Mostri a più teste
A meno che, naturalmente, il caso non esista; perché allora Musa – nonostante i suoi anni e la sua condizione di servo – era semplicemente una bomba a orologeria, che continua a ticchettare sino al momento prestabilito; perché allora dovremmo -ottimisticamente – alzarci ad applaudire, dato che, se tutto è pianificato in anticipo» tutti abbiamo un significato e ci è risparmiato il terrore di saperci accidentali, senza un perché; ma potremmo anche, naturalmente — come pessimisti — rinunciare a tutto qui e ora, avendo compreso la futilità della riflessione decisione azione, perché niente di ciò che possiamo pensare può cambiare alcunché; le cose saranno come saranno. Dov’è allora l’ottimismo? Nel fato o nel caos? Era ottimista o pessimista mio padre quando mia madre gli diede la notizia (dopo che nel quartiere l’avevano già sentita tutti) e lui rispose: «Te l’avevo detto; era solo questione di tempo.» La gravidanza di mia madre era dunque, a quanto pare, predestinata; ma la mia nascita dovette molto al caso.
«Era solo questione di tempo,» disse mio padre più che soddisfatto, almeno in apparenza; ma il tempo, secondo la mia esperienza, è sempre stato una faccenda instabile, non è una cosa su cui contare. Era persino soggetto a spartizioni: nel Pakistan gli orologi erano di mezz’ora più avanti dei loro equivalenti indiani… Il signor Kemal, che non voleva aver niente a che fare con la Spartizione, amava dire: «Ecco la prova della follia di questo progetto! Questi uomini della Lega intendono svignarsela portandosi via trenta minuti! Tempo senza Spartizioni!» proclamava il signor Kemal. «È questo che ci vuole!» E S.P. Butt diceva: «Se possono cambiare il tempo con tanta disinvoltura, cosa resta di reale? Cosa resta di vero, eh?»
Sembra una giornata di grandi interrogativi. Rispondo attraverso gli instabili anni a S.P. Butt, cui tagliarono la gola durante i disordini della Spartizione e che perse così ogni interesse per il tempo: «Ciò che è reale e ciò che è vero non sono necessariamente la stessa cosa.» Vero, per me, fu sin dai miei primissimi giorni qualcosa che si nascondeva nelle favole che Mary Pereira mi raccontava: Mary, la mia ayah, che era un po’ di più e un po’ di meno di una madre; Mary che sapeva tutto di tutti noi. Vera era una cosa celata appena oltre l’orizzonte verso il quale era puntato il dito del pescatore nel quadro appeso alla mia parete, mentre il giovane Raleigh ascoltava i suoi racconti. E ora, scrivendo nella mia pozza di luce Anglepoised, misuro la verità su queste primissime cose: È così che Mary le avrebbe raccontate? mi chiedo. È questo che avrebbe detto il pescatore?… E secondo tali criteri è innegabilmente vero che, un giorno del gennaio 1947, mia madre venne a sapere tutto di me sei mesi prima che io arrivassi, mentre mio padre si stava scontrando con un re dei demoni.
Amina Sinai aspettava il momento opportuno per accogliere l’offerta di Lifafa Das; ma, nei due giorni seguiti all’incendio della fabbrica Indiabike, Ahmed Sinai rimase in casa, senza mai andare nel suo ufficio in Connaught Place, come se si stesse temprando per qualche spiacevole incontro. Per due giorni il grigio sacchetto di soldi rimase, apparentemente segreto, al proprio posto sotto la sua parte del letto coniugale. Ma mio padre non mostrava il minimo desiderio di spiegare la presenza
69
|