di Guillermo Cabrera Infante – da Cine o sardina (Santillana, 1997)
Una citazione da Del amor si trasformò nel mio primo incontro con il cinema di Federico Fellini e la metamorfosi di Stendhal: La strada è uno specchio che si percorre durante un cammino. La pellicola nacque semplicemente da una visione di Fellini. Un giorno indugiò in una strada e vide allontanarsi un carro in un fascio di luce. Fellini entrò nel bosco e vide accanto al carro una coppia di gitani. Vicini a un fuoco i gitani, un uomo e una donna, mangiavano accovacciati e silenziosi. Finito di mangiare, la donna mise a posto le stoviglie. In tutto quel tempo non avevano detto una parola.
I critici una volta disserro che Fellini era un regista che non aveva niente da dire. Il cinema è proprio l’arte di chi non ha niente da dire. Per questo ha una grande influenza sul romanzo moderno. Cosa ha da dire, per esempio, La corazzata Potemkin? Alcuni marinai russi si rendono conto che le loro razioni, rancide, sanno di formaggio di Lussemburgo e ci sono persino alcuni vermi bianchi. Per protesta si ammutinano e chiedono un menù migliore. La conseguenza della protesta fa sì che altre corazzate, forse rifornite con cibo migliore, restaurano l’ordine zarista a cannonate. Il risultato visibile è che, come narra Borges, tre leoni di marmo soffrono mentre vanno in mille pezzi. Ci sono molti altri esempi illustri, ma perché continuare? Il cinema è composto dalla banalità di altre arti e la maggior parte delle pellicole non si possono raccontare. Proprio questa è la grandezza del cinema americano, dell’espressionismo tedesco e, – perché non dirlo? -, delle pellicole di Fellini, persino quelle basate su testi canonici come Satyricon e Le avventure di Giacomo Casanova. Otto e mezzo, per esempio, è pura forma e al tempo stesso un’esperienza garrula in un contesto assolutamente visivo. Ma è la miglior pellicola italiana degli ultimi trent’anni. I critici, ancora una volta, condannarono Fellini per aver fatto cinema autobiografico. Ma che cos’è Il cittadino Kane? Fellini seppe ampliare la sua biografia a biografia artistica, con elementi che provengono dalla sua vita e si trasformano in autobiografia.
Narrano che Fellini da piccolo scappò di casa per unirsi a un circo. Quel circo, di sicuro, è il cinema. Come Noè, il cineasta ha popolato la sua arca con diversi animali. Fellini è stato definito un blasfemo (dalla Chiesa), un reazionario (dai comunisti, da Parigi a Mosca), un misogino (dalle femministe) e alcuni maschilisti l’hanno accusato persino di omofobia per la sua versione del Satyricon. Nessuno ha mai detto, invece, che la sua visione cinematografica della vita ha soltanto due rivali: Orson Welles e Alfred Hitchcock. Il cinema moderno sarebbe diverso se non fosse esistito Fellini e la sua raccolta di grottesco visto attraverso una macchina da presa amabile e amorosa. Pellicole così diverse come All that Jazz e Radio Days, per non menzionare un quasi plagio dello stesso Woody Allen, Stardust Memories, o il finale del mediocre Honeymoon in Vegas, sono viste con la visione di Fellini. Bob Fosse morì per tempo, ma non è possibile pensare un Woody Allen senza Fellini. Sarebbe il giudeo errante alla ricerca di Bergman.
Fellini fu pigro per passione, caricaturista di professione e correttore di bozze. L’ultimo impiego gli permise di dipingere con precisione gli schiavi delle galere del Satyricon. Un bombardamento alleato gli tolse la possibilità di essere soldato del Duce (per forza), ma lo portò in quello stesso anno a sposarsi con Giulietta Masina, attrice. Il raid alleato impedì che Fellini fosse un fascista, come furono tutti i grandi registi del cinema italiano del dopoguerra. Forse è questo il motivo per cui Roberto Rossellini contattò Fellini per scrivere la sceneggiatura di Roma città aperta, pellicola dichiaratamente antifascista. La Roma reale permise a Fellini di entrare nella Roma cinematografica. Il suo cinema, a partire dalla prima pellicola diretta in coppia (con Alberto Lattuada, ndt), Luci del varietà, è personale e passionale, oltre a possiedere un grande gusto per la caricatura.
Lo sceicco bianco fu la prima pellicola di Fellini, un omaggio ai fumetti (in italiano nel testo, ndt), il vero cinema popolare dell’epoca anche se le immagini non si muovevano. Erano noti come i comistrippa (da noi fotoromanzi, ndt) una sorta di Corin Tellado (una Liala ispanica, ndt) avant la lettre. Ne Lo sceicco bianco, tra fantasie erotiche, discorsi sociali e sessuali, incontriamo per la prima volta il vero Fellini, il vero vate (in italiano nel testo, ndt). Dopo arrivò, nel 1953, il grande successo commerciale, I vitelloni, il suo memorabile incontro con Alberto Sordi che con un panino in bocca grida a squarciagola: “Lavoratori” e subito dopo emette una pernacchia che si sente ovunque. È un peccato che a causa della sua vanità (Fellini si riteneva un bel ragazzo) Sordi non fu mai il suo alter ego. Ruolo che fu del giovane e affascinante Marcello Mastroianni ne La dolce vita, la pellicola che regalò una frase al secolo e un nome, papparazzo (in italiano nel testo, con l’errore, in realtà è paparazzo, ndt), a una professione: fotografi, giornalisti pettegoli – quello che sarebbe stato il destino di Fellini se non fosse esistito il cinema.
È forse questa la mia pellicola preferita di Fellini? Anche se c’è un Cristo di cemento che lievita grazie a un elicottero e un mambo, Patrizia, che fu come un inno ai seni immensi di Anita Ekberg, La dolce risente del tempo passato e non regge una visione contemporanea. Le sue pellicole che preferisco sono Otto e mezzo, Amarcord (Proust all’italiana) e La nave va, una pellicola che è una visione dell’opera cantata da un rinoceronte. Fellini è l’ultimo dei grandi registi del cinema italiano, forse il più grande, per lo meno il più divertente e diverso. A Fellini dobbiamo rivolgere adesso il saluto di Anna Magnani, quando apre e chiude la porta nera, come nel finale di Roma: “Ciao Federico”.
Traduzione di Gordiano Lupi
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