A cura di Augusto Benemeglio
1. Storia di un verme e la sua Mela
C’è un incanto nei racconti di Marco Oronzo Pompilio , scrittore salentino dell’ultimo scorcio dell’800 ( era forse originario di Campi da cui emigrò giovanissimo per andare a New York a “fare il cittadino del mondo/ ed essere come il verme / un tutt’uno con la sua Mela”) autore di una raccolta di liriche epigrammatiche , “ Storia di un Verme e la sua Mela” , che non mancano di doppi sensi e ironia: “ Come è dolce morire/ suggendo il polposo frutto/ dall’interno e vederlo/ giorno dopo giorno marcire!”.
Emigrò in America probabilmente nel 1893 , quando era ragazzo facendo un po’ tutti i mestieri , garzone di fornaio, aiuto maniscalco , strillone , acrobata , guardiano di mandrie e s’innamorò perdutamente di Henriette Becker Stowe, la celebre autrice del romanzo “ La capanna dello zio Tom”, di vent’anni più grande di lui e già felicemente sposata. A forza di leggere i suoi libri imparò la lingua e , per dimenticare quest’amore del tutto platonico e adolescenziale , decise d’imbarcarsi su un cargo e girare un po’ il mondo ( più che altro vide gli scali marittimi , i porti , le bettole e le puttane dei luoghi del mondo ) e alla fine sbarcò in India , a Bombay .
2. Protettore di geishe
Nella terra più mistica e povera della terra conobbe un fachiro, ne fu attratto irresistibilmente e lo seguì, ma non imparò mai a dormire su un letto di chiodi e a sopportare eserciti di pulci . Per cui abbandonò il fachiro e visse di espedienti facendo i più strani mestieri. Fu avventuriero e perfino cacciatore e venditore di serpenti ; infine conobbe una anziana vedova giapponese assai ricca , che dirigeva una teoria di bordelli , le andò dietro , e visse per qualche anno da lenone e mantenuto, fino a quando si mise per conto proprio e divenne protettore di giovani geishe , diventando ricco e grasso.
A quarant’anni , Marco Oronzo Pompilio , si sposò con una vedova di Tokio di trentacinque anni e si trasferì nella megalopoli giapponese, scoprendo le piacevolezze del dolce far niente , l’arte del silenzio , e la lettura.
3. Emily Dickinson
In una missione cristiana aveva trovato la Bibbia e alcuni libri scritti in inglese ; li divorò in poche settimane , e ne fece ordinare molti altri dal missionario americano; leggeva un po’ di tutto, romanzi, libri di storia, filosofia, religione , scienza, botanica, saggi di letteratura, trattati politici e sociali; leggeva senza nessun metodo , disordinatamente, avidamente , con rapidità incredibile . S’immergeva talmente nella lettura da dimenticare perfino i pasti. Il piacere della lettura fu per lui una scoperta formidabile , una cosa meravigliosa, un incanto, un innamoramento vero e proprio… Fu in questa fase che un amico gli mandò un libro raro di poesie di Emily Elizabeth Dickinson e lui si innamorò perdutamente della “signorina vestita di bianco” , come gli era successo da ragazzo con la Stowe Becker. Chiese notizie di lei , voleva conoscerla a tutti i costi e non si placò fin quando non gli dissero che era morta da una trentina d’anni in una piccola città, Amherst, del Massachuttes, trascorrendo l’intera esistenza nella casa paterna , rimanendo confinata negli ultimi vent’anni nella sua stanza. La pianse molto, come se fosse stata la propria fidanzata.
4. Sette anni di scrittura
Dopo la fase della lettura passò a quella della scrittura: cominciò a scrivere poesie e racconti, disordinatamente , ossessivamente , senza un programma, uno scopo ben definito , ma ne aveva bisogno . Per sette anni non aveva fatto altro che leggere; ora per altri sette anni non fece altro che scrivere, di giorno, di notte, in quaderni che si era fatto mandare apposta dall’Italia , insieme a grammatiche e dizionari nell’intento di recuperare la sua lingua natìa , ma alla fine scrisse in inglese, con una calligrafia minuta, sottilissima, quasi femminea. Gli bastava una matita ben appuntita e una bottiglia di sakè . Pompilio scriveva a qualsiasi ora, in qualsiasi momento, certe volte si svegliava la notte e si metteva a scrivere; veniva l’alba , s’alzava alto il sole, si faceva nuovamente sera e lui era ancora intento a scrivere….Si fermava a rileggere solo dopo aver riempito pagine e pagine….La rilettura la faceva dopo aver mangiato un boccone ….Non fece mai leggere niente a nessuno, né lo sfiorò mai l’idea di pubblicare i suoi scritti …ma una volta che venne una compagnia teatrale italiana a Tokio andò a trovare la prima attrice e , insieme ad un mazzo di rose rosse , le donò una manciata di quei suoi fogli che contenevano poesie , con tutte le correzioni . Verso la fine della sua vita dissoluta ( morì per cirrosi epatica alla vigilia del suo cinquantaquattresimo compleanno ) diede un titolo a ciò che aveva scritto in prosa e in poesia . Erano una trentina di quaderni: due di poesie, che intitolò “La mela e il suo verme” , mentre i ventotto di prose furono intitolati “ I racconti del miele di Tokyo”, in cui ci si immerge in un mondo esotico e affascinante , ma completamente nuovo, sconosciuto e si capisce abbastanza presto che il miele di Tokio sono le donne della megalopoli giapponese. Ci si accorge anche che Pompilio , con la sua fantasia trascinatrice , spinge il lettore in una dimensione inquietante , che ha qualcosa di perverso. E se il lettore si lascia catturare da quel quid che non dà requie , per lui è finita. Non avrà più pace. Non chiedetemi di spiegarvi che cosa sia esattamente. Non lo so. E’ sicuramente qualcosa di torbido, di sensuale, dolciastro, sfuggente , misterioso e pauroso come una lama nel buio, qualcosa che ti crea più di un imbarazzo ma che non puoi fare a meno di leggere.
4. Per me la donna è tutto
E’ quello l’incanto di cui parlavo all’inizio. L’arte , il fascino della narrativa pompiliana è di un genere diverso da quello della poesia o dello sguardo: è fatto di fremiti che nascono da una materia che ha qualcosa di sensuale e di celeste allo stesso tempo. Difficile trovare i termini. Si direbbe che le sue pagine vogliano comunicarci delle sensazioni, farcele depositare nella carne dopo la lettura.
I suoi racconti alla fine, però, riescono ad avvincere anche il lettore più smaliziato e il critico più esperto, perchè hanno sempre gli ingredienti giusti , il giusto ritmo, e la centralità , oserei dire l’ambiguità della donna, ossia il miele di Tokio. Al centro di ogni suo racconto c’è infatti una donna giapponese ( “Per me la donna è tutto”), che l’autore vede come centro dell’universo, un motore di vita oltrechè ideale artistico. La donna ha sacrificato ogni cosa, ideali compresi , per la famiglia, per l’umanità, ma attenzione, la donna di Pompilio non è un modello di perfezione morale. Anzi. Sotto questo profilo non è per nulla un tipo raccomandibile, perchè a fronte di un aspetto angelico , da Beatrice dantesca , unisce un’anima che va verso il demoniaco ed è proprio questo misto di celeste e tragico che la donna racchiude, in particolare la donna giapponese , che attrae lo scrittore salentino. Al pari di molti mistici egli vorrebbe fondersi con l’oggetto del suo amore, ma ha delle visioni che lo mettono in crisi perchè egli vede un’unica donna che gli appare come madre, moglie , figlia e prostituta e tutto in lui rischia di confondersi.
Augusto Benemeglio