Intervista a Carla De Angelis, autrice de I giorni e le strade


Carla De AngelisA cura di Renzo Montagnoli

– La poesia ha pochi appassionati, tant’è che molti scrivono in versi, ma pochi sono quelli che li leggono. È un ben triste destino per una forma artistica che è stata la prima, soprattutto quando ancora non esisteva la stampa e l’opera veniva trasmessa oralmente e proprio per questa particolarità doveva avere caratteristiche sue peculiari che ne rendessero possibile la diffusione. Con l’avvento del libro stampato poco a poco ha preso piede la narrativa e oggi è senz’altro preponderante. Ci si chiede allora quale possa essere l’avvenire della poesia e quanto e cosa si debba fare per salvarla.
Lei, che è una poetessa, probabilmente si è già posta una simile domanda e forse ha trovato anche delle risposte. Se è così, mi piacerebbe conoscere la sua opinione in merito.

La natura umana non può prescindere dalla poesia che a mio parere, avrà sempre un posto vitale; per i pochi che leggono? forse non è proprio così, nella Biblioteca, per esempio, “Renato Nicolini” ex Corviale dove ogni secondo mercoledì del mese si svolge l’evento “Poesia a Corviale” molte persone di qualsiasi età partecipano con entusiasmo. E’ vero, aspettano di leggere la loro poesia, comunque sono presenze importanti e interessate ad ascoltare. Oggi si scrive molto, c’è un grande bisogno di apparire e anche se si tratta di una vetrina in continuo movimento, va bene lo stesso perché è importante scrivere il tempo farà la sua distinzione e salverà ciò che vale.
La poesia ha bisogno di tempo per essere compresa e la velocità della rete non permette di soffermarsi il tempo necessario per abbracciarla. Il verso libero, va bene, ma non deve mancare la musicalità.
Non so dove va la poesia, questi tempi sono troppo volgari, tempi di sconti e offerte anche per imparare a scrivere, spero si torni al bello, alla poesia che pur trattando temi attuali non sia oscura, perché la bellezza e la limpidezza non sono solo formali hanno sostanza intrinseca che migliora chi scrive e chi legge.

– Concordo. Una poesia, anche se a verso libero, è necessario che abbia una sua struttura armonica, perché altrimenti diventa prosa, magari una prosa poetica, ma pur sempre prosa. Personalmente dico sempre che si può nascere poeti, intendendo in tal modo una dote naturale, ma che scrittori di poesie si diventa, in quanto un talento, se non è coltivato, con esercizi e studi approfonditi, rimane sempre tale, ovvero una potenzialità inespressa.
Avevo già notato il suo modo di scrivere poesie in A dieci minuti da Urano, che infatti è stato oggetto di mia recensione più che positiva. Ed è proprio per questo che mi ha incuriosito I giorni e le strade, una raccolta non tematica, frutto probabilmente di poesie scritte in epoche diverse, e tuttavia caratterizzate da una ritmicità, da un’armonia che è possibile cogliere soprattutto leggendole a voce. Sarebbe peraltro ingiusto limitare la valenza solo alla struttura, perché a parte i pensieri di volta in volta esposti presentano sovente delle invenzioni poetiche di quella che si potrebbe definire la capacità di esprimersi in modo inusuale, ma assai piacevole e indubbiamente razionale (Una vita senza l’oltraggio di una storia / è strada senza impronte /…).
E’ senz’altro vero che la poesia è piacere, ma anche fatica e tenacia. Mi dica, per cortesia, come nascono le sue poesie, si soffermi un attimo e magari si chieda la ragione del suo procedere che non di rado è invece inconscia. Insomma, può sembrare una curiosità, ma non c’è di meglio di sapere da chi le crea come si formino questi gioiellini, come si sviluppa l’idea, come si arrivi a produrre, in veste definitiva, questi versi.

So che può far sorridere , la verità è pur stando bene insieme agli altri, dialogo molto con me stessa, così accade che un avvenimento, una parola o anche una gita in autobus mi colpisca , e alcuni versi mi girino in testa fino a quando non li ho (a parere mio) perfezionati per scriverli. Poi per completare la “poesia” il tempo è più lungo; la chiusa invece arriva quasi senza cercarla. Di questo mi stupisco sempre. Leggo ciò che scrivo a voce alta, non è raro che un testo di molti versi si riduca alla metà. E’ un lavoro di ricerca della parola che mi fa star bene, al quale mi piacerebbe dedicare molto più tempo, per questo chiamo i miei lavori timidamente “poesia”.
Dopo aver scritto una poesia, la mattina seguente al risveglio ho la stessa sensazione che avevo da bambina quando ricevevo un regalo.

– Non so se sia un caso, ma capita così anche a me. Non ricerco mai una poesia, direi anzi che meno si pensa a scrivere qualche cosa, più facilmente viene l’idea, magari anche solo osservando il particolare di un’opera d’arte, o dopo lo svago di una gita. Nella mente frullano pochi versi, anzi in genere solo uno ed è da questo che, messo nero su bianco, seguono gli altri, come se fossero già stampati nella mente. E’ ovvio che quella che appare sul foglio non è la versione definitiva, ma una sorta di brutta copia, su cui di tanto in tanto ritornare per delle modifiche, per dei tagli o delle piccole aggiunte.
Mi scuso per la curiosità, ma mi è sembrato logico conoscere il metodo, se così si può chiamare, con il quale un’altra persona crea e confeziona le sue opere.
E così, se poeti si nasce, scrittori di poesie si diventa, e a ciò contribuisce in modo determinante la lettura e lo studio di poesie di altri autori. Al riguardo ognuno di noi ha i suoi preferiti, spesso per i motivi più vari. Io per esempio stimo molto Giovanni Pascoli, un uomo che alla sua epoca è riuscito a dare un’impronta nuova alla poesia, prima influenzata in modo considerevole da Leopardi; inoltre mi ci ritrovo in non poche tematiche, senza dimenticare la capacità di esprimersi in modo coinvolgente (tanto per fare un esempio, L’aquilone, pur richiamando il tema ricorrente della morte, finisce con l’essere il canto disperato del peso insopportabile della vita, esposto così bene che viene quasi spontaneo dire, a proposito del compagno di collegio morto, era meglio morire da piccoli). Sono sicuro che lei abbia letto tanto e in proposito mi viene un’altra curiosità: qual è l’autore preferito e che più ha contribuito alla sua formazione artistica e per quali motivi?

La poesia è anarchia: E’ libertà individuale./ Le sue leggi non sono quelle (False e gesuitiche) degli uomini volgari. Un poeta/che va d’accordo con il can-can degli uomini/comuni non è un poeta, è un impostore. (Luigi Bartolini). Ho conosciuto il poeta, pittore e scultore Luigi Bartolini quando avevo già la passione per la lettura e la scrittura, grazie a lui continuai a scrivere e iniziai a pubblicare. Ho sempre presente questi suoi versi come una guida.
Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli erano i miei preferiti. Della poesia che lei ha citato, mi ripetevo ininterrottamente i primi tre versi e l’ultimo; poi la lettura del Fanciullino mi tranquillizzò e l’amore per la poesia continuò e continua a farmi compagnia. Quasi per caso in una libreria sulla via Appia a Roma conobbi i testi di Lalla Romano e i classici latini (ho un diploma di ragioneria). Continuando a leggere, mi chiedevo il perché della poesia così approfondii questa mia curiosità e mi stupirono le ricerche degli psicologi e le considerazioni di Friedrich Nietzsche sui poeti.
Giacomo Leopardi ha contribuito alla mia formazione e mi sono trovata spesso a essere bastian contrario, perché affermavo e ne sono tutt’ora convinta che il suo non sia pessimismo, ma realtà pura. Non ho un autore preferito, oltre a quelli citati amo Salvatore Quasimodo, Walt Whitman, David Maria Turoldo e altri, molti contemporanei.
Ha ragione lei, c’è un autore preferito, torno sempre a rileggere Giacomo Leopardi. Molte cose che ha scritto si adattano anche a questi tempi!.

– Non conosco Bartolini, mentre gli altri sono oggetto di miei studi ricorrenti (di Whitman ho tradotto anche qualche poesia). Mi sembra di comprendere che ami anche i classici latini e al riguardo devo dire che mi sono dimenticato di mettere fra i miei preferiti anche un mio concittadino: Virgilio. Se è più noto per l’Eneide, il Virgilio che amo di più è quello giovanile, con un’opera non commissionata come le Bucoliche, che per me è il suo capolavoro. E poi ha anche poesie singole, splendidamente tradotte da Salvatore Quasimodo. Sì, Leopardi non è un pessimista, ma un realista, visto come sono sempre andate e sempre andranno le cose a questo mondo.
Ma veniamo alla sua raccolta, non tematica e per questo forse più interessante, in quanto svincolata da quei lacci e laccioli che un autore inconsciamente si pone quando vuole appunto svolgere un tema. Di Leopardi c’è qualcosa, non il suo cosiddetto pessimismo, ma una presa di coscienza che la induce a guardare la vita per quel che è, bella nella misura in cui gli altri non ce la rovinano. Direi così che il suo più che un pessimismo è un pragmatismo, cioè il vedere le cose come effettivamente sono e comunque cercare di vivere, perché l’esistenza è un’occasione purtroppo irripetibile. C’è vita e vita, o meglio ci sono tante vite quanti sono gli esseri animati e concorrono a formare la quotidianità, e poi c’è la nostra vita, la mia, la sua. Può sembrare filosofia spiccia, ma credo che anche lei cerchi di considerare l’esistenza come un cerchio chiuso in cui si raccolgono la sua presenza e quella dei suoi familiari più stretti, anche se indubbiamente ciò che accade al di fuori di questa immaginaria circonferenza condiziona il nostro modo procedere e ciò accade in maggior misura per il poeta, la cui accentuata sensibilità gli impedisce di fatto un distacco dai fatti e dagli eventi che, pur non toccandolo direttamente, generano in lui una naturale e comprensibile reazione. Non siamo di legno e per quanto cerchiamo di procedere sordi nel mondo ristretto che ci siamo dati, stragi e disastri che accadono anche in zone così lontane dalla nostra non ci possono lasciare indifferenti. E questo è un dramma da cui spesso finisce per scaturire una poesia, che diventa, oltre che messaggio, sfogo liberatorio, pur restando latente un vago senso di colpa, una malinconia interiore che ravviso in più di una sua poesia, come per esempio in Le stagioni passano, oppure come in Il poeta sa.
E’ d’accordo?

Amo la vita e la gente per quello che mi offre e per quello che riesco a dare. Sono d’accordo con lei i mali del mondo non possono restare fuori la porta e quando mi sento oppressa da notizie come mancanza di cibo, omicidi stragi sento il bisogno di scrivere; riconosco che questo aiuta solo me e solo nel momento in cui scrivo, perché poi l’impossibilità di fare qualcosa di concreto mi immalinconisce.
La mia raccolta non è tematica raccoglie le emozioni del giorno. Ho cercato la musicalità nel verso; mi piacerebbe riuscire a scrivere poesie in rima, credo che sia come il tocco finale che il ceramista ricerca per dare armonia al suo lavoro.
Continuo a leggere e a studiare i poeti latini: Virgilio, Catullo e Tito Lucrezio Caro, ma anche contemporanei.

– Scrivere poesie in rima non è certo facile, ma credo che per ottenere musicalità non sia strettamente necessario ricorrere alla metrica classica. In fin dei conti la poesia armoniosa è frutto di un equilibrio strutturale per pervenire al quale non è indispensabile che sia, per esempio, sotto forma di sonetto. A tal riguardo, per quanto generalmente non legga subito le prefazioni nel timore di esserne influenzato, questa volta ho fatto uno strappo alla regola, anche perché l’autore, Stefano Martello, è critico costruttivo e senza eccessi. Dico subito che concordo con quanto ha scritto in ordine al ricorso alla parola. Infatti, parafrasando una pubblicità, si potrebbe dire che basta la parola, quando la stessa riassume con la massima incisività e forza un concetto; non solo questo, però, poiché il termine appropriato può contribuire a creare quell’armonia che deve essere propria della poesia. Tanto per fare un esempio, la poesia di pagina 75 ( Questa borsa è troppo pesante da portare / occorre una scelta / la capovolgo sul tavolo / conserverò ciò che è importante /…) è sì indubbiamente una metafora di quel momento della vita in cui siamo chiamati a scelte irrevocabili, ma senza il ricorso a una terminologia idonea e ricercata non solo rischierebbe di essere incomprensibile, ma potrebbe scivolare in un discorso prosastico. E una felice scelta è quel portare – verbo all’infinito – che, oltre a evidenziare come l’esistenza sia un fardello, offre dinamicità e continuità al verso.
A questo punto una domanda mi è d’obbligo: la ricerca della parola avviene in automatico, cioè la stessa già nasce con la poesia, o è frutto di ponderazione successiva, e quindi degli inevitabili ritocchi?

Il mio desiderio di scrivere in rima è una sfida alla ricerca della parola che deve comunque restare legata al significato che intendo dare. Forse è una ricerca legata a una sfida con me stessa, chissà!
Affido volentieri i miei lavori all’occhio critico di Stefano Martello perché non si perde in frasi di circostanza, note critiche, ma va dritto al centro della parola.
Credo di essere fortunata perché le parole quelle, per me, essenziali nascono con la poesia; successivamente rileggo il testo e faccio dei ritocchi fin quando le sento scorrere una accanto all’altra come in abbraccio di note.
Accade che cambio di posto ai versi e aggiungo o tolgo (questo spesso) tutto quello che è ridondante o non serve.
E’ strano come i versi nascano nei momenti più impensati. Tempo fa, molto tempo fa, avevo la certezza che una parola o una frase venuta in mente, avrei potuto richiamarla in qualsiasi momento, e invece no, così ho imparato a scrivere in tutte le circostanze: mentre preparo il pranzo o la cena, al bar ecc. Mi piace scrivere con la penna su carta; solo in macchina sono costretta a fissare sul cell.
Amo la lettura e la scrittura, credo sia quanto di più bello e gratificante la vita mi abbia regalato. La famiglia è comunque sempre al primo posto.

– A leggere che quando le viene in mente qualcosa la scrive subito, dove capita, onde non dimenticare l’idea creativa, mi sono ricordato che Ungaretti faceva così e iniziò questo metodo proprio durante la prima guerra mondiale, nel fondo di una trincea, fra un combattimento e l’altro. Sembrerebbe così che questi versi, a volte anche non riletti e non corretti, nella loro spontaneità ed essenzialità abbiano dato vita a quella grande corrente letteraria che risponde al nome di ermetismo. E in effetti, per quanto risulti comprensibile di primo acchito, la sua poesia ha caratteristiche proprie dell’ermetismo, da cui tuttavia si discosta per una innata, o forse voluta, necessità di essere chiara prima per se stessa e poi per gli altri.
Ho rilevato una comunanza di approccio alla scrittura con Stefano Martello, che mi sembra un suo grande estimatore. In effetti, in un’epoca come la nostra, in cui si tende a precorrere il tempo, l’essenzialità e l’incisività sono basilari, né potrebbe aver senso scrivere come D’Annunzio, con tanti svolazzi e voli pindarici. Direi che il poeta contemporaneo è più che un sognatore un pragmatico e tale risulta pure lei, per quanto ogni tanto ci sia il verso frutto di un’invenzione poetica, sfondo tonificante di un discorso più approfondito, quasi una necessità per indurre il lettore a sostare un po’. Vede, versi come questi, riferiti all’acqua, “ …/che scenda a curare le / ferite come il canto/ del fiume per il mare /…,”costituiscono quello sfondo, di cui ho prima ho scritto, che senza nulla togliere all’idea tematica la rendono assai più gradevole da assimilare. Insomma, non abbiamo degli spot pubblicitari, né dei proclami, ma poesia che va dritta allo scopo senza dimenticarsi che per essere tale deve avere una struttura armonica a cui non poco contribuisce una sensibilità espressiva non fine a se stessa, ed è proprio questo che la rende interessante e gratificante.
Lei cosa ne pensa?

Come ho già detto nel tempo ho capito di non poter richiamare quella frase quando volevo, perché l’emozione dura lo spazio di un istante; sentivo come inganno lo sforzo di ricordare e scrivere.
Cerco di rendere comprensibile le mie poesie a me e agli altri perché lo ritengo un fatto etico. Cambio di posto alle parole o addirittura a tutto il verso, in modo che risulti più fluido e acquisti limpidezza e armonia. Quasi mai sostituisco le parole, non posso fare a meno della fantasia, mi affeziono alle parole che mi rappresentano e su quelle costruisco il resto.
La verità è che ho sempre la testa piena di sogni, poi la realtà personale e del mondo prende il sopravvento e se da un lato ho imparato a vivere con quello che ho, il mondo della fantasia non mi abbandona mai, scrivo su due binari che ogni tanto faccio incrociare.

– Considerato che pure io mi diletto a scrivere poesie, con il massimo impegno e con risultati che tuttavia non sono in linea con le mie aspettative, spesso mi chiedo se questo stilare versi non sia una facile via per analizzarmi, per scoprire quanto c’è ancora in me che non conosco. In buona sostanza, finisco con il chiedermi perché scrivo poesie e la risposta, o meglio le risposte, che variano di volta in volta, hanno più il sapore di un alibi che di un’effettiva realtà. Capita anche a lei questo e se sì, quale è la risposta più plausibile e logica alla domanda?

Per me scrivere è un impulso al quale non so resistere. Ogni volta la motivazione è diversa, non è sempre tutto amore è anche rabbia, risentimento, pentimento e divertimento. Scrivo perché mi fa stare bene, mi piace la pagina bianca che si riempie delle mie parole, è la stessa sensazione che provavo quando modellavo la creta, non sapevo quello che avrei fatto. Con la scrittura è la stessa cosa non sempre mi fermo quando i sentimenti si fanno più intimi, più forti, vengono fuori senza volerlo, poi mi chiedo: perché condivido sentimenti che sono miei? allora mi assale il timore che chi legge possa capire di me più di quanto io desideri. E’ un rischio che infine corro volentieri, forse perché la lettura degli altri mi offre un’altra possibilità per capirmi.
Però insisto la motivazione più vera è che sto bene quando scrivo.

– Forse è vero che gli umani si pongono tanti, troppi problemi e che certe domande possono e forse devono essere superflue; la vita forse sarebbe migliore se ci lasciassimo un po’ andare a quell’atavico istinto che nell’evoluzione della specie è stato invece soffocato.
“Dum loquimur fugerit invidia aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” scriveva già Orazio e quel concetto di vivere il presente è rimasto valido e sempre sarà così, ma è anche vero che il poeta è artefice e vittima della sua arte, tanto che finisce con il condizionargli l’esistenza. Al riguardo la sua naturale e accentuata sensibilità lo espone più degli altri alle circostanze del tempo, lo fa di volta in volta sentire parte integrante dell’umanità, oppure in un limbo da cui guardare il mondo e anche se stesso con occhio critico, gli impone di cercare di dare un senso alle cose e così è forse inconsciamente un po’ filosofo.
Quel “carpe diem” lo attrae e lo respinge al tempo stesso, perché chi scrive poesie è un essere senza tempo, in cui presente, passato e futuro si confondono, per lui la parola non è parte di un discorso, ma è il flusso della vita stessa, in un rapporto spesso d’amore, a volte anche d’odio.
Nel suo fondo c’è sempre un velo di malinconia che mitiga l’emozione che lo coglie quando rilegge quel foglio prima bianco e ora ricamato con le parole che in versi sono quasi esplose dal suo intimo all’improvviso ed è solo questo il suo “carpe diem”, quel saper cogliere sensazioni che di volta in volta scopre in sé, quasi un latente istinto a cui è indispensabile dare sfogo.
Di tutte le motivazioni del perché scrivo poesie questa è la più ricorrente, ma non credo che sia personale; in fondo forse è comune, magari aggiunta ad altre. Del resto non mi piacerebbe che il senso della vita fosse limitato a un semplice “carpe diem” e questo senza voler considerare gli altri dall’alto in basso. Se l’esistenza ha un senso, e lo ha, è probabilmente diverso per ognuno di noi. Personalmente sono dell’idea che questo nostro breve cammino dall’alba al tramonto debba essere compiuto assieme in armonia, cercando di conoscere gli altri attraverso una sempre più approfondita conoscenza di noi stessi e in questo la poesia è di grande aiuto.
Per lei, quale è il senso della vita?

Il senso della vita è la vita; il suo significato si rivela strada facendo; da bambina forse era vitale l’attenzione della mamma, le coccole, il mondo era circoscritto, via via che il tempo è passato ho preso coscienza della limitazione dell’ esistenza attraverso la morte, questo è stato il momento della comprensione e valutazione del senso della vita. E’ diventato importante scrivere, riempire quel tratto tra la vita e la non vita; riempirlo di parole e di gente, occuparmi di sapere di conoscere non solo quello che accade intorno. Leggere, fare domande, la curiosità è essenziale alla vita. Mi sento parte di quello che accade, a volte come attore a volte come spettatore, per questo mi piace prendere parte e organizzare eventi, ascoltare gli altri. Dalla lettura dei poeti latini ho imparato che la poesia dà un senso di continuità al tempo che passa; a volte mi sembra che la mia vita sia troppo breve a volte troppo lunga, ho un’attenzione estrema alle parole e a tutto ciò che mi circonda. Mi piace dire la verità, ma non ferire, c’è sempre un modo per dire senza offendere, la lettura di “La persona e il sacro” di Simone Weil ha accentuato la mia riflessione.
Il senso della vita è conoscersi e realizzare quanto più possibile la ragione per cui siamo al mondo, essere in armonia con tutti gli altri essere viventi, nonostante i condizionamenti esterni.

– Rilevo con piacere che in ordine al senso della vita siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Il mio timore, tuttavia, è che siamo non in molti a porci questa domanda e a darci una risposta che tenga conto non solo della nostra esistenza, ma anche di quella degli altri. Credo che se tutti procedessero analogamente il mondo risulterebbe senz’altro migliore e invece ogni giorno che passa mi spiace rilevare come imperi il trionfo dell’edonismo, la ricerca a ogni costo del successo e del potere, e questo ovviamente a discapito degli altri. Mi è rimasta in mente una poesia della silloge, Il sonno ( Mi assale spesso senza annuncio / avanza a ritroso / veste abiti antichi collane e pietre preziose / danza intorno a suoni e magiche armonie / nutre abilmente il sogno / mi sottrae al risveglio / Vuole la vita?). Vede mi sembra che il sonno, pura esigenza fisiologica, sia addirittura desiderato come una condizione alternativa e forse migliore del periodo in cui invece si è svegli. Nel sonno più che mai siamo noi stessi, sottratti alle mille influenze della quotidianità, e i sogni, che sempre l’accompagnano, sono un’inconscia riflessione sul nostro “io”. Ma il sonno vuole la vita o il sonno è la vita stessa? E qui mi viene un’opera di Pedro Calderon de la Barca, La vita è sogno, in cui la vita è intesa come un percorso verso l’autentica conoscenza, in pratica una riscoperta in tragedia della teoria della conoscenza, esposta da Platone in Repubblica. Come si vede, porsi effettivamente il problema del senso dell’esistenza è cosa antica e forse e del tutto naturale nell’uomo qualora esso voglia rifuggere dalla sua originaria animalità. Mi scuso per la divagazione e ancora riallacciandomi alla poesia sopra riportata le chiedo un’interpretazione autentica, in pratica il significato del verso di chiusura, quel Vuole la vita?, poiché credo che possa riassumere un suo pensiero fondamentale e generale.

Vuole la vita? Ho terminato con questo verso e ho tenuto per me la risposta, il lettore fornirà la sua personale. Da parte mia ritengo che nel sonno il sogno ci appartenga come vita reale e ci restituisca qualcosa di noi, quel qualcosa che i condizionamenti esterni ci tolgono. E’ difficile sottrarsi alla smania di avere, alle malattie ai dolori nostri e degli altri, all’altalenare di notizia buone e notizie e cattive che subito prendono il sopravvento.
Amo comunque la vita, l’amore, il piacere e le soddisfazioni che ognuno di noi trae da quello che fa.
Vivere è pagare un biglietto, non so per cosa e perché, sono in una ricerca continua. Vivo il sogno nel sonno come una guida appagante, così quando la sveglia suona mi girerei volentieri dall’altra parte per continuare a sognare.

– “Vivere è pagare un biglietto”. In un certo senso sì e mi pare sia stato Leonardo Sciascia a scrivere che la morte si sconta vivendo, una frase indubbiamente di effetto, ma anche notevolmente pessimista, al pari di Giovanni Pascoli che, in L’aquilone, lascia chiaramente capire che la morte in giovane età del suo compagno di collegio non è stata in fondo una sfortuna, poiché così non ha dovuto affrontare i dolori di tutta una vita. Benché in più di un individuo sia riscontrabile la fatica di vivere, sta di fatto che tutti, in prossimità della morte, cercando di restare attaccati a quella condizione di cui tanto ci si lamenta, intessuta spesso di delusioni, di insoddisfazioni e anche di dolori, ma capace, a volte, di essere gratificante di gioie, sia pure momentanee e fugaci. Poi è ovvio che ognuno è libero di interpretare come crede quel Vuole la vita?, perché non è così infrequente che lo stesso poeta si meravigli di ciò che ha scritto, frutto di un vero e proprio momento di estasi in cui quell’Io latente è riuscito a emergere.
Ci stiamo avviando alla fine di questa intervista e devo dire che mi spiace, ma d’altra parte le esigenze di Internet, la necessità di avere approcci rapidi e di leggere senza affaticarsi impone di pervenire a una chiusura. Non voglio però che sia brusca, anzi mi piacerebbe che fosse solo una pausa, sia pur non breve, e del resto, come la poesia è in continua evoluzione, così è anche parlarne di essa. Se mi consente, l’ultima domanda, che in fondo si riallaccia alla precedente, concerne una poesia della raccolta: Valico il muro ogni notte / il respiro armonizza con il corpo / che non trattiene nulla / cementa mattoni per / il futuro (o per domani?). Sembrerebbero i versi di un muratore e in effetti ognuno di noi è un muratore che costruisce la propria esistenza, ma non mi è del tutto chiaro cosa sia quel muro, che potrei interpretare come la linea di demarcazione fra realtà e sogno, oppure quella naturale difesa che ci precostituiamo quando siamo e operiamo nel mondo, difesa che con il sonno della notte viene a cadere.
Spererei che fosse in grado di darmi una risposta chiara, che quel muro che io e lei abbiamo cercato d’infrangere in questa discussione non rimanesse invece un ostacolo insuperabile.
E allora mi dica, me ne parli senza remore e laccioli.

La notte, il buio come protezione, così la divisione tra il giorno e la notte è netta; la notte il respiro obbedisce ai bisogni del corpo, segue il ritmo più giusto e si adagia, giusta ricompensa per il giorno trascorso. Il muro che valico è la divisione fra due realtà; al risveglio i mattoni servono a rendere meno profondi gli avvallamenti sulla strada e a riparare quello che si può.
“Vivere è pagare un biglietto”, lo pago volentieri, perché la conoscenza del mondo, la libertà che sento quando vado in bicicletta o mi lascio nuotare dall’acqua, (è in una poesia) l’amore, sono sensazioni irrinunciabili, per questo scrivevo che i primi tre versi de “L’aquilone” li ripetevo fra me molto spesso, anche l’ultimo, ma questo lo trovavo ingiusto nei confronti del bambino e mi metteva molto ansia.
C’è il dolore che si insinua sempre anche quando mi sento felice, è come un battito stonato che mi rabbuia e deglutisco per scacciarlo. So che fa parte del gioco, posso sempre richiamare anche una gioia provata , anche se solo nel ricordo.
Spero di aver chiarito il mio pensiero, mi mancheranno la sua bella scrittura e i suoi pensieri, mi hanno aiutato e continueranno ad essermi d’aiuto nella comprensione di me, di quello che scrivo che spesso non so nemmeno dove porta.
La ringrazio.

Ringrazio pure io, per l’interessante e piacevole scambio di opinioni.
La saluto con un arrivederci e con l’augurio di successo di questa sua ultima fatica.

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Renzo MontagnoliSito

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