LE INCOMPIUTE SMORFIE, di Vladimir Di Prima: una chiacchierata con l’autore


A cura di Massimo Maugeri

Il nuovo romanzo di Vladimir Di Prima esce nell’ambito del progetto editoriale di Priamo edizioni.

– Partiamo dal titolo, Vladimir: perché “Le Incompiute Smorfie”?
Mi capita spesso di sparare a salve, di avere cioè titoli folgoranti e di non riuscire poi a scriverci una storia intorno. Per tutti i romanzi che ho pubblicato finora è successo esattamente il contrario. Scrivevo, scrivevo, e poi, soltanto alla fine, con inenarrabili difficoltà, riuscivo a trovare un titolo che vestisse appieno il senso di ciò che avevo raccontato. Inizialmente questo mio nuovo romanzo ha faticato non poco prima di trovare un nome. Tutte le volte c’era qualcosa che non mi convinceva. E quando la sensazione è ripetuta è meglio attendere che sia il caso a fornire il suggerimento giusto. Così una sera, mentre riordinavo vecchi quaderni di nonna, trovai questa meravigliosa parola, “smorfia”, scritta a stampatello al centro di un foglio. Confessarti che mi si aprì un universo è poco. C’era tutto in quelle sette lettere. Sì, va bene, e poi? Non potevo certo intitolare un romanzo “la smorfia”. Avrei finito col fare la fine di Pizzuto, che quando pubblicò il suo “Ravenna” ebbero l’ardire di scambiarlo per una guida turistica. Occorreva dunque un aggettivo adeguato, un aggettivo che consacrasse la bellezza del sostantivo e lo nutrisse. Nel romanzo la maggior parte delle figure femminili ha il vizio del fumo. Allora mi sono chiesto: com’è la smorfia di una donna quando fuma? Distratta, pensierosa, truce, malinconica, sensuale. No, c’è dell’altro. C’è qualcosa di ineffabile, un’incompiutezza. Ecco, sono incompiute, sono proprio così: le smorfie incompiute. Un attimo, suona male, è piatto, dice poco. Ho invertito le due parole ed è nato il miglior titolo che avessi potuto scegliere per quest’opera.

– Che relazione c’è tra questo libro e i tuoi precedenti?
Si dice che uno scrittore finisca sempre con lo scrivere lo stesso romanzo. In parte è una verità di cui farei volentieri a meno. In parte la cosa mi affascina perché nella riformulazione dei concetti c’è sempre una scoperta. Nel mio romanzo di esordio, “Gli Ansiatici”, raccontavo la noia della gioventù di un paese meridionale attraverso un linguaggio paradossalmente ossimorico rispetto alla noia stessa. Invenzioni gergali, regioletti e utilizzo arbitrario della sintassi mi furono di grande aiuto oltre che forieri di impensabili divertimenti. Con “Facciamo Silenzio” ho esplorato invece l’aspetto dell’incomunicabilità e della solitudine. Temi che conservano una loro certa fondatezza nell’assenza di religioni sociali forti. Considero “le incompiute smorfie” il mio romanzo più maturo; con questo non ho la pretesa di definire un nuovo genere letterario che potremmo scherzosamente chiamare “smoking fetish”, però ritengo di aver dato un piccolo contributo a un modo di fare letteratura che rappresenti la metafora di una società sempre più malata e feticista.

– Nella scheda del libro Emanuele Pettener, che ne ha curato l’editing, sostiene che ogni paragrafo di questo romanzo “è un quadro”. Sei d’accordo?
Come non essere d’accordo con Emanuele Pettener? Quando mi scrisse in una bellissima lettera che il mio romanzo era una visita al Louvre mi provocò emozioni sconfinate; rividi davvero i miei personaggi muoversi dentro un quadro, rividi la vernice e rividi le pennellate, anche quelle che credevo di aver sbagliato e che invece erano giuste. Più di ieri, credo che oggi la scrittura debba prendere spunto dall’immagine per tenere il passo coi tempi. E per farlo deve sorprendere attraverso l’unica arma a sua disposizione: la parola. Una parola che non deve essere castrata o vilipesa – o peggio ancora evitata – ma espansa a ragione delle sue infinite possibilità.

In bocca al lupo a Vladimir Di Prima.

© Letteratitudine

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