Ho notato un tuo particolare interessamento per le problematiche degli abitanti di lingua italiana dell’Istria, della Dalmazia e del Quarnaro. A parte il fatto che abiti a Lubiana, non sei originario di quelle zone e quindi chiedo il perché di questo tuo discuterne, tanto che anche il racconto Ginnastica d’epoca fredda rientra in questo tuo proposito. Se la cosa trovava una giustificazione logica per Fulvio Tomizza, in quanto originario di territori ora non più italiani, quali sono i motivi che invece ti animano?
Be’, caro Renzo, diciamo che ‘’Ginnastica d’epoca fredda’’ ha per certi aspetti le caratteristiche peculiari dei racconti storici, essendo ambientato nel goriziano sloveno nel 1952. D’altronde Gadda scrisse il ‘’Pasticciaccio…’’ dandogli una cornice romana (e romanesca), pur essendo egli milanese doc. Parlo dell’Italia e dei nostri connazionali da italiano, insomma: un italiano che in questo caso tratta di un caso che ha riguardato molti italiani.
Sì, ma mi sembra che il racconto vada oltre la peculiarità del periodo e della località storica. In effetti, come nel Processo di Kafka, Poliorcete (che strano nome, c’è un motivo?) si trova a essere imputato per un reato sconosciuto, o comunque inesistente, e finisce con il diventare l’emblema dell’umile ignoto cittadino vittima dei giochi della politica. Questa sfiducia nel concetto di Stato visto politicamente mi fa supporre una certa tendenza anarchica e proprio per questo il dramma del protagonista finisce con il diventare la tragedia di un’umanità succube dei soliti pochi. Concordi?
Interessante quesito. Allora diciamo che, in primis, il nome Poliorcete secondo l’etimo greco significa ‘’assaltatore di città’’ e precisiamo subito che questo nome proprio di persona resta l’unico particolare ironico del racconto – poiché Poliorcete Visentini non ‘’assalta’’ un bel niente, anzi viene assaltato dai due poteri forti che nel 1952 comandavano in Italia e in Iugoslavia: il Partito Socialista a Belgrado e la D.C. a Roma. Ecco: io, conscio di aver creato un paradosso storico-politico, ho immaginato una congiura trans-nazionale della politica ai danni del cittadino, congiura che aveva all’epoca il fine principale di creare un cittadino dotato, contemporaneamente, di pseudodemocratici diritti e di reali incapacità individuali. Mi spiegherò: il Novecento è stato il secolo dell’uomo-massa e della massa inumana e questo individuo-disindividualizzato (come anche questa società-insociale) sono stati ‘’inventati’’ da coloro che hanno dato ai popoli delle illusioni di emancipazione del tutto, o almeno in gran parte, fittizie. L’anarchismo, oltre a non riguardarmi personalmente, non mi pare parte in causa neanche nei significati piú metaforici della vicenda che narro; invece il discorso, fra i tanti altri significati che specifico anche nella nota che ho inserito nel volume, si basa su un paio di riflessioni di fondo, queste: A) ogni forma di governo di una Nazione sul territorio è sempre parzialmente distante dai sentimenti delle popolazioni ivi residenti; B) l’uomo meditante, buono, costruttivo ed equilibrato, viene schiacciato dal prevalere delle ragioni dei piú forti ed immeditativi, perché la Storia appartiene ai violenti e agli insensibili: dietro un capo politico o partitico, come dietro ad un attore di successo o a uno scrittore di grido, si annida il tumore dell’insensibilità, dell’egoismo e della prepotenza, del non guardare in faccia a nessuno per affermare i propri voleri… la volontà di potenza, direbbe Nietzsche. Direi insomma che si tratti di una favola triste sul darwinismo sociale, sull’umanità vista pessimisticamente come tremenda lotta per l’affermazione (affermazione di uomini – culto della personalità – o di idee, poco cambia). Poliorcete, inoltre, come Ulisse cerca di tornare a ‘’casa’’ (in Italia ma solo per ottenere il premio che gli è stato promesso e poi poter tornare a Buie, in Istria, la sua unica e reale città, dove ha anche moglie e figli) e Poliorcete, dico anche, come Enea confida negli Dei del Partito Unico iugoslavo. Per capire queste ultime mie affermazioni bisogna sapere però che il ‘’giochino perverso’’ sul quale si sviluppa il racconto nasce da un contratto molto particolare (ed assurdo) stipulato fra Poliorcete Visentini di Buie e i maggiorenti del Partito iugoslavo: il contratto dice che se Poliorcete riuscirà a varcare illegalmente il confine con l’Italia entro pochi giorni, gli verranno restituite delle terre che appartenevano alla sua famiglia e gli erano state confiscate dalle autorità socialiste.
Però, e nulla voglio dire sul finale, altrimenti va a finire che nessuno legge poi questo bel racconto, in Poliorcete c’è l’unica possibilità di riaffermazione della libertà individuale nei confronti di un potere che non è al servizio dei cittadini, ma che opera in funzione di pochi. Proprio in questo senso, e per ciò che hai scritto, il problema della minoranza etnica italiana in quelle terre va ben oltre l’oppressione della stessa, ma si inquadra più in generale nell’eterno conflitto fra suddito e potere. Concordi?
Certo, su tutta la linea. Poi, a ben vedere, è molto meno tutelata, per esempio, la minoranza slovena che sta in Italia, rispetto alla nostra che vive in Croazia e Slovenia. Inoltre vorrei specificare che la lettura ‘’politica’’ del racconto non è l’unica, a mio avviso. Anzi, al di là del Kafka da te sovracitato, a spingermi a scriverlo è stato soprattutto il mio desiderio di esprimere simbolicamente la disaffezione del cittadino europeo contemporaneo per la vita e quanto riguardi la vita – i figli, i genitori, l’amore in senso estensivo, comprese dunque le Istituzioni democratiche, le quali ultime, senza l’amore e dunque anche senza la partecipazione dei cittadini, divengono dei simulacri di idee, sostenuti dagli accordi fra potentati economici e baronati. Questa disaffezione, ovviamente, è stata causata in buona parte dalla debolezza o mafiosità delle Istituzioni stesse. Tali Istituzioni si sono trovate, infatti, soprattutto in Italia, nel secondo Dopoguerra, a dover fare i conti con dei Partiti invadenti e prepotenti, accentratori di potere. Le Istituzioni della Repubblica sono state ‘’de facto’’ esautorate dei poteri reali a beneficio dei Partiti. Dunque chiedere di esser rispettati per i propri meriti soggettivi – ed oggettivi – sembra per noi italiani un miraggio: chi voglia essere rispettato deve stare ben attento a saltare sul carro dei Partiti o dei loro addentellati o succedanei. E questa situazione pazzescamente ingiusta e per niente ‘’europea’’ compí i primi passi proprio nel decennio successivo alla fine della guerra. Ossia nel periodo in cui ‘’Ginnastica d’epoca fredda’’ si svolge.
Ecco quindi che scopriamo l’autentica essenza del racconto, che va ben oltre la situazione contingente di un’epoca, ma che s’inquadra in una problematica più generale ancora ampiamente irrisolta. Infatti, da noi vige una pseudo democrazia, cioè un sistema che presenta tutti i connotati tipici di libertà, di uguaglianza e di dignità, peraltro sanciti dalla Costituzione, come mera forma esteriore, ma non nella sostanza. E a proposito di dignità è veramente bella la scelta che fa Poliorcete e che offre un motivo di interesse in più per il racconto. Poiché l’autore tende sempre a riflettere qualche cosa di se stesso nei protagonisti che crea, quanto di tuo c’è in Poliorcete?
Qui sento la necessità di bipartire la tua domanda, cioè devo darti due risposte ben distinte. Eccoti dunque la prima, riguardante la ‘’scelta di Poliorcete’’.
Orbene, per quanto riguarda la soluzione concepita dal personaggio – soluzione che giunge a compimento senza alcun preambolo solo nella scena finale del racconto – dico che questo suo aspetto ‘’eroico’’ io purtroppo l’ho mutuato solo dai miei sogni di integrità morale, non dalla mia personalità ‘’cosciente’’, ‘’reale’’, né dalle mie modalità comportamentali abituali – per quel che ne sappia io di me stesso, anzi direi per quel che io riesca a percepire di me stesso. Insomma, a esser chiari, io mi sarei mosso in altro modo, fossi stato negli infangati panni di Poliorcete, non avrei avuto la sua dignità, ne son sicuro (ma dopotutto l’arte è anche sogno di bellezza morale ed io appunto ho sognato, in questa breve storia, di essere quel che non sono ora né sarei stato nel 1952, al posto suo).
La seconda risposta, sui punti in comune genericamente esistenti fra me e il protagonista di ‘’Ginnastica d’epoca fredda’’, è invece la seguente: politicamente io e Poliorcete combaciamo appieno (stessa moderazione e benevolenza di fondo, stessa ingenuità e fiducia nella ragionevolezza e bontà della politica, seppur venate da ostinazione ad ottenere quel che una persona onesta deve ottenere a tutti i costi, anche lottando con le unghie e coi denti, se serve; insomma stesso istinto costruttivo ma non supino). Per quanto riguarda il carattere, la personalità a tutto tondo di Poliorcete, questa l’ho ideata guardando all’impavida (ed ingenua) fede negli dèi dell’Enea virgiliano e assieme prendendo in prestito la fiducia ‘’secolare’’ dell’Ulisse omerico, la sua carnalità e il suo bieco ‘’realismo’’, poi li ho fusi (in modo ammetterò improbabile) anche con la scelta esistenziale di Achille, che Virgilio stesso riporta nell’Eneide descrivendo, appunto, il dialogo fra Enea e Achille nell’Ade. Scusami ma non posso spiegarmi meglio per evitare di disvelare il finale del mio raccontuccio.
Il libro contiene anche un saggio, non meno interessante del racconto, sulla letteratura degli italiani d’Istria, Quarnaro e Dalmazia. E’ così interessante scoprire quanti autori di lingua italiana, pur abitando in terre che geograficamente farebbero parte del nostro paese, ma che politicamente lo furono solo in passato, abbiano dato un contributo non indifferente alla nostra letteratura. Breve solo per necessità, lo scritto tuttavia comprende un periodo di tempo che va dal secolo XIII a quello XX. E’ con una certa emozione che leggo di personaggi come Franco Sacchetti, Vergerio il Vecchio, Niccolò Tommaseo, Fulvio Tomizza, Giovanni Arpino, Enzo Bèttiza, tanto per citare quelli che a me sono noti, ma ve ne sono molti altri. Oserei dire che questo territorio è stato veramente fecondo di letterati, sia per numero che per qualità, un fenomeno riscontrabile solo in Sicilia. Non bisogna poi dimenticare che lì, per vivere, era necessario essere bilingui, se non trilingui. Allora mi chiedo, ma la domanda è soprattutto rivolta a te: come mai cosí tanti letterati?
A questo proposito posso solo avanzare delle supposizioni, tentare delle ipotesi. Un dato di fatto indiscutibile resta però che la Repubblica di Venezia fu la potenza politico-militare egemone dell’area dalla fine del Duecento alla fine del Settecento: per cinquecento anni essa dunque ebbe la funzione di ‘’collante’’ fra le molte etnie autoctone di quelle regioni ed isole (circa quattromila sono le isole oggi sotto sovranità croata!) e oltretutto le flotte militari veneziane difesero efficacemente la zona dalle invasioni turche; dunque ovviamente l’italiano era la lingua franca dell’Adriatico intero e sovente anche la lingua propria delle amministrazioni locali, oltre che della nobiltà. Dunque l’italiano era almeno parlato e capito da tutti gli abitanti, a partire geograficamente da Muggia – primo Comune istriano, oggi in provincia di Trieste – fino al Peloponneso – che per un certo periodo fu sotto il Leone di San Marco. Non a caso il Foscolo era di Zante, isola oggi greca.
Mi piace pensare che se l’Italia, mettiamo nel sec. XVII, fosse stata già unificata come lo era la Francia, l’Adriatico sarebbe potuto verosimilmente divenire, in seguito, una specie di nostro ‘’Commonwealth’’, dove il diritto ad esprimersi nella propria lingua fosse garantito a tutti ma l’italiano restasse la sola lingua veicolare. Da tutto ciò ne consegue che, dal Medioevo al Novecento, molti scrittori, per farsi comprendere da tutte le etnie presenti, decisero di usare per iscritto la lingua di Dante. Non secondariamente vanno notati l’apertura mentale e il favorevole approccio alla cultura propri della Serenissima – la cui politica culturale era ben diversa rispetto all’ottuso e dispotico conservatorismo di monarchie assolute italiane quali, mettiamo, lo Stato Pontificio. Se, inoltre, in tale positivo contesto le ‘’teste’’ ci sono, cioè se nascono le persone di genio… ecco che la cultura si sviluppa. In lingua italiana innanzitutto.
Sì, può essere una spiegazione logica, a cui però aggiungerei una mia ipotesi. Questi “italiani” di frontiera erano a contratto con altre etnie e l’incontro di diverse culture, quando non è oppressione dell’una sulle altre, finisce con il diventare foriero di idee nuove. Che ne dici?
Assolutamente sì Renzo: gli scambi paritetici fra diverse culture e civiltà possono avere degli effetti positivi sulla nostra sensibilità affinandola, ingentilendola, arricchendola; inoltre ampliano le vedute dei cittadini sul mondo, sulle cose e sulla natura umana, eccetera. Questo direi è lapalissiano.
Il problema sorge, però, quando queste considerazioni divengano meramente retoriche o quando favoriscano la creazione di degli abnormi ed umanamente intollerabili ‘’melting-pot’’ di civiltà, nei quali si può vedere solo la ripetizione fatta in serie di tante tremende Torri di Babele.
A mio parere gli scambi, la tolleranza interculturale, il rispetto e la difesa delle identità minoritarie presenti entro un’armonizzazione democratica sono una cosa ottima, anzi sono un obbligo istituzionale vero e proprio, ma solo purché si svolgano all’interno di una sola civiltà preponderante, ossia maggioritaria sia numericamente che filosoficamente. Invece il caos e l’assenza di baricentro sono un fenomeno che rischia l’implosione o la frammentazione, insomma il (controproducente) disordine multirazziale e multiculturale. Le conseguenze del caos sono sempre le tensioni sociali e l’irrigidimento delle componenti etniche: va evitato anzi prevenuto, quando possibile. Insomma bisogna vedere le proporzioni, i numeri in gioco e la Storia: un conto sono gli italiani, gli sloveni ed i croati autoctoni dell’Adriatico, che hanno sempre convissuto nella stessa area geografica; un conto invece è, mettiamo, il fenomeno improvviso di una valanga di stranieri provenienti da lontano che si riversi tutto a un tratto in un Paese. L’ultimo fenomeno si chiama migrazione e va ben dosato per evitare effetti perniciosi quali il razzismo e la chiusura mentale. Per concludere: sono convinto che in Italia vadano meglio tutelate alcune minoranze autoctone – come la slovena nel Friuli-V.G. – ma ci andrei piano con la concessione di diritti ‘’delicati’’ a stranieri la cui cultura d’origine sia del tutto opposta alla nostra. Immaginiamoci, per esempio, le conseguenze, in Italia, di un Partito integralista islamico che venga votato da tre milioni di cittadini musulmani e cosí conquisti un forte peso politico nel nostro Parlamento.
Fra gli autori di lingua italiana che hai nominato nel tuo saggio qual è stato, secondo te, quello che meglio è riuscito a rappresentare questa particolare condizione di extra-muros per motivi non di emigrazione, ma puramente politici?
Preferirei risponderti, Renzo, non solo specificamente riguardo gli aspetti politici della vita degli italiani di quelle terre, ma direi pensando in modo complessivo alla loro esistenza e relazioni sociali, sogni, idee, eventi familiari e di vita associativa, incluso ovviamente il problema dell’esclusione politica di cui parli tu. Ecco, cosí discorrendo il nome che a me sembra fondamentale per conoscere l’Istria è quello di Fulvio Tomizza: a mio modesto avviso il piú grande narratore istriano del secolo XX – quantunque considerabile, a livello assoluto, un minore della Storia della Letteratura Italiana, sí, ma forse anche un ‘’primus inter pares’’, cioè uno dei nostri migliori minori. Checché se ne dica, il suo ‘’La miglior vita’’ del 1977 è un ottimo romanzo-affresco istriano (v. ad vocem nel mio saggio).
So che è un po’ fuori tema, ma colgo l’occasione per farti una domanda, o meglio due domande di attualità. Ci sono ancora autori di lingua italiana in zona, magari di un certo livello? E, inoltre, ci sono case editrici che pubblicano libri in italiano in Slovenia e in Croazia?
Sì, di gente che scrive e pubblica in italiano ce n’è abbastanza anche nel 2009, nonostante la nostra minoranza si vada visibilmente assottigliando di anno in anno – mi sovvengono in primis i nomi della narratrice dignanese-polesana Carla Rotta e del critico fiumano d’origine napoletana Giacomo Scotti. Altri autori di narrativa da citare sono Nelida Milani, Marco Apollonio ed Elis Deghenghi Olujić (questa anche attiva come critica). Per la drammaturgia, poi, è di sicuro rilievo Alessandro Damiani, la guida del Dramma Italiano, che è la compagnia teatrale di lingua italiana del Teatro Stabile di Fiume. Quasi tutti pubblicano per la casa editrice storica degli italiani di Croazia, la EDIT di Fiume, che ha un’intera collana dedicata proprio alla nuova narrativa italiana d’Istria, Quarnaro e Dalmazia (‘’Lo Scampo Gigante’’).
Ogni giorno a Fiume, sempre per i tipi dell’EDIT, esce inoltre il quotidiano italiano ‘’La Voce del Popolo’’, che io ho letto per ben cinque anni quando vivevo a Capodistria – lo distribuiscono assieme al ’’Piccolo’’ di Trieste in tutta l’Istria, il Quarnaro e la Dalmazia ed è scritto molto meglio dei quotidiani italiani locali, questo lo posso garantire.
Per quanto riguarda la Slovenia, ci sono ovviamente le pubblicazioni finanziate e/o curate direttamente dalle locali Comunità degli Italiani (a Pirano, Isola d’Istria e Capodistria, i tre comuni del Litorale sloveno con minoranze italiane presenti). Ovviamente si tratta nell’insieme di editoria parzialmente assistita, sia da Lubiana o Zagabria che da Roma congiuntamente. Tuttavia l’EDIT di Fiume fa sopravvivere, nonostante le grosse difficoltà economiche, la cultura italiana in Croazia: questo è un merito oggettivo che va riconosciuto e incoraggiato da tutti noi italiani. Vi invito pertanto a visitare il sito www.edit.hr e a sostenere la nostra Letteratura in Slovenia e Croazia. Lo merita.
Un’ultima citazione è d’obbligo: Teleradio Capodistria ha dei lettori e dei redattori che parlano un italiano spettacolare, magnifico, estremamente corretto (uno per tutti: il grande Silvano Sau). Siamo insomma fortunati, nella sfortuna storica complessiva della minoranza, ad avere nel 2009 una radiotelevisione che – da quando il proprietario Berlusconi la mollò – abbia migliorato di molto le sue prestazioni, anche culturali.
Grazie Sergio e auguri di successo per questo ultimo interessante lavoro.
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Tutto bene, ma: 1. non è vero che la minoranza italiana in Slovenia e Croazia sia più tutelata di quella slovena in Italia, anzi, l’opposto; 2. Quando mai Berlusconi è stato proprietario di TeleCapodistria?