Questo romanzo è una ricerca della verità nella storia di una famiglia nel passaggio da un’epoca in cui sostanzialmente nulla mutava a un’altra dove invece i cambiamenti sono repentini, con un rimescolamento delle classi sociali tale da dare vita a dei veri e propri ibridi. Per certi aspetti mi ricorda un po’ Il Gattopardo, mentre per altri ha una sua spiccata autonomia, soprattutto per quanto concerne un’analisi, anche impietosa, di una realtà che si va evolvendo non in modo incruento, anzi con veri e propri sconvolgimenti che porteranno a una progressiva involuzione, così che il passato apparirà oscuro, o addirittura ignoto, con tutte le nefaste conseguenze che ne derivano.
Ci vuoi descrivere la genesi di quest’opera?
Quest’opera è stata concepita nell’ambito di un interesse particolare che ho sempre avuto nei confronti del territorio Nebroideo, un interesse non soltanto ambientalistico ma, anche e soprattutto, antropologico e storico.
Il solo interesse però non basta per scrivere un romanzo in cui si mettono in gioco i sentimenti e le emozioni, ci vuole la forza del cuore che traduca in parole l’amore che senti pulsare dentro tutte le volte che vedi le ginestre fiorire o le mimose crescere spontanee nel giardino di casa tua: lucide evidenze di luoghi trasformate in entità mentali e sensibili allo stesso tempo!
E’ difficile, allora, capire dove finisce la realtà e inizia il mito, ma capisci che se non ti confronti con te stessa e con i sentimenti antichi essi potrebbero diventare ossessione.
Sono sensazioni, emozioni personali che non ci si sente, per pudore, di dichiarare e gridare alle masse, che bisogna dire e non dire…ma con quale linguaggio? Ecco allora la metafora (o l’allegoria o la metonimia…) ossia la possibilità di rendersi inaccessibile a chi possiede la forma mentis del linguaggio oggettuale e non può cogliere quel che si esprime nello stile linguistico concettuale e quindi non ti può scalfire con i suoi giudizi.
Questa operazione ti permette di dire quel che senti e come senti conservando la propria integrità anche se questo riserva soltanto ad alcuni la possibilità di penetrare il significato della scrittura (e ciò potrebbe sembrare classismo) la quale, attraverso questo tessuto tropico, non perde il suo carattere pedagogico, che a differenza dell’immagine, è tacitamente finalizzata ad aiutare a capire, a conoscere e ad esplorare l’universo dell’anima propria.
Penso che oggi scrivere sia un modo di uscire dal mondo della pletorica banalità ed aiutare gli altri a provarci.
Mi sento onorata dai “certi aspetti” per i quali accosti il mio libro al Gattopardo che per me resta la pagina insuperabile della letteratura sicula-italiana attraverso cui sembra realizzarsi il sogno di Federico II di Svevia.
Comunque nel mio romanzo il tempo datato è diverso. E’ quello in cui al vossia subentra il lei ed al lei subentra il tu attraverso cui voglio segnalare tre passaggi: dal potere della nobiltà a quello della borghesia e da questo a quello delle masse anonime. Si tratta di rapidi passaggi (di ibridismi) dal mondo della razionalità a quello della complessità, dall’ordine dei totalitarismi al disordine delle democrazie e da queste all’arbitrio delle plutocrazie: punto limite per un ritorno all’inizio, come ci ricorda Gianbattista Vico e Popper ci fa intuire con la sua teoria della falsificazione storica.
E’ esatto dire che questo romanzo è in parte autobiografico?
Oggi è il tempo delle autobiografie. Ciascuno di noi aspira ad entrare nella storia. Vediamo persone che vomitano in televisione i loro fatti privati, le loro assurde vicende personali. Si sta consolidando la convinzione che la verità è quella che io, senza contraddittorio, racconto di me.
Poveri posteri quando dovranno decodificare il passato!
Detto questo devo ammettere che non esiste opera alcuna in cui non sia presente il soggetto umano che la produce.
Nel romanzo ALLA CORTE DEL NONNO MASTICANDO LIQUIRIZIA ci sono i miei pensieri, le mie idee, il mio modo di vedere le cose, le mie emozioni, che liberamente circolano nella relazione con il mondo vero o fantastico che sia, ma la vicenda non mi appartiene. Essa è esclusivamente di Isabella.
E’ una storia che il relatore al festival internazionale di Siena 2008 ha presentato “come il racconto di una Verità costruita nelle ere geologiche prima e nei millenni di storia dopo
Che ha portato al delinearsi di configurazioni storiche di destini che sono il frutto dell’interazione dell’uomo con i luoghi per i quali ciascun membro della famiglia Borgognone-Gonfalonieri è disposto a giocarsi affetti, denaro, valori pur di non perdere i luoghi dell’anima.”
Letto in questo senso il romanzo potrebbe essere autobiografico.
Mi riallaccio alla risposta alla prima domanda. In sintesi sembrerebbe trovare nuovamente conferma l’affermazione del principe di Salina laddove dice che tutto cambia per poi restare uguale. Quindi la storia è un cerchio, meglio un circolo infinito, in cui le epoche evolutive poi tracollano in involuzioni che danno luogo ad altri periodi sostanzialmente uguali. Quello che ti chiedo ora può sembrare strano: ci stiamo avviando verso un nuovo Medioevo, inteso come quel periodo di regresso immediatamente successivo alla caduta dell’impero romano? E se è cosi, potremo aspettarci una rinascita delle monarchie e magari a una disgregazione del concetto di stato come ora è concepito?
Questa domanda meriterebbe come risposta una trattazione ma voglio cominciare dicendo che mi viene difficile condividere l’idea che “le epoche evolutive poi tracollano in involuzioni che danno luogo ad altri periodi sostanzialmente uguali.”
Secondo me non ci sono epoche involute ed epoche evolute, né ci sono epoche tutte uguali ( la storia non è una notte fonda in cui tutte le vacche sono nere), ci sono epoche storiche con i loro caratteri peculiari. In esse non è mai riscontrabile una rottura radicale con il passato né con il futuro.
La storia è un continuum qualsiasi siano nelle varie epoche le sue forme politico-culturali.
La paura della vita, la negazione della felicità, l’isolamento della vecchiaia, l’ossessione della malattia, il ribrezzo della morte, l’elogio del cavaliere, l’onore del vassallaggio,la ricerca di un mondo fittizio e convenzionale, il laicismo politico sono motivi del primo e tardo medioevo eppure convivono con una cultura estetizzante, con la concezione individualistica dell’uomo faber fortunae suae che sono motivi prettamente rinascimentali,così come l’empirismo convive con il razionalismo ed il relativismo con il dogmatismo pur svincolate dalle forme convenzionali della periodicizzazione storica.
Ma cos’è che permette loro di convivere dialetticamente? Io mi rispondo che è “il volto dell’uomo” che cede alla passione d’amore (Abelardo ed Eloisa come metafora) e lotta per superare contrasti e contraddizioni.
Secondo me anche la post-modernità è tutto questo+high-teach che ha preso il posto, tra virgolette ,dell’arte rinascimentale.
In essa c’è il mondo medioevale, un mondo cattivo, di odio di violenza, di ingiustizia sociale, ma c’è anche la ricerca romantica del senso della vita, della relazione umana significativa.
E’ comunque artificioso definire un’epoca su modelli passati sperimentati un altre situazioni.
Noi abbiamo presenti tanti elementi fortemente medioevali: la globalizzazione come sostituto dell’universalismo medievale, l’impero americano, la Chiesa, la Cina (vista come gli Unni) i mussulmani ecc.. ma quel che sappiamo di certo è che il mondo attuale è in crisi, una crisi che si allunga malinconicamente nella richiesta di ordine e di regole, di pane e lavoro antiche divinità che vediamo quotidianamente morire nel ventre della globalizzazione.
Viviamo in compresenza le tragedie passate, riesumate come vessilli di vincitori, e le tragedie del mondo nuovo che con la sua mannaia abbatte credenze e sicurezze, istituzioni e riforme che la velocità del cambiamento rende illusorie e precarie.
In questo bailam non so come la Polis possa evolversi o involversi. Non so se ci sarà un Cincinnato o un Cesare, una Monarchia, o un triunvirato, ma so di certo che bisogna giocare senza maschera ai G8, così come smettere di esportare una democrazia che non è, e non perdere tempo con riforme e procedure giudiziarie che servono soltanto alla casta, non trasformare il mandato politico- istituzionale in idola tribus perché consacrato dalla maggioranza.
Urge in sostanza dare un volto all’uomo del nostro tempo.
L’impressione è che la storia si ripeta, magari con forme diverse, ma nella sostanza nulla cambia. Quindi sembrerebbe esserci un contrasto con la teoria dell’evoluzionismo, nella misura che l’uomo, rizzatosi sui piedi, in seguito non è mutato granché. Al riguardo qual è la tua opinione?
Questa domanda mi pone davanti alle leggi che presiedono allo svolgimento della storia. Si tratterebbe di entrare nell’ambito della filosofia della Storia ed il discorso si farebbe lungo e complesso, per cui sinteticamente cercherò di chiarire alcune cose.
Ci sono tante teorie della storia. Quella che chiamiamo ciclica e che esprime l’idea dell’eterno ritorno mi sembra una teoria dominata dal fato per cui essa mi risulta inceppata nella natura.
Ma l’uomo è anche cultura ed allora la teoria lineare che vede le vicende umane come una successione di novità relative, mi sembra più adatta ad esprimere la storia come processo evolutivo attraverso cui l’umanità cresce e migliora. In essa vedo l’idea di “progresso” di avanzamento morale (basti pensare che fino ad un secolo fa l’uomo della strada non sapeva cosa fossero i diritti!)senza il quale la vita mi sembra non avere senso. Anche quando pensiamo che un’epoca sia decadente, cosa che ci fa pensare alla ciclicità, secondo me è un momento di riflessione perché il processo si evolva positivamente.
Se pensiamo all’età in cui l’uomo si è rizzato in piedi come l’età mitica dell’oro di cui parla Esiodo, allora tutta la storia è decadenza e se cambiamento c’è stato esso è soltanto negativo.
Ma io non voglio pensare così.
La mia idea personalissima, ma non tanto, della Storia è quella del tipo provvidenziale.
Io ragiono così: la creazione non è un sic et nunc.
Il Genesi è un progetto che Dio ha affidato all’uomo il quale deve impegnarsi a realizzarlo. L’uomo è l’artista che deve trasformare l’esistente in opera d’arte. La creazione è opera affidata all’uomo e ne costituisce il fine che dà senso a tutto. Come l’artista l’uomo e la materia gemono per realizzare l’opera ( il dolore per me si spiega in questo senso), per dare un volto alla informe materia sia essa organica sia essa psichica o spirituale.
Ma l’uomo da solo non ce la farebbe, Dio nell’ombra lavora con lui e per lui.
Senza un fine, che poi può essere anche escatologico per chi crede, non avrebbe senso venire su questa terra per combattere contro i mulini a vento.
Nella mia vita sono stata sorretta sempre da questa idea della storia e forse per questo non conosco la depressione come malattia esistenziale ed ancora oggi alla mia rispettabile età vivo una vita attiva cercando di tradurre in atto le mie potenzialità e sperando sempre anche quando gli eventi sembrano congiurare contro di me.
E’ un’intervista molto interessante e abbiamo anche un po’ divagato, ma penso sia ora di tornare al tuo romanzo. Mi incuriosisce sapere il perché del titolo. Alla corte del nonno è più che comprensibile, ma perché “masticando liquirizia”?
Il titolo alla CORTE : perché la corte era quella dei sovrani di coloro che comandavano, ma la corte è anche la sagrestia dei rabbini ed il nonno non ha mai rinnegato le sue origini ebraiche. Essa però è una corte del tempo perso dove con le parole si vorrebbe cambiare l’Italia ed il mondo, dove quel che si dice è un pour parler, pettegolezzo, giudizi senza un minimo di verifica.
Si conduce una vita fuori dal tempo: si mastica liquirizia e si storpia la verità così come avviene oggi nella società contemporanea sotto il profilo politico culturale.
Hai realizzato il romanzo a cui tenevi tanto e che ti ha occupato – credo – non poco.
Al di là di quelli che possono essere i risultati, e che ti auguro di cuore che siano del tutto soddisfacenti, come ti senti ora che questa tua creatura è venuta alla luce? E già che ci sono ti formulo un ultima domanda: stai lavorando a un altro romanzo?
Mi sento come coloro che dopo aver fatto il proprio dovere sono in pace con se stessi. Per dovere , in questo caso intendo, avere risposto e messo in atto il mio talento anche se nella quotazione da uno a dieci, esso vale poco più di zero.
In sostanza ho fatto la mia parte e questo per me rappresenta il successo. Se poi per successo si intende far quattrini non penso che il mio libro avrà un successo di questo genere. Si sa che la cultura è il dominio di pochi (es: dei Vespa che volando possono portare i loro scritti di canale in canale), sempre degli stessi e finché ci sono loro non si ha da sperare. Non credo ai colpi di fortuna.
Adesso sto lavorando a Don Milani, il maestro della mia giovinezza, ma contemporaneamente lavoro ad un saggio sui problemi del Mezzogiorno.
Forse la mia fatica storico letteraria servirà ai miei posteri.
Io mi sono appassionata alla Storia di Sicilia attraverso un libro che ho sottratto al falò che la mia famiglia ha fatto dei manoscritti di un mio zio.
Grazie, Mela, per la piacevole conversazione. Ti saluto con gli auguri non solo di Natale, ma anche di successo per questo tuo romanzo.
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