A tu per tu con l’autore: Alessandra Parentela e Michela Longo


Alessandra Parentela e Michela Longo ci parlano del libro Un viaggio chiamato psicoterapia.

Recensione: “Un viaggio chiamato psicoterapia. Storia di un percorso difficile, emozionante e a tratti ironico

Alessandra Parentela, Michela Longo

1. I sogni, come specificato nel libro, sono un simbolo e una chiave nel nostro inconscio, in che modo durante la terapia è possibile trovare il giusto “vocabolario” per tradurre il loro significato? Come il nostro inconscio riesce a creare delle immagini illusorie per entrare in contatto con noi?
Alessandra: I sogni sono la via regia per entrare nell’inconscio. Il nostro inconscio lavora con immagini e simboli, che giustamente tradotti, sono importanti per capire meglio il paziente. Come dice Yalom “i sogni vanno usati in modo pragmatico” e per farlo dobbiamo imparare ad estrarre da essi tutto ciò che è utile alla terapia. I sogni più importanti sono gli incubi o i sogni ricorrenti. Per prima cosa dobbiamo indagare su quali sono le emozioni provate durante il sogno. Il sogno è un serbatoio di ricordi significativi che vanno tradotti. È proprio nella notte che si sogna, l’io della persona lascia lo stato di veglia e scivola nel dormire. È in quello stato che l’inconscio, attraverso le immagini e i simboli, svela le parti più nascoste.
Michela: Durante la terapia non ho mai sognato molto, ovvero non avevo ricordi nitidi di quanto sognavo. Non abbiamo mai lavorato molto sui miei sogni, pertanto. Ricordo soltanto di un sogno che ha rappresentato la fine di un lungo periodo travagliato e che mi ha dato la spinta a voltare pagina. Non dico di più per non svelare troppo di quanto scritto nel libro, perchè proprio lì racconto di questo singolare sogno.

2. Lo psicoterapeuta ha in mano una grande arma, in altre parole tutte le fragilità che il paziente porta con sé consciamente o inconsciamente, come riesce nel giusto modo, che va oltre la teoria appresa negli anni di studi, a usare al meglio queste armi? Come riesce a toccare le giuste corde? E soprattutto come riesce il terapeuta stesso a lasciare quelle “debolezze” nel suo studio, una volta tornato a casa?
La più grande arma dello psicoterapeuta è quella di riuscire, come dice Yalom, “a guardare fuori dalla finestra dell’altro”. Deve imparare ad empatizzare con l’esperienza del paziente. Terapeuta e paziente diventano compagni di viaggio poichè sono entrambi esseri umani che si occupano di problemi essenziali dell’esistenza e devono collaborare per risolverli. Le giuste corde si toccano quando si stabilisce una buona alleanza che richiede empatia e sintonizzazione con il modo che ho il paziente di vedere il mondo e le persone. Così terapeuta e paziente sono collaboratori attivi per raggiungere un obiettivo comune che è la crescita e il benessere del paziente. Il terapeuta comunque, grazie all’esperienza di lavoro e al percorso personale fatto, riesce a lasciare i problemi nello studio senza portarseli a casa. Per far questo deve imparare a capire quando è stanco e quando ha bisogno di scaricare le tensioni accumulate. Imparare a non far entrare i problemi una volta tornato a casa è di fondamentale importanza per essere di aiuto alle persone che si rivolgono a lui.

3. Parlando di intelligenza emotiva, e del ruolo del terapeuta nel “dare forza a quell’immagine di noi che meglio ci calza”: fino a che punto noi stessi, accompagnati per mano, possiamo riuscire a individuare la giusta immagine di noi, e fino a che punto possono farlo gli altri? Lo stesso psicoterapeuta può riuscire a individuare la nostra giusta immagine?
L’intelligenza emotiva è un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare e comprendere le proprie e altrui emozioni. Nel momento in cui lo psicoterapeuta aiuta il paziente a riconoscere le emozioni e a gestirle, il paziente riesce ad estrapolare da se stesso la giusta immagine di sè. La paura, che è un’emozione, non è più dominante e permette anche alle altre emozioni di emergere. Il paziente sente le proprie emozioni, le nomina correttamente nel loro significato, riesce a regolarle sintonizzandone l’intensità rispetto allo stimolo e le usa per interagire con gli altri. Viene così allenata l’intelligenza emotiva che ci permette di individuare la giusta immagine di noi stessi “diventando ciò che siamo veramente”.

4. Nel libro si parla di disturbi quale l’ansia e la depressione esponendo come attraverso la psicoterapia sarebbe possibile alleviare i sintomi se non curare la malattia. Perché attualmente, nella cura di queste malattie non si vede una soluzione nella psicoterapia, ma si sfocia molto più spesso nel solo uso di farmaci? Quale sprint manca, secondo voi, ai professionisti nella lotta a queste problematiche? E perché la società le rigetta?
La depressione e l’ansia sono due facce della stessa medaglia. L’ansia non va eliminata ma va saputa gestire perchè quando non riusciamo a controllarla può sfociare in malattia. La depressione si manifesta con un’alterazione del tono dell’umore e con la perdita di interesse per le attività quotidiane. La persona che soffre della sindrome ansioso-depressiva preferisce andare dal medico per avere una cura farmacologica volta all’eliminazione del sintomo ma non della causa. Sarebbe invece importante rivolgersi ad uno psicoterapeuta per un trattamento non farmacologico che riporti l’ansia ai giusti livelli. Un percorso che risulterà senz’altro più lungo ma definitivo. Il concetto di percorso lungo e lento è in un qualche modo opposto a quanto viene richiesto nella società in cui viviamo oggi. Essa ci richiede infatti di rispondere in modo veloce alle situazioni, come se la velocità fosse più importante della qualità della risposta. In fondo la nostra vita risulta frenetica, l’importante è davvero quante cose facciamo in una giornata più che il come averle fatte. La psicoterapia si pone pertanto controcorrente e riteniamo quindi che questo sia uno dei motivi che non sia una pratica ancora diffusa al giorno d’oggi.

5. In un passaggio chiave, si definisce come lo psicoterapeuta non possa essere “amico”, del suo paziente. Perché, sia per il paziente che per lo psicoterapeuta deve essere fondamentale questo approccio?
Innanzitutto sul piano deontologico, come dichiara l’articolo 28 del Codice degli Psicologi, lo psicologo non può essere amico del paziente. Sarebbe infatti sconveniente per entrambi, in quanto potrebbero essere condizionati lungo il percorso da pregiudizi reciproci. Mancherebbe infatti quella giusta distanza affettiva che permette al terapeuta di mantenere una visione più lucida e obiettiva rispetto alle tematiche e ai vissuti presentati dal paziente, proprio in quanto non eccessivamente coinvolto sul piano degli affetti.
Dal punto di vista del paziente, si lotta tra la voglia e la curiosità di sapere di più del proprio terapeuta e il capire che razionalmente tale conoscenza non gioverebbe alla buona riuscita della terapia. Anzi. Ricordo da paziente, che non potevo pensare che Alessandra, la mia psicoterapeuta potesse stare male o avere dei problemi come tutte le altre persone. Come se questo andasse in un qualche modo a “sporcare” l’immagine di eroina moderna che doveva aiutarmi a tutti i costi a stare bene.

6. Appare abbastanza chiaro, già dall’inizio della seconda parte del libro, come sia difficile il rapporto fra psicoterapeuta e paziente, quindi cosa vi sentireste di consigliare a entrambe le parti, per rendere questo più agevole? Sono necessari scontri e battaglie? Oppure è possibile trovare una chiave che lo eviti?
Il rapporto tra terapeuta e paziente è unico ed irripetibile proprio per le caratteristiche di asimmetricità. Il terapeuta è una figura che è lì solo per il paziente, il suo compito è quello di comprenderlo senza giudicare ed è tenuto al segreto professionale. Quello che mi sento di consigliare per renderlo più agevole è di viverlo spontaneamente cercando di far sì che il terapeuta diventi uno specchio riflettente e rifletterà ciò che il paziente ha bisogno di vedere in lui.
Nel mio caso specifico, io e Alessandra abbiamo avuto scontri e conflitti che sono sempre risultati fondamentali per me per capire dove stavo sbagliando. Quindi un conflitto costruttivo, per così dire. Non è una regola generale in ogni caso. Come lei insegna, ogni paziente è unico, così come la sua terapia e le tecniche messe in atto dal terapeuta per aiutarlo.

7. Nel libro c’è un capitolo in cui si esprime in pieno la difficoltà nel creare un rapporto solido fra paziente e terapeuta, con tutte le paure del caso, fra cui proprio la più attuale del nostro secolo, la “dipendenza”. Ecco, cosa si può dire in relazione a questo modo di vivere i rapporti? Come è possibile scacciare la dipendenza e far avanzare la fiducia, nel rapporto e nella riuscita della terapia? E soprattutto come è possibile capire quando è giusto lasciarsi andare, come paziente e invece farlo come terapeuta? È corretto a volte rompere le righe imposte dalla “professionalità” del mestiere?
Uno dei motivi principali per cui i pazienti cadono nella disperazione è perchè non sono in grado di sostenere relazioni gratificanti. La psicoterapia è la loro opportunità di stabilire un sano dare e avere con uno psicoterapeuta empatico, uno che non ha paura di mostrare le proprie vulnerabilità e che cerca di non far cadere il paziente in un rapporto di dipendenza perchè altrimenti non lo aiuterebbe ad aver fiducia nelle proprie capacità e risorse.

8. Una vicenda affascinante è la storia del “sasso”, per cui la paziente ci rimane nettamente male per il primo “Si” divenuto poi “No” della sua terapeuta. Ecco la domanda che rimane, leggendo la vicenda è: il comportamento in quel caso era stato voluto dalla psicoterapeuta proprio per destare una reazione che avrebbe fatto capire ciò che era giusto alla paziente, oppure è dovuto solo a un effettivo cambiamento di idea? È produttivo buttare questo tipo di ami per la terapia del paziente?
Nella storia del sasso il primo sì è stato voluto e poi diventato no per vedere le reazioni di Miki che doveva imparare a gestire la frustrazione. Nel momento in cui si usa a scopo terapeutico diventa produttivo per aiutare il paziente a crescere e ad aspettare i momenti giusti che nella vita ci sono sempre.

9. La storia di Piero nella realtà è un ambito molto ricorrente perché molto spesso, si cerca un po’ a tutti i costi di portare avanti realmente o con i ricordi un rapporto così forte quanto fragile e irrazionale. Secondo voi nella terapia è un passo fondamentale quello di ricercare e rivivere quei vecchi fantasmi del passato che ci rincorrono? È fondamentale portarli ancora di fianco a noi, per poter con occhi nuovi, rivivere le vicende, oppure è un passo che è possibile in qualche modo evitare? Cioè è possibile trovare un altro modo per chiudere definitivamente con il passato?
Nella terapia è fondamentale rivivere i vecchi ricordi per riuscire a rielaborarli e viverli in modo diverso. Gli occhi del presente non sono quelli del passato e solo guardando al passato con gli occhi presenti riusciamo a distaccarci definitivamente da episodi che altrimenti lavorano dentro di noi in modo inconscio portandoci a fare scelte dettate da quell’imprinting del passato che se non elaborato continua ad agire rovinando il nostro presente. Il passato non si dimentica ma va giustamente archiviato e rivisto con gli occhi di ciò che siamo oggi.
Io credo che il passato vada risolto per poter andare avanti sereni nel presente e costruire un buon futuro. Su questo non ho dubbi. Il modo con cui fare pace con il proprio passato invece può essere diverso per ciascuno di noi. A me è servito riviverlo. Non è detto che ad un’altra persona, con un altro Piero, sarebbe servito ugualmente.

10. Inoltre ricorre spesso nel libro il tema di voler abbandonare da parte del paziente la terapia, magari in seguito da eventi (come una malattia), persone che tornano dal passato oppure da punti di vista differenti fra paziente e terapeuta, come consigliate di sconfiggere questa problematica?
La frustrazione nel paziente può generare il desiderio di abbandonare la terapia ma questo si supera proprio mettendo il paziente di fronte ai suoi limiti ed accettando la frustrazione riesce a crescere per cercare soluzioni diverse al suo vissuto doloroso. Abbandonare la terapia è voler scappare da se stessi proiettando la nostra inadeguatezza sul terapeuta. Nel momento in cui il terapeuta riesce a far capire al paziente che ha paura e si affianca al paziente, come dice Yalom “guardando dal finestrino dell’altro: cercate di vedere il mondo come lo vede il vostro paziente”, allora riusciamo a far superare al paziente la sua paura perchè solo così si sentirà accompagnato ed accolto senza timori.

11. Questo libro sicuramente, lascia una sensazione rassicurante al lettore, che dopo essere rimasto in balia delle varie tempeste emotive della paziente, ritrova anche esso la pace insieme alle protagoniste di fronte al mare. Che cosa, adesso, dopo questo “viaggio” insieme, vi è rimasto maggiormente? Siete ancora una paziente e la sua psicoterapeuta o a oggi possiamo parlare a tutti gli effetti di due amiche, avvolte anche mamme l’una per l’altra?
Il viaggio condotto insieme ci ha portato a trarre le conclusioni di fronte al mare. Un mare che è stato importante per entrambe e che ci ha sempre accompagnate, un mare che in silenzio è riuscito ad ascoltare ponendoci sempre di fronte i nostri limiti. Un mare infinito dove lo sguardo si perde e permette di trovare conforto perchè è nell’infinito che si comprende quanto l’uomo sia vulnerabile. Un mare che rilassa e distende le tensioni. Alla fine di questo viaggio il nostro rapporto è cambiato e si è trasformato in un rapporto amicale che ci ha visto alle prese con la stesura del libro e le varie presentazioni. Ci ha dato entusiasmo e tante emozioni e oggi possiamo veramente affermare come il viaggio ha cambiato il viaggiatore, ma anche il suo compagno di viaggio.

Alessandra e Michela vi ringrazio per aver risposto alle “curiosità” che ha stimolato la lettura di “Un viaggio chiamato psicoterapia” in me e spero nei lettori.

Cardinali Greta

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