Solitudine di Enzo Maria Lombardo 2


di Enzo Maria Lombardo

Mariolino Quarnara aveva undici anni quando si ammalò di dentro ma non fu curato bene perché sembrava malato, sì, ma non nell’anima.
Era, infatti, troppo gracile e smunto e i suoi capelli biondi e un po’ ricci, gli incorniciavano un viso di colore slavato e olivastro, che gli dava un’aria sofferente. Occorreva scrutare bene dentro i suoi occhi tristi, troppo chiari, quasi trasparenti, per poter scoprire, in fondo, l’anima martoriata.

Quando Mariolino si ammalò cominciò a sentire le voci. Dapprima erano voci sottili che non dicevano niente. Sussurravamo e basta. Quasi un suono modulato e insistente. Suoni di nulla.
A volte, oltre ai sussurri, Mariolino, di notte, sentiva gridare. L’incubo sbiadiva lentamente e svaniva del tutto quando arrivava sua madre, con il viso teso e gli occhi sbarrati.
“Mariolino, Mariolino, perché gridi? Che hai? Hai l’attacco?”
Lui non lo sapeva cos’era “l’attacco”. Però sua madre ne aveva paura e pian piano si abituò ad averne anche lui.
Lo temeva, quell’attacco. Se l’aspettava come una cosa atroce e dolorosa che doveva colpirlo senza pietà. Magari domani. Magari nel sonno, a tradimento.
“No, mamma, non ce l’ho l’attacco. Sentivo gridare.”
“Sognavi, Mariolino. Sognavi. E ti scopri tutto scalciando come un mulo. Magari hai la febbre. Fai sentire…”.
Una mano fredda si posava sulla fronte di Mariolino, la tastava ben bene scivolando da una tempia all’altra, in una specie di rito che si concludeva sempre con un: “E’ calda, è calda…”
Le voci tacevano, allora, sommerse da quella della madre. I colori del sogno diventavano più sbiaditi e restava solo il fresco della benda bagnata d’aceto sulla fronte, l’odore pungente e piacevole che gli pizzicava il naso e il duro del termometro all’ascella.

Ma l’aceto e le medicine non potevano guarirlo.
Mariolino avrebbe voluto capirli quei sussurri e quei suoni disperati e cupi che gli rimbombavano nel cervello e fermarli anche, prima che svanissero. Questo pensava accoccolato in una posa fetale con la coperta che gli copriva gli occhi, riportando la notte.
E così Mariolino cominciò a guardarsi dentro, e quando, prima di dormire, le voci ricomparivano, lui tentava di seguirle con una parte del cervello già semiaddormentata. Le seguiva in un percorso immaginario, tortuoso, ogni volta con più dettagli.
Le seguiva strisciando furtivo su muri di pietra coperti di muschio, interrotti da cancelli di ferro che portavano a case i cui tetti spuntavano oltre le siepi alte. Le seguiva su strade e piazze sconosciute e deserte dove di tanto in tanto si fermava ad ascoltare.
Li sentiva, quei sussurri rancorosi, spingersi sopra gli alberi dei viali, mescolarsi allo sciacquio delle fontane, cantare assieme agli zampilli d’argento e vibrare con i riflessi della luna nell’acqua.
Poi, quando i suoni svanivano, anche le strade e le piazze scomparivano lasciandolo esausto e tremante tra le lenzuola bagnate di sudore.

Una notte, poco prima di cedere al sonno, gli sembrò che le voci diventassero un poco più forti e più chiare (ma sempre incomprensibili) e immaginò di non essere a letto, ma fuori casa, nel viale alberato, proprio sotto il suo portone, nascosto tra le macchine parcheggiate.
Da lì poteva vedere senza essere visto e soprattutto poteva ascoltare le voci che fluivano dalla finestra del salotto, lasciata socchiusa. Come in un gioco.
A poco a poco, alcune voci gli divennero familiari e qualche parola gli parve addirittura comprensibile.
Erano parole smozzicate e cupe. Di suo padre e sua madre. Parole concitate, gridate in sordina. Erano sibili più che parole: una parola però, detta da sua madre, era rimasta intatta vibrando nell’aria della notte, chiara e sibilante, destinata a vagare nell’oscurità, oscillando tra i rami degli alberi: “VATTENE!”.
Dura e tagliente come una lama sottile quella parola sembrò vorticare, ruotando tra i grossi tronchi del viale, tranciando le foglie al suo passaggio che caddero come pioggia. Dura e tagliente, la vide conficcarsi come un coltello tra le pietre del selciato, vibrando: “VATTENE!”.
Poi più nulla. Solo un senso di panico e di solitudine: e a questo nulla e al silenzio improvviso della notte, Mariolino gridò.
Si figurò sommerso dalle foglie cadute e faceva fatica a respirare. Gli alberi che conosceva bene e che erano suoi amici erano improvvisamente diventati neri e spogli, e la bella strada con le poche macchine colorate fra gli alberi ora gli faceva paura, anch’essa nera e con i fanali oscurati e tutta coperta di foglie fredde e morte.
Sempre gridando Mariolino si svegliò, avvoltolato tra lenzuola e coperte bagnate, e restò lì, ansimando e cercando di capire, mentre una paura cosciente gli mordeva il ventre e gli irrigidiva le gambe.
Perché quella parola, era ancora nell’aria della stanza: la sentiva rimbalzare piano tra le pareti, la vedeva quasi materializzarsi sul soffitto, scendere sul letto come una coltre opprimente, soffocante.

– “Mariolino, Mariolino. Calmati Mariolino. Hai sognato. Non è niente.”
Mariolino aveva l’impressione che la madre volesse spazzarla via, quella parola, dalle pareti e dal soffitto. Cancellarla dalla coperta che l’avvolgeva come un bozzolo, disinfettare l’aria che ancora vibrava di paura, togliendogli la possibilità di capire.
“Perchè l’hai detta quella parola, mamma?” – voleva dire Mariolino – “E’ una parola cattiva, terribile. Una parola che fa restare soli. Perchè l’hai detta? Entra nella testa e non ne esce. La fa scoppiare.”
Ma non disse nulla Mariolino.
Guardò sua madre con gli occhi sbarrati, ora sveglio del tutto, tentando di calmare il proprio respiro affannoso.
– “Non ho avuto l’attacco, mamma, – la prevenne Mariolino – vedi che non tremo?”
Seduta sul letto sua madre cominciò a toccarlo sulla fronte, tirandogli con una mano le coperte fino al mento.
– “Certo che non hai avuto l’attacco, Mariolino. Devi solo stare calmo.”
– “E se mi viene di notte?”
– “L’attacco?”
– “L’attacco.”
– “Devi solo stare calmo e prendere le medicine. Vedrai che non ti viene. E se ti viene poi passa.”
Mariolino voleva quelle parole e insieme ne odiava il suono. Erano parole rassicuranti a cui aggrapparsi per non essere spazzato via come una foglia al vento ma erano anche uno schermo opaco attraverso cui riusciva a vedere solo ombre confuse.
Sentiva, Mariolino, il sottile piacere di essere accarezzato, il piacere di essere visibilmente malato e importante per sua madre e insieme si chiedeva, ad un livello diverso della coscienza, perchè mai doveva essere così malato dentro, così diverso dai suoi compagni, così solo.

– “Mamma, mi passerà davvero?”
– “Prima dell’estate ti passa. Lo ha detto il dottore. Non l’hai sentito?”
– “Perché prima dell’estate?”
– “Deve fare il suo corso.”
– “Così perdo scuola, mamma. E i compagni.”
– “Non perdi niente, Mariolino. I compiti li fai e i compagni li troverai l’anno prossimo o te ne farai degli altri. E poi i tuoi compagni vengono a trovarti a casa, non è lo stesso?”
La madre aveva già inzuppato la pezza bagnata d’aceto e una fresca sensazione accompagnò la risposta.
Non è lo stesso – pensava Mariolino. A scuola Moratti e Sanfilippo erano compagni, con cui giocare, fare a pugni, scambiarsi le figurine, rubarsi la merenda. Qui, a casa, venivano per pietà. Sorridevano per pietà. Non erano compagni di scuola e neppure amici. Ti portavano i compiti da fare e basta. Due minuti e via. Nessuno vuole giocare con uno che è malato e trema tutto…
No, non aveva compagni né amici.
O almeno non erano quelli i suoi amici.

Perché un amico ce l’aveva. Uno vero, con cui giocare e volersi bene. Uno che non veniva vicino per pietà, ed era Nico, il suo cane.
Anzi era il cane di suo padre, ma ora che suo padre era andato via, Nico era tutto suo. Un bel cane grosso, con la coda e le orecchie da pastore, ma il muso no, era ancora più bello di quello dei cani di razza.
Ed era tutto suo perché solo lui gli voleva bene in quella casa.
Nico era mal sopportato da sua madre. ”Se lo poteva anche portare, tuo padre, quel bastardo” – continuava a ripetere. “Bel regalo mi ha lasciato: poteva anche farne a meno! – diceva – Solo perché ci sei affezionato…se no… ”
La lasciava sempre in sospeso, quella frase. Non diceva mai che l’avrebbe cacciato via, quel cane, ma tuttavia quella remota possibilità restava.
Così Mariolino sentiva il dovere di proteggerlo, il suo Nico. E, quando non stava troppo male, nascondeva i peli lasciati sui tappeti, sfregava le orme lasciate sulla cera dei pavimenti, curava la cuccia nel giardino e gli dava da mangiare biscotti e cioccolata di nascosto.
Lo rimbrottava, anche, tirandoci su una di quelle grosse orecchie e gridandoci dentro le cose che non doveva fare.
* * *
Poi un giorno Mariolino, si aggravò. Sudava di continuo per la febbre e si acuirono i tremori alle gambe.
Anche i due compagni di scuola furono allontanati o evitarono di venire a trovarlo e Nico venne esiliato in giardino.
Unica presenza, oltre la madre, il vecchio medico di famiglia che veniva spesso “a vedere i miglioramenti”, come diceva. Ma poi parlava fitto fitto con sua madre, sull’uscio di casa, prima di andar via, troppo piano per poter sentire.
– “Forse facciamo un viaggio, sai, Mariolino. Un viaggio a Genova.” – gli disse un giorno la madre con un sorriso forzato dopo avere accompagnato il medico alla porta.
-“Dov’è Genova?”
-“E’ lontano, al nord. E c’è un posto, in quella città, dove potrai guarire completamente”.
-“E Nico?”
-“Nico lo lasci. Non muori se non lo vedi per quindici giorni. Ci penserà Teresa.”
“E invece sì, – pensò Mariolino – posso morire senza vedere Nico e morirà anche Nico senza di me. Teresa lo lascerà crepare di fame in giardino.”
E così, d’impulso, si mise a chiamarlo, a chiamarlo sempre più forte finché quel nome diventò un urlo e si sentì raspare la porta del giardino. Nico voleva entrare.

La madre strabuzzò gli occhi, il viso improvvisamente duro.
– “Nico deve restare fuori, lo capisci? Quel cane schifoso ti può fare aggravare, lo ha detto il medico. Non è igienico, lo vuoi capire?”
Il cane continuava a raspare, furiosamente, e si sentivano i guaiti sin da laggiù.
– “Com’è vero Iddio se quel cane entra in camera lo butto fuori di casa” – La voce della madre era bassa, tagliente, implacabile.

Era questa la frase che Mariolino temeva, ed era una frase non del tutto nuova per lui. Almeno nel tono, cupo e minaccioso, gli sembrava di averla sentita più e più volte, anche durante le sue fantasie notturne alla scoperta delle voci e dei sussurri incomprensibili.
Forse era questo il tono che si mescolava al rumore delle foglie dei viali, che aleggiava nell’aria coprendo la luce della luna, che rendeva buie le piazze e neri i zampilli delle fontane?
Era questo il tono del ricordo di una notte che voleva cancellare, di quel ricordo feroce che si trasformava in un peso inconcepibile sotto cui l’anima schiacciata gridava, gridava, gridava…?

Al raspare furioso di Nico si sostituì improvvisamente uno scalpiccio sui pavimenti lucidi di cera, uno zampettare ansioso, un guaito sommesso. Poi Nico si precipitò nella stanza e, ignorando la madre sbigottita, saltò sul letto e prese a leccare la mano di Mariolino, cercando con le zampe il suo corpo nascosto dalle coperte, quasi a volerlo proteggere e abbracciare.
Poi il tempo rallentò e Mariolino vide, come in un film alla moviola, gli occhi della madre farsi stretti, il biancore dei denti fra le labbra stirate e il rosso della lingua e restò in attesa. La vide aspirare l’aria quasi a riempirsene i polmoni per prepararsi ad un unico urlo, il braccio stendersi, un dito puntare sul cane che ora si era steso completamente sul suo corpo, quasi a fargli da scudo.
E l’urlo arrivò insieme a quella parola che vorticava sempre nei suoi strani incubi notturni ad occhi semiaperti e che ora sentiva chiaramente, con lo stesso tono e la stessa forza di quella notte di qualche tempo fa: “VATTENE!”.

E mentre Nico scendeva, quasi strisciando, dal letto, le orecchie penzoloni e la coda invisibile tra le zampe, per accucciarsi nell’angolo più distante, Mariolino cominciò a tremare.
Ma non era l’attacco, era di nuovo panico e solitudine.

Enzo Maria Lombardo

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2 commenti su “Solitudine di Enzo Maria Lombardo

  • Corrado S. Magro

    Mareggiando tra allucinazione e realtà, l’onirico rende a quest’ultima la forza di fare parte dell’Universale, dove l’essere attinge tutte l’energie desiderate e richieste e che si riflettono in persone, animali o cose a sua portata. Un racconto fluido che si legge bene