La luce dei lampioni si riflette morbida sull’acqua nera del canale. L’aria, immobile e tiepida, sembra avvolgere tutto in un manto di colori diversi. E quest’aria ha un odore diverso.
Socchiudo gli occhi e quell’odore diventa ancora più forte, quasi metallico. Provo a inspirare piano ma l’odore non sparisce.
Pian piano le ombre diventano più nette, si formano immagini sull’acqua, il silenzio della notte non sembra rotto neppure dallo sferragliare del tram. Anche lo sciabordio dell’acqua nel canale si perde in lontananza.
In quel silenzio innaturale resta ancora nitida l’immagine della stazione. Il rombo cupo mi ronza ancora nel cervello, rumore di ferro e voci amplificate. Troppo ferro. Troppa gente. Fiumi di gente che scorrono sui marciapiedi, si mischiano, mulinano fra le edicole dei giornali, si diluiscono un poco solo nel grande atrio, forse per via dei negozi dove la gente rallenta, si ferma a guardare le vetrine.
Proprio alla stazione ho percepito per la prima volta quell’odore metallico, sconosciuto.
Ora gli odori, i colori, le scritte, i rumori, mi avvolgono, si srotolano attorno a me incomprensibili, troppo diversi o troppo grandi per i miei diciotto anni e di cui, senza un motivo preciso, ho paura. Come corpi estranei mi riempiono il naso e la gola mentre vengo trascinato dalla folla, e mi seguono ancora sul tram e sui viali della periferia.
Ed ecco la casa di mio cugino Francesco Licodia. Una casa piccola, linda, moderna.
C’è una stanza, in quella casa, già preparata per me. Per i primi tempi, mi dicono. Una stanzetta piccola e ordinata. Un lettino a muro, un armadio basso, un piccolo tavolo, una sedia. E anche qui c’è lo stesso odore strano di metallo, plastica, vetro.
La moglie di mio cugino, Lidia, è piccola, magra, con un viso grazioso. Mi guarda strano, quasi fossi arrivato da un altro mondo e parla troppo, anche mentre si cena. Chiede di tutto e di tutti, del mio paese, della campagna, di parenti acquisiti che avrà visto si e no un paio di volte, di posti che avrà visto solo in cartolina.
Ti piace? l’ho fatta per te, sai? Ti piace? Ci metto l’uva passa. Ci sono i pinoli.
Con la bocca piena annuisco e ringrazio della caponata e degli involtini che lei ha fatto apposta per me, anche se un retrogusto indefinibile si mischia a quella caponata e agli involtini. Forse per via dell’acqua, dell’aria o di quell’odore metallico che impregna ogni cosa. Oppure perché non li sa fare.
Quell’odore mi accompagna mentre vado girando da solo per le vie sconosciute del centro, con gli occhi in aria, tra guglie, palazzi e gallerie.
A volte mi viene da piangere e mi dico stupido. Devo essere contento, invece. E’ bello, qui. Anch’io devo essere diverso, sentirmi europeo, sparare al telefonino quel po’ d’inglese che conosco e salutare in fretta con una raffica di cià-ciàciao, come fa la gente che passa correndo. Dovrò essere nuovo come quegli odori, come mio cugino Francesco, come la Lidia.
E devo far tacere quel qualcosa che mi rimbomba in testa, quell’eco di frasi e di rumori noti, di parole ovattate che mi ronzano dentro, di richiami e di silenzi; un eco che proviene da lontano, dalla mia campagna, quasi da un altro mondo. E, soprattutto, devo fermare quel vortice, quella sensazione di vento freddo che mi gela la fronte imperlandola di sudore, anche se l’aria è immobile e calda.
Mi allontano dal centro verso la zona degli affari. Cammino con gli occhi puntati ai palazzi di vetro su cui si riflette il cielo con gli ultimi colori del tramonto: sono belli quei palazzi, così grandi e lucidi. Lascio scivolare lo sguardo sui parcheggi pieni di macchine lustre e sulle targhe d’ottone dei citofoni, pieni di pulsanti come fisarmoniche. Oh sì, sono belli quei palazzi di specchi: saranno pieni di gente con la macchina lustra, la moglie carina e una casa linda e moderna. Altro che pietre malamente incollate dalla calce, muri scrostati, rosi dai rampicanti, come al mio paese.
Da lunedì vita nuova. Lavorerò in uno di questi palazzi, so già quale; è una fortuna di questi tempi, la devo a mio cugino. Proprio una fortuna. Anche il palazzo in cui lavorerò da commesso è di vetro e specchi.
Dalle vetrate di cristallo, infuocati dagli ultimi raggi del sole si riflettono le chiome verdi degli alberi del viale e per un istante quei parallelepipedi di vetro diventano verdi e somigliano quasi alle case del mio paese, quelle in collina, con la facciata ricoperta d’edera. Ma qui, fatti due passi, il verde scompare. Restano solo i riflessi delle macchine parcheggiate e, se mi avvicino un poco, c’è il mio riflesso, piccolo e lontano. Per questo adesso cammino a testa bassa evitando di guardare i palazzi. Mi sembra quasi che quei giganti di vetro mi guardino con sufficienza: da lassù mi vedranno piccino piccino, se mi vedranno.
E’ già sera, taglio per il centro e cammino per vie sconosciute tra vetrine e luci, scansando macchine e tranvai.
Ed ecco, quasi inaspettata, la Stazione: salgo la lunga scala, m’incuneo fra la folla, voglio risentire quegli odori che mi hanno seguito tutto il giorno. Ed eccoli: distinguibili, precisi: odori di pietra e ferro, odori di fretta, odore di treni.
Perché resto assorto, appoggiato ad un pilastro, come in attesa? Perché cerco e leggo nel tabellone degli orari il nome di una Città e mi avvio al binario?
Un treno è fermo: attorno si affaccendano operai con muletti elettrici pieni batterie preparandolo ad un nuovo viaggio.
Mi avvicino all’ultima carrozza e tocco il ferro, viscido di grasso e polvere. Fingo di allacciarmi una scarpa e intanto aspiro l’aria che esce dal portello aperto: odori di disinfettanti, di stoffa, plastica e metallo. Odori d’olio e di vernice.
Traffico ancora con la mia scarpa sul predellino e aspiro più forte: dall’interno della vettura escono sempre i soliti odori di disinfettanti, stoffa, plastica, metallo, ma socchiudendo gli occhi mi sembra di sentire, in mezzo agli altri, un tenue profumo di gelsomino.
Enzo Maria Lombardo