LA SCUOLA DI RENZI È DAVVERO BUONA?
La verità nascosta sotto il banco
Una disamina puntuale che, capitolo per capitolo, smonta l’intero impianto del ddl “La buona Scuola” del governo Renzi, senza acredine, ma entrando con appassionata, a tratti dolente, perizia nel merito di ogni argomento del disegno di riforma
Il pamphlet di Sandra Ragionieri Scotti non è un instant book piuttosto una dichiarazione d’amore agli studenti, alla professione di insegnante, alla buona scuola, che, nel nostro Paese, continua a non essere sorretta da un progetto culturale organico di ampio respiro.
“La buona Scuola” di Renzi – ci dice tra le righe l’autrice – sembra immaginata da chi la scuola non la conosce, non è mai stato addentro alla realtà quotidiana delle classi, del rapporto studenti-professori, professori-professori, professori-presidi e in generale addentro alle dinamiche che interessano tutti gli operatori di settore coinvolti nella sua organizzazione pratica.
Ragionieri Scotti ne spiega le ragioni a partire dal piano straordinario di stabilizzazione di quasi 150.000 precari (148.100); un piano che – lasciando fuori decine di migliaia di lavoratori, i quali avrebbero invece pieno diritto di vedere riconosciuti il loro impegno e le loro competenze – rivela tutta la sua iniquità e la sua vera natura, quella di ammortizzatore sociale mirante a “sistemare dignitosamente una parte dei precari storici”; nulla a che vedere con la buona scuola, che non è fatta dal numero di assunzioni ma dalla qualità e professionalità espresse.
L’attuale disegno di riforma, inoltre, svilisce l’autonomia della scuola esasperandone gli aspetti gerarchici e agevolando una logica sempre più mercatale-privatistico-aziendalistica, logica che, lungi dal premiare il merito, incoraggia una competizione sfrenata tra docenti e tra istituti e lascia insoluta una questione che, invece, dovrebbe essere al centro di tutto, quella dell’attitudine all’insegnamento.
Il ruolo dell’insegnante non si improvvisa e, al di là dell’ampia retorica sulle competenze, non può esaurirsi nel mero arroccamento sulla disciplina insegnata: il docente dovrebbe, anzi, essere in grado da subito di selezionare contenuti essenziali allo sviluppo generale delle conoscenze e abilità dello studente e avere sempre a mente le finalità generali della sua istruzione, facendo confluire la materia insegnata in una dimensione formativa complessiva. Perciò servono insegnanti bravi, accuratamente selezionati, capaci di trasmettere con passione il loro sapere, che abbiano attitudini, doti personali e competenze non solo disciplinari, ma anche metodologico-didattiche. “Professionisti” di cui sia finalmente apprezzato il valore per la delicata e complessa funzione sociale, civile e formativa che sono chiamati a svolgere, [funzione] che deve trovare riscontro in una retribuzione adeguata, da cui oggi siamo notevolmente lontani, con o senza gli “scatti di merito”.
Assodate la passione e la capacità di fare la differenza di tantissimi docenti che guidano le nostre classi, la scuola italiana resta caratterizzata dal presidio della disciplina e – dopo la riforma Gelmini – scuola dei saperi separati tra loro, un’impostazione che non sembra venire osteggiata dal ddl Renzi con il suo Registro Nazionale dei docenti della scuola e le chiamate dirette dei professori da parte dei dirigenti scolastici. Ne emerge un “pacchetto formativo” sempre più standardizzato e schiacciato sull’apprendimento finalizzato all’inserimento professionale, a discapito dell’allenamento al pensiero autonomo e al senso critico e della capacità di muoversi in contesti diversi.
Ancora, l’alternanza scuola/lavoro nel ciclo di studi superiore, così come come prospettata dal ddl (incoraggiamento di investitori privati, inclusione di personalità provenienti dalle imprese, stage formativi in azienda) mortifica, da un lato, l’importanza dell’istruzione generale dell’alunno e, dall’altro, la valorizzazione effettiva dell’identità di ogni singolo istituto. L’attenzione al mondo del lavoro già a scuola è sacrosanta ma può e deve realizzarsi all’interno della scuola stessa, non delegando al sistema economico l’aspetto della formazione dei giovani. Il nostro è un Paese di pmi che non sono affatto attrezzate – né culturalmente né organizzativamente – a “fare scuola”, anche perché la funzione dell’impresa non coincide con quella della scuola; bisogna, invece, osare nell’applicazione dell’autonomia, attraverso il potenziamento di momenti e spazi di “didattica attiva”, che dovrebbe entrare in modo sistematico nella programmazione didattica di ciascuno dei cinque anni della scuola superiore, senza distinzione fra indirizzi di studio – seppure con differenze in termini di ore annuali a seconda che la scuola sia o no a indirizzo tecnico e professionale.
Quando, poi, nel ddl si legge che «Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze d’investimenti nella nostra scuola», è arduo non ravvedervi una resa programmatica da parte dello Stato nei confronti della scuola, sintomatica di una visione politica che, oltre a opporsi allo spirito della stessa Costituzione, si oppone allo stesso ddl: altro che istruzione e formazione da considerarsi diversi da un capitolo di spesa della Pubblica Amministrazione! Altro che “investimento del Paese su se stesso”! Altro che scuola “avanguardia, non retrovia del Paese”! Occorrerebbero, invece, più che mai investimenti pubblici consistenti, piani seri e trasparenti, in base ai quali, chi è chiamato a dirigere gli istituti, avendo la certezza delle risorse a disposizione, possa progettare, insieme ai docenti, i piani formativi e il modello di scuola più rispondenti alle proprie vocazioni.
Per tutte queste ragioni ragioni e altre ancora, urge – al di là del ddl Renzi – avviare una riflessione seria su quale Scuola vogliamo, che ne ridefinisca la sua funzione autentica; pensare a una Scuola che trovi le sue fondamenta su un disegno culturale compiuto, che dia ragione e risposta alla domanda: quali persone vogliamo formare? Un disegno che sia in grado di farci capire con quali occhi i nostri giovani saranno capaci di guardare il mondo; da cui dipende strettamente l’idea di Paese che ci apprestiamo a costruire.
Sandra Ragionieri Scotti, docente di Economia aziendale di lungo corso, prima, e dirigente scolastico poi, è stata un’energica fautrice dell’autonomia, che, dal 1994 al 2012, ha promosso e applicato a livelli avanzati in uno fra i più grandi Istituti Superiori della Toscana, dove sono stati realizzati progetti sperimentali di didattica attiva all’avanguardia. Su suo impulso è nata la Fondazione I.T.S. MITA – Made in Italy Tuscany Academy –, che ha presieduto dal 2010 al 2012.
Hanno detto de La scuola di Renzi è davvero buona?:
Non dobbiamo cadere nell’equivoco che il testo sia superficialmente polemico o distruttivo. […] Con toni apparentemente poco “antagonisti”, Sandra Ragionieri Scotti, già attiva sostenitrice dell’autonomia scolastica ed altrettanto predisposta ad immettere nel sistema elementi meritocratici, ha però evidenziato gli elementi più discutibili della “buona scuola” e le affermazioni – diciamo pure slogan – che fanno a pugni con la realtà. A cominciare dalle incongruenze del documento programmatico con le disposizioni economiche che riguardano la scuola stessa.
Lankelot
Titolo: La scuola di Renzi è davvero «buona»? La verità nascosta sotto il banco
Editore: Dissensi
Data di Pubblicazione: Maggio 2015
Prezzo: € 9.90
ISBN: 8896643481
ISBN-13: 9788896643488
Pagine: 114
Reparto: Educazione e Formazione