di Enzo Maria Lombardo
Sera. Era giunta l’ora in cui i pensieri riescono finalmente a uscire dalle nicchie di abitudine e silenzio di una giornata qualunque; l’ora in cui, in questo paese, quando c’è la nebbia, nessuno passa per le strade e solo i miei fantasmi si fermano un poco oltre la vetrata, scivolano nel vialetto d’ingresso e fra gli alberi del viale, prima di sparire.
Quella sera la luce delle lampade, sulla strada, schermata dalla nebbia e dalle foglie dei platani, sembrava proprio quella della luna. E c’erano anche le stelle, quella sera. Piccole luci appese di traverso, sul viale, pulsavano forando la nebbia, e altri punti colorati scorrevano sulle vetrine appannate dei negozi nella piazza.
Io, come faccio spesso in queste sere d’inverno, ero rimasta al buio, seduta nella sedia di vimini, lo sguardo alla strada, i gomitoli di lana e i ferri in grembo, lasciando entrare nella stanza solo il lucore proveniente dall’esterno che, insieme alle lingue di fuoco del caminetto, riesce a stento a evidenziare i contorni dei mobili ma, in compenso, rende più vivi i ricordi.
Perché io vivo di ricordi e di questa finestra sulla strada.
Esco poco, ormai: sembra che solo in paese sanno che esisto perché mandano su i sacchetti con la spesa. Eppure c’era un tempo, non molti anni addietro, in cui non dovevo aspettare Natale per abbracciare qualcuno e il telefono squillava più spesso. Adesso sono io che chiamo, nelle Feste, anche solo per sentire una voce. Per il resto, anche il telefono tace, stanco delle solite frasi.
Ma quella sera una figura tra gli alberi non apparteneva al mio passato, non era un fantasma, e anche se non riuscivo a vederlo bene in viso, sapevo che era Matteo. Era suo quel cappellaccio calcato sulle orecchie, suoi quei calzoni di jeans scoloriti e quel giubbotto sgualcito.
Erano gli stessi che portava quest’autunno quando aveva coperto i meli del mio giardino con la tela, estirpato le erbacce e potato le ortensie e le rose. Ricordo che tagliava i rami con cautela, pareva soffrisse a fare quel lavoro, al punto che mi trovai a dire: Matteo, figlietto caro, potare è un male necessario, e tu lo sai. Lui, quella volta, abbassò il capo, in un cenno d’assenso, ma non rispose, e continuò a tagliare con un velo di tristezza sul viso ma con perizia, da figlio di contadini qual’era: un taglio netto, sempre verso il basso, lontano dalle gemme. Nel roseto, dopo ogni taglio, si allontanava un poco dal cespuglio e sembrava voler indovinare i nuovi rami, le nuove rose a primavera.
Ma quando tagliò i rami troppo lunghi del ficus che ingigantiva vicino all’ingresso e s’impiastricciò con il lattice che fuorusciva dai tagli, lo vidi fermarsi, guardarsi le mani e poi volgere altrove il capo come se avesse ribrezzo di ciò che aveva visto su di esse.
In paese dicevano che fosse un po’ tocco, ma in effetti era un uomo grande e grosso di quasi cinquant’anni rimasto per sempre bambino. Un bambino malamente invecchiato, quasi fuori dal tempo, rimasto a tagliar legna e a curar l’orto e i pochi animali nella vecchia cascina ai margini del paese.
Scendeva a valle, prima che albeggiasse, con il suo motocarro carico di ortaggi, di qualche bidone di latte o di legna secca. A volte lo si vedeva seduto a un tavolo del bar davanti a un bicchiere di bianco, la sigaretta in bocca, i gomiti sul tavolo e le mani strette a pugno sulle tempie, a rimuginare chissà quali pensieri. E se qualcuno tentava di scambiare con lui qualche parola, rispondeva a monosillabi o sorrideva soltanto, e il suo era davvero il sorriso triste e impacciato di un bambino.
Ora era là, addossato ad un albero del viale proprio davanti alla mia finestra, con il suo motocarro parcheggiato dall’altro lato della strada. E io ero certa che sapeva che lo stavo osservando anche se, al buio, non poteva vedermi.
Perché proprio davanti alla mia finestra? Eppure era proprio a questa che si volgeva a scatti e, a quei movimenti, il fumo della sigaretta che teneva sempre penzolante dalle labbra, si slabbrava mescolandosi alla nebbia e quel cappellaccio messo di traverso oscillava come se gli stesse troppo largo sulla testa.
– Oh, Matteo, che fai laggiù? – Gli gridai dalla finestra.
Lo vidi addossarsi ancor più all’albero, tentare di nascondersi, poi pian piano aggirò il tronco, sventagliò una mano e disse qualcosa, ma la nebbia e la distanza me la resero quasi inaudibile.
Tenni aperta la finestra e non sentivo neppure freddo anche se la nebbia gelata entrava a fiotti nella stanza. Poi dissi:
– Cosa hai detto, Matteo? Vieni su, c’è freddo. Ti preparo una cioccolata calda.
– Devo andare Signora. E’ tardi. Un’altra volta. – Disse togliendosi il cappello a mò di saluto. Poi fece un piccolo inchino. Un inchino impercettibile, un po’ goffo, e, nel farlo, quel suo sorriso da bambino gli illuminò il volto.
Ma quella sera intravidi qualcosa di strano in quel sorriso. Non era il suo solito sorriso triste e impacciato: vi era una nota diversa, che mi sembrò di poter definire “di calore”, che non gli conoscevo. Forse era una mia impressione dovuta alla nebbia e alla luce lattiginosa delle lampade, pensai, o forse Matteo sorride così quando beve un bicchiere di troppo per scaldarsi. Chissà.
Chiusi le imposte, mi allontanai dalla finestra e improvvisamente il buio di quella stanza mi apparve innaturale. Vidi i mobili più neri del nero. Il fuoco, nel caminetto, faceva oscillare orribilmente le ombre come presenze ostili. Sentii i tristi fantasmi della solitudine che mi assalivano di nuovo con forza, appropriandosi del mio spazio.
Così accesi tutte le luci, ma quella sensazione, simile a paura, non scomparve. Mi strinsi forte al petto la veste da camera e guardai ancora dalla finestra. L’aprii addirittura, per vedere meglio: oddio, cosa cercavo, cosa speravo? Una presenza, una voce, un sorriso ancora? Ma fuori non c’era nessuno. La strada deserta. Anche il motocarro era sparito.
Nebbia e nevischio mi ricacciarono indietro e mi sentii di nuovo sprofondare nel gelo che accompagna le mie giornate.
Poi vidi qualcosa in fondo al vialetto d’ingresso: confuso tra le ombre, c’era un abete in un vaso. Non era neppure troppo piccolo, svettava accanto al cancello con un fiocco rosso per puntale e, fra i rami, biancheggiava qualcosa.
Trascinai a fatica l’albero in soggiorno e lessi tra le lacrime il biglietto: una grafia infantile aveva scritto solo “Buon Natale”.
Enzo Maria Lombardo