di Serenella Menichetti
Era già passata una buona mezz’ora da quando Gianni, seduto sulla sabbia, davanti al mare, scrutava l’orizzonte. La forza del suo sguardo perforava la membrana che intercorre tra mare e cielo per andare oltre, fino a spingersi nei meandri dell’inconscio.
Chissà se nell’azzurrità sarebbe riuscito a trovarsi.
Intanto flash ad intermittenza gli giungevano in una sequela di immagini che avrebbe potuto sostituire tranquillamente la pubblicità, della coppia del mulino bianco:
Lui e Chiara per mano.
Lui e Chiara sorridenti.
Lui e Chiara per sempre
Affioravano alla superficie della sua coscienza, rimanendo a galla come fette di limone, in acqua tonica.
Adesso che per Federico era giunto il momento di guardare in profondità, di scorgere il fondo del bicchiere si sarebbero dovuto toglierle.
Egli da tempo, doveva capire da cosa e da dove provenisse quel sapore amaro che lo stava lentamente uccidendo.
Per lui abituato ad analizzare, scoprire, combinare elementi, il fatto di non riuscire a individuare la sostanza negativa che lo debilitava era di un’assurdità inaudita.
Un giorno in un passato lontano: di pioggia, di foglie accartocciate, di ombrelli gocciolanti, in una Chiesa Romanica addobbata di edera e di qualche gerbera bianca: Chiara e lui avevano stabilito un patto, che veniva a suggellare la loro unione.
Un vero contratto, che sarebbe stato arduo annullare.
“Finché morte non vi separi” questa frase minuscola, ma di incredibile potenza, quel giorno pronunciata da Don Enrico, rimase per lui un fastidioso campanello, il cui suono, sgradevole e inopportuno, gli ricordava spesso, di avere assunto un ruolo importante.
Ogni volta che percorreva il ricordo del matrimonio, un senso di soffocamento, come quello provato durante la cerimonia, lo stringeva alla gola.
Tedioso disturbo che attribuiva all’edera.
Certo si doveva riconoscere, quanto l’uso della pianta, fosse stato eccessivo nell’addobbo della chiesa.
Tanto che lui la ricordava nel suo salire, nell’attaccarsi all’altare, per poi scendere ed arrotolarsi sulle panche. Sfiorare le vesti bianche dei chierichetti e le mani giunte degli invitati. Nascondere i teneri petali bianchi, delle gerbere e soprattutto, avvilupparsi al suo corpo fino ad invaderlo scatenando un torpore, decisamente troppo verde.
L’edera, pianta rampicante che Chiara aveva fortemente voluto nel loro giardino, adesso rigogliosa e florida da ricoprire per intero le preziose colonne di alabastro, in realtà non era la colpevole. Anche se lui avrebbe voluto toglierla dal giardino, senza peraltro esprimere questo suo desiderio.
Uno dei suoi molti desideri inespressi, che si andava ad unire agli altri, fino a riempire l’enorme zaino, che doveva portarsi appresso.
No, l’edera in sé e per sé, non c’entrava proprio niente e lui adesso, in quel silenzio azzurro iniziava a prenderne consapevolezza
La storia del suo odio per la povera pianta, aveva le sue radici in un passato lontano. Quando ancora piccolo, ascoltando sua madre canticchiare una nota canzone degli anni cinquanta che recitava Son qui tra le tue braccia ancor-avvinta come l’edera-son qui respiro il tuo respiro-son l’edera legata al tuo cuor-rimase colpito da quella frase.
Associandola all’immaginazione che la notte veniva a disturbarlo impedendogli di dormire. Quella di due corpi avvinghiati che si rotolavano nel lettone.
Mentre, lui, da solo nel lettino, udiva sua madre piangere sommessamente, zittita dalla voce autoritaria del padre.
Ricorda che avrebbe voluto alzarsi dal letto, per correre in soccorso della genitrice. Invece rimaneva fermo nel letto senza muovere un muscolo, per non far sentire ai suoi che fosse sveglio.
Si passò una mano sulla fronte, come per scacciare quei ricordi molesti.
Adesso, più che mai che il suo pensiero doveva focalizzarsi sul presente,la sua mente continuava a declinare sul passato.
Principalmente sulla figura di mamma Clara. Una donna che si era dedicata interamente alla famiglia, tralasciando i suoi interessi.
Gli bruciava ancora il ricordo di quella volta, quando entrando in veranda, trovandola bella e felice, con i capelli ramati che le scendevano sulle spalle, la faccia arrossata e gli occhi di una lucentezza che prima non aveva notato. Davanti a lei una tela, appoggiata su un cavalletto.
La sua mano bianca e affusolata che teneva tra le dita un pennello.
Gli chiese mostrandogli un grazioso bouquet di fiori colorato: -Federico dimmi se ti piace.- Poi lo prese in braccio e lo fece girare come mai aveva fatto.
Di li a poco entrò suo padre. In un attimo dai suoi occhi si sprigionarono lampi che incenerirono, ahimé, quell’insolita, gioiosa atmosfera.
In silenzio come era arrivato, lui, uscì.
Oh, quel suo silenzio! Lo ricordava, pesantissimo,e assordante, come un rumore di vetri infranti, tanto che dovette voltarsi allarmato verso la vetrage della veranda, che immaginava in mille pezzi, per constatare, invece, che era tutto integro.
Anche se la rumorosa eco continuò, a soggiornare nell’ambiente per molti e molti giorni, ancora.
Da quel momento in poi, ho sempre visto mia madre con i capelli raccolti e lo sguardo spento, pensò guardando il mare.
Che ancora mi chiedo, se fosse veramente lei, la donna spensierata che dipingeva felice, fiori colorati sulla tela.
Oppure se quel magico momento, facesse parte di quello di uno splendido sogno.
Non glielo chiesi mai.
Ma quello scampolo di felicità, mi rimase per sempre dentro.
Comunque, che la mia fosse una famiglia esemplare, non ci pioveva.
Ai tempi, non c’era persona che la pensasse diversamente.
– I De Ferraris ? due modelli genitoriali irreprensibili, assolutamente da imitare-strombazzava la maestra Bigongiali con la sua voce chioccia.
-Grandi portatori di valori -ribadiva Don Ugo.
-Certo un’eredità importante per la prole-concludeva il maresciallo Davini.
Quando poi in casa capitava gente nuova, si approdava sempre al momento del debutto:
Mamma Clara apriva il sipario dell’orgoglio e iniziava, con il medesimo copione:
Ormai la frase le rotolava dalla bocca con una facilità sorprendente, da fare invidia all’assistente vocale del mio computer.
-Mia figlia Francesca, si è laureata con cento dieci e lode alla Bocconi. Subito dopo è arrivato il matrimonio con il suo professore di Fisica. Nel giro di due anni, due figli meravigliosi.
Abitano in un lussuoso attico a Milano, zona Tortona ed hanno una villa a Limone.
Mio figlio Federico si è laureato in chimica, vincitore di concorso a cattedra, insegna all’università degli studi di Bergamo. Sposato con Chiara, sua amica da sempre e figlia di un primario.
Adesso hanno uno splendore di figlia, Ginevra: diciotto anni, studentessa eccellente.
A questo punto si introduceva lui: Mario De Ferraris- che fregandosi animatamente le mani concludeva il programma con- -Cara gente – E’ tangibile che chi semina vento raccoglie tempesta!- Chi invece, bene semina, raccoglie sempre buoni frutti! E noi, non per vantarci ma abbiamo seminato proprio bene.
Ed io, io che padre sono stato per Ginevra? Federico non sapeva darsi una risposta. O forse una ce l’aveva:Era stato senza dubbio, un padre assente. Impegni con l’Università e impegni con il secondo lavoro gli impedivano di dedicarsi alla famiglia.
Chiara, aveva saputo fare da mamma e da babbo a Ginevra. A pensarci bene,lei non si era mai lamentata. In verità nessuno si era mai lamentato delle sue assenze.
Chiara e Ginevra sembravano felici anche senza di lui.
-Certo che sono felici Federico- gli rispondeva Bruno-
Per loro è importante la presenza, però quella del tuo stipendio, non la tua, e tu quello non glielo fai mancare.
Federico si era quasi dimenticato dell’appuntamento con Bruno, suo socio da circa dieci anni.
Guardò l’orologio, erano le 18,30 di lì a poco, sarebbe sicuramente sopraggiunto.
E lui avrebbe dovuto fornirgli quella risposta, che da tempo gli doveva.
Questa volta Bruno gli aveva dato l’ultimatum:-Dopo cinque anni che ci incontriamo clandestinamente, adesso è arrivato il momento della scelta.
“Io o la tua famiglia!”
Se avesse scelto Bruno, gli amici e i parenti cosa avrebbero pensato?
E sua moglie? E Ginevra?
Avrebbero capito, che lui per la prima volta nella sua vita, aveva incontrato l’amore.
Per Bruno, vissuto in una famiglia aperta era tutto, molto più semplice. Bruno aveva avuto dei genitori che gli avevano dato la possibilità di crescita personale.
Gli avevano regalato la libertà di guardare il mondo, con i propri occhi, senza bende.
Gli avevano permesso di sviluppare la propria individualità.
Chissà se fosse stato per questo che l’aveva subito ammirato, ed in seguito amato.
Con lui aveva ritrovato la sua dignità individuale. Adesso non si sentiva più una pedina da muovere a piacimento.
Urgeva scegliere, cercando di ferire meno persone possibili.
Federico questo se lo ripeteva spesso.
-Soprattutto non devi far del male a te stesso. Sarebbe importante che tu ti amassi, almeno un poco.- Consigliava Bruno.
In un batter d’occhio, davanti a lui, lontano laggiù all’orizzonte, dove il sole in amplesso di luce si tuffa nel mare, distinse il volto di Clara.
Quello vero, quello felice. Quello che lei aveva sempre dovuto reprimere.
Allora accadde un piccolo miracolo, la sua ansia si sciolse, sparendo tra i flutti.
Federico finalmente si sentì, persona capace di prendere in mano la propria individualità per condurla, là dove non sarebbe stata mai più violata.
Proprio per questo scelse, Bruno.
Serenella Menichetti