LEI: – Continua a passare e ripassare. Sono giorni, ormai. Gira e rigira e fa finta di niente.
Ieri aveva sottobraccio un pacco di libri e uno gli è scivolato proprio davanti alla vetrina della lavanderia. Forse lo ha fatto apposta. Però poi lo ha preso da terra senza neppure alzare gli occhi verso di me. Che tipo!
Di solito passa svelto davanti alla vetrina. Quanti anni avrà? diciotto, diciannove, al massimo. Forse meno, la mia età. Andrà a scuola qui vicino, immagino. C’è un Liceo in fondo alla strada, sulla piazza.
Ma che vuole da me? Perché io lo so che viene per me. Lo sento. Che motivo avrebbe, se no, per andare così, avanti e indietro?
Non che mi dispiaccia. No, no… E’ mingherlino ma ha un bel viso, fine, delicato. Lo confesso, mi piace. E mi piacciono i suoi occhi! Grandi, belli. Azzurri. Quando passa li alza solo un attimo e guarda dentro il laboratorio. Guarda me. Un lampo, quegli occhi! E in quell’attimo, in quel lampo, io sento qualcosa… Come se mi parlasse con lo sguardo. Come se mi chiamasse… anche se non sa il mio nome.
Qualche volta addirittura sembra che lanci un grido, con quegli occhi, che chieda qualcosa, che chieda aiuto. Aiuto? A me? Perché proprio a me? Poi abbassa lo sguardo e finge di guardare l’orologio. Oggi, in mezz’ora, sarà passato tre volte e tre volte ha guardato l’ora. E’ timido, troppo timido. Addirittura impaurito. Oppure è scemo. Vuole e non vuole. Anzi vuole ma forse non ha coraggio.
E io? Vorrei capire quello che tenta di dirmi, vorrei potergli dire che mi piace. Cosa debbo fare?
Beh, intanto lascio di smacchiare pantaloni e camicie, mi alzo e mi istallo all’asse del ferro a vapore, che è proprio dietro la vetrina. Stavolta, se passa, gli tiro io uno sguardo, ma uno sguardo di quelli…
La Signora mi dice: Che fai? Finisci quel lavoro prima di stirare. Io le dico che l’acido mi fa male, mi fa bruciare gli occhi e le mani. I guanti? Non servono i guanti. E poi sono già all’asse e ho cominciato a stirare. E stiro meglio di tutte, qua dentro.
Così la Signora abbozza e, anche se non è contenta, manda al mio posto Tina, e io, in piedi, resto dietro l’asse, e mentre stiro guardo fuori.
Ora aspetto che passi di nuovo. So che lo farà. Sono curiosa? Sì, sarà curiosità, la mia, o sarà magari qualcos’altro. Chissà.
* * *
LUI: – La vedo da lontano. Ora si è messa a stirare in piedi proprio dietro la vetrina e io, passando, potrò guardarla meglio, anche se non sono sicuro di riuscire a tenere fermo lo sguardo incrociando il suo. E’ la quarta volta che passo. Stavolta mi fermerò proprio davanti alla vetrina. Devo farmi forza: mi fermerò e la guarderò fisso. Le sorriderò, anche. Sì che lo farò! Non devo confondermi, non devo avere paura, non devo far finta di guardare l’ora: soprattutto non debbo tremare.
Ieri mi è caduto un libro, proprio davanti alla vetrina. Sembrava una cosa fatta apposta e invece il libro m’è caduto davvero perché mi stava venendo un attacco, uno leggero, ma già mi tremavano le mani e le braccia e facevo fatica a respirare.
Lei si sarà chiesto chi sono e cosa voglio. Magari lo dirà alle compagne o alla padrona. Dirà: c’è uno che mi fa il cascamorto, passa e ripassa ma non ha il coraggio neppure di guardare. E forse riderà insieme alla padrona e alle altre lavoranti. Mi indicheranno mentre passo. Sentirò le loro risate anche attraverso il vetro. Ma non importa.
E se invece… se invece non avrà detto niente a nessuno e oggi mi guarderà anche lei? Se risponderà al mio sorriso?
Oddio, ho paura, ho tanta paura di sentirmi male… ma non debbo tremare adesso. No, non debbo sentirmi male! Se mi viene di nuovo un attacco mi ammazzo. Giuro che mi ammazzo.
* * *
LEI: – Eccolo che passa di nuovo! Si ferma. Tira su quegli occhi, cretino! Mi sono piazzata apposta dietro l’asse per poterti guardare meglio, per riuscire a capire. So che vuoi dirmi qualcosa. Ma cosa? E dilla, dilla almeno con gli occhi!
(…)
Ma che fa, santo dio, che fa adesso?! Sta tremando? Sì, sta proprio tremando!
Sta male, accidenti, oscilla come un ubriaco, si appoggia alla vetrina, striscia le mani sul vetro e si accascia sul marciapiede. Ma quelle sono convulsioni! Sì, muove le gambe a scatti, sta proprio male! La sua borsa si è aperta, tutti i libri sono sparsi per terra… Presto, presto, debbo fare qualcosa!
“Signora, qui fuori c’è uno che si sente male! Marietta, Tina, venite, presto, c’è uno che sta male! E’ a terra, trema tutto, ha le convulsioni, si contorce sul marciapiede! C’è già una folla. Apriamo la porta. Sì, così… così… piano… piano, portiamolo dentro, facciamolo sedere sulla poltrona. Com’è magro e leggero! E non chiudete la porta! Aria! Aria! Uno straccio bagnato sulla fronte, dite? Aceto? Forse è meglio chiamare l’ambulanza.”
“Presto Signora, telefoni! Oh, come è magro, santo cielo, e come è freddo! Però adesso ha aperto gli occhi e mi ha guardato… Aspetti, Signora, aspetti ancora un poco, non chiami, magari si riprende. Chiediamogli come si sente. Forse era solo un malore passeggero, sa, con questo caldo…”
Hai gli occhi veramente belli e grandi, troppo grandi per quella faccia minuta. Sarò pazza ma vedo un lago di dolore nei tuoi occhi. Chissà perché. Sì, sarò pazza e dentro di me sento lo stesso grido di quando mi guardi, passando. Che vuoi dirmi con quegli occhi? Sembra che tu chieda aiuto, guardando, ma io non ti capisco.
Dannazione, perché hai scelto proprio me? Una che non conosci, una che hai intravisto a stento dietro la vetrina di una lavanderia? Cosa posso fare io per te? Come posso aiutarti?
…E non basta uno straccio bagnato d’aceto.
* * *
LUI: – Il tempo si è fermato e io sono in una bolla trasparente. La vedo china sopra di me. E’ lei. Il suo viso è tanto vicino, è grande, immenso. E dolce. Sono seduto, vedo decine di vestiti che oscillano sopra la mia testa come fantasmi e sento che c’è tanta gente attorno a me. Ma lei mi è più vicina. Sento strisciare i suoi capelli sul mio viso e una mano si posa sulla mia. Qualcuno porta uno straccio bagnato e lei lo solleva e lo poggia sulla mia fronte.
Mi sento svuotato e ho freddo. Tanto freddo. Parlano di ambulanza. Sto così male? Odore d’aceto.
E’ stato un attacco forte, stavolta, chissà se potrò superare la crisi, ma ormai non ho più paura: meglio morire che vivere così. E sarebbe bello morire con la sua mano sulla mia, magari dicendo il suo nome.
Non sento neppure vergogna. Almeno non tanta, perché ho visto come lei mi ha guardato, come mi guarda: sembrava confusa o addolorata, forse è riuscita a capirmi, almeno lei, prima che il mondo si allontani ancora da me.
* * *
LEI: – Vorrei dirgli tante cose. Adesso non trema più, ma il suo viso è bianco, bianco come carta. O come marmo. Vorrei dirgli che da vicino sembra ancora più giovane e anche più bello.
Sì, tu non mi fai solo tenerezza, mi piaci. Vorrei dirti questo. E vorrei confessarti che ogni giorno aspetto che tu passi di qua e che ti fermi davanti al laboratorio. Sento che hai tante cose da dirmi e forse potrei capirti se solo potessimo parlarci…
Adesso mi viene una gran voglia di accarezzarti e di abbracciarti ma mi guardano tutte. La Signora, poi, chissà cosa pensa, quella: già mi guarda male perché ti sto troppo vicina. Pensa se ti accarezzo: mi perdo.
Ma una carezza, almeno una carezza sola, io voglio dartela. Ecco: farò finta di sentirti la fronte, proprio come si fa con un malato. In fondo hai avuto le convulsioni e sei rimasto svenuto per un po’. Hai sentito la mia mano? Vorrei chiederti almeno come ti chiami ma non posso, devo scostarmi.
– “Signora, gli ho toccato la fronte, è ancora freddo e sudato. Cosa avrà avuto per svenire così? Lei dice che è malato, poveretto? Ssst… che può sentire.”
* * *
LUI: – Vedo una faccia diversa sopra di me. Una vecchia.
Labbra troppo rosse si muovono in silenzio. Riccioli troppo biondi oscillano come serpenti quando scuote la testa. Ha il camice, somiglia a una delle infermiere anziane, a una di quelle che mi controllavano di notte. Forse sono già all’ospedale? Quel posto è quasi diventato casa mia.
No, no, sono ancora nella lavanderia, tra le lavatrici e i vestiti appesi, e vedo ancora lei. Perché ti sei allontanata? Volevo dirti almeno il mio nome. Sapere il tuo.
* * *
LA SIGNORA – “Ragazze, per favore, continuate il lavoro. Da brave. Dobbiamo consegnare la roba questa mattina. Ci penso io, qui.
E tu come stai? Mi puoi sentire? Ci hai fatto prendere uno spavento! Ma ora stai meglio, si vede: eccoti un po’ d’acqua. Sù, bevi piano e vedi se puoi alzarti. Vuoi che chiami i tuoi o un medico? Non vuoi? Davvero? E un caffè? Lo vuoi almeno un caffè bello forte? Tina, vai nel cucinino, prepara la macchinetta! No? Non lo vuoi? Eppure un caffè forte ti avrebbe fatto bene. Resta seduto, non alzarti se non ti senti.”
* * *
LUI: – “Grazie Signora, sto meglio adesso, molto meglio. E’ stato il caldo. Un malessere. No, no, ora sto proprio bene. Grazie Signora. Grazie signorine. Ho disturbato tutte voi.”
Devo alzarmi. Voglio uscire da qui. Non voglio il caffè, non voglio niente.
Ho sentito la tua mano sulla mia fronte. Credevo una carezza. Sarebbe stato bello avere una carezza da te.
Perché mi hai tastato la fronte in quel modo? Da malato. E perché poi ti sei scostata? Forse proprio perché sono malato e a una ragazza un malato fa un po’ ribrezzo, vero? Un malato non deve stare nel mondo dei sani.
Volevo almeno dirti il mio nome, sapere il tuo. Solo per ripetermelo nelle notti d’insonnia, nella solitudine della mia camera. O nella corsia dell’ospedale. Un nome, un viso, avrebbe accompagnato i miei pensieri fuori dal buio.
Sì, avevo bisogno del tuo nome e invece ho avuto una carezza, ma era una carezza sbagliata.
Enzo Maria Lombardo
Ottimo dialogo/monologo con il proprio io. Sono i cuori che parlano. Ognuno di essi sa cosa dice l’altro. Basterebbe superare una piccola soglia, il suono emesso dalle labbra, che come una cresta invalicabile ci separa, per potere agguantare la felicità, di un attimo, di un giorno, un anno o di una vita. Bravo! Me lo sono gustato rivivendo momenti lontani.
Grazie, Corrado.
Come sempre hai centrato il messaggio del mio piccolo dialogo/monologo: in effetti l’incomunicabilità tra gli esseri umani, dovuta alla “piccola soglia”, è spesso fonte d’infelicità.