismo e genialità mai scontato mai voluto e forzato.
Insomma quel che mi ha sempre affascinato di Chet è la sua mancanza. Il suo vuoto.
La sua non-presenza, la non-intellettualità, la rinuncia. L’aria da americano sconfitto e devastato.
Reduce da un Vietnam mai combattuto. Romantico non per scelta ma per dannazione.
Nulla lo descrive meglio della foto di Weber con i ghirigori della scritta che stridono con gli occhi che non ci sono. Come il bottone mancante del sedile imbottito. “let’s get lost”…
In basso a destra c’è un foro. Pare che gli abbiano appena sparato mancandolo di un soffio, “i don’t care” sembra pensare, è già morto così tante volte. Nulla lo descrive meglio.
Forse solo l’intervista, disponibile in rete in cui recita le parole di una canzone di Sinatra: Deep in a dream of you.
Siamo negli ultimi mesi, toglie la dentiera fumando un fetido mozzicone e chiaramente sedato declama saltabeccando i versi smozzicandoli e ricordandoli a fatica.
Tra una frase e l’altra fa: nice words, uh?
Ecco Chet Baker è tutto lì. Una stupida vecchia e bellissima canzone d’amore a rime baciate recitata da un tossico sdentato, diventa un inno, e lui trasfigura in un angelo inconsapevole.
E sbaglia le parole e inverte le frasi, come negli assoli, ma il risultato poi è celeste poesia.
I dim all the lights and I sink in my chair.
The smoke from my cigarette climbs through the air.
The walls of my room fade away in the blue,
And I’m deep in a dream of you.
The smoke makes a stairway for you to descend;
You come to my arms, may this bliss never end,
For we love anew just as we used to do
When I’m deep in a dream of you.
Then from the ceiling, sweet music comes stealing;
We glide through a lover’s refrain, you’re so appealing
That I’m soon revealing my love for you over again.
My cigarette burns me, I wake with a start;
My hand isn’t hurt, but there’s pain in my heart.
Awake or asleep, every memory I will keep
Deep in a dream of you.
“abbasso tutte le luci e sprofondo nella poltrona.
Il fumo della sigaretta sale attraverso l’aria.
Le pareti della mia stanza svaniscono nel blu,
E affondo in un sogno di te.
Il fumo fa una scala per farti scendere;
e tu, vieni nelle mie braccia, questa beatitudine forse non avrà mai fine,
Per noi l’amore di nuovo, esattamente come una volta,
Quando affondo in un sogno di te.
Poi dal soffitto, una dolce musica scende furtiva;
e scivoliamo dentro un ritornello romantico, sei così bella
che ancora una volta ti dirò che ti amo.
La sigaretta mi brucia, mi sveglio all’improvviso
La mano non fa male, ma c’è dolore nel mio cuore.
Sveglio o dormendo, ogni memoria terrò
e affondo in un sogno di te.”
http://it.youtube.com/watch?v=AHMiP_qQXKI
Non capivo perché amavo Chet Baker, lo imputavo al mio inevitabile animo romantico finche ho digitato “chetbaker” su google…
Il sito “chetbaker.com” è in vendita…..o meglio il sito non c’è.
È in vendita il dominio, il suo nome.
Mi sono tornate in mente le tante volte che si è svenduto la musica suonando male stupide tiritere anni ’50 e i filmetti di cassetta per raggranellare soldi per la roba.
Un altro avrebbe finito per odiare e ripudiare tutto ciò. Lui no.
Ci si è identificato, si è arreso.
Ho capito in un lampo che la sua grandezza è nella sua meschinità.
Come la sua musica nei suoi silenzi.
La sua bellezza nella mostruosità.
La sua costante presenza nell’assenza.
Il suo nome è in svendita.
http://it.youtube.com/watch?v=a5mxOUHI7mQ
http://it.youtube.com/watch?v=lFplHQJOuW4
Amilcare Caselli