Letteratura: “Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni”


Caro Giuseppe (*), trovo bellissimo  quel  tuo titolo simbolico,  “Gallipoli,  periferia  dell’Impero”, che mi ricorda un po’ Kafka (il messaggero dell’imperatore, ma anche il cavaliere del secchio), Calvino ( le città invisibili, la poesia dell’invisibile) e la poesia del nulla di Lucrezio, fatta di granelli di polvere che turbina-no in un raggio di sole in una stanza buia.
La città di Gallipoli, la “mia” città di elezione, è sempre stata avara con i suoi figli più nobili e meritevoli, ma non è un titolo  esclusivo,  basti  pensare  a  Nazareth.  Ci  sono  delle  ragnatele,  diceva  Lucrezio,  che  ci  avvolgono  senza  che  noi ce ne accorgiamo, ci avvolgono  mentre  camminiamo,  mentre  viaggiamo  nel  mondo  dei  sogni,  mentre respiriamo.
Dietro la Gallipoli  “Rosa Azzurra”,  da  te  mirabilmente  descritta  più di trent’anni fa,  nelle sue scansioni, nei  suoi  riti,  nei  suoi  canti, nelle sue feste   e  nelle  sue  leggende,  c’è una sorta di gigantesca  Aracne  ovidiana  dalle  dita   agilissime   “nell’agglomerare   e  sfilacciare  la  lana,  nel  far  girare  il  fuso,  nel  muovere  l’ago  da  ricamo”,  ma  che  ad  un  tratto  vediamo allungarsi in esili zampe di ragno e mettersi a tessere ragnatele che ci avvolgono, che ci imprigionano, inevitabilmente, ineluttabilmente. Tu, come altri prima di te, sei vittima di tutto ciò, amico mio. Ma hai quel dono straordinario della pertinacia, della volontà di resistere, della fiducia  nell’ottimismo,  nella  perseveranza,  nella  speranza  che  le  cose  possano  cambiare,  nonostante  tutto.  E  possano  trovare  la  loro  perduta  “leggerezza”  (oggi  viviamo  davvero tempi di estrema pesantezza, direi di cupezza, in cui non sembra esserci nessuno spiraglio se non quello di avere un futuro da “buco nero”). Questo tuo rincorrere il sogno  della  leggerezza  mi  ricorda,  sotto  certi  aspetti,  – anche  se la tua tempra virile e il tuo innato pudore tendono a negare tutto ciò, – la rarefatta consistenza di una poetessa come Emily Dickinson (“Un sepalo ed un petalo e una spina/ in un comune mattino d’estate,/ un fiasco di rugiada, un’ape o due,/ una brezza,/ un frullo in mezzo agli alberi/ e io sono una rosa!).
Che dirti, amico mio? Il tanto invocato rinascimento gallipolino, che per certi aspetti sembrava avessimo iniziato proprio noi alla fine degli anni 1970,inizio 1980, quando l’Italia era sotto una cappa di piombo , – con il concorso “l’uomo e il mare”  e tutta una serie di iniziative annesse (presentazione libri/mostre d’arti figurative e poi convegni/dibattiti/teatro/ e altre manifestazioni di vario genere che non gravarono mai sul bilancio dei contribuenti e quindi neppure sulle casse, perennemente vuote,  del Municipio) , –  in realtà  non è mai avvenuto.
Siamo rimasti agli antichi fasti dei Coppola, dei fratelli Briganti, dei Ravenna, dei Castiglione, di Antonietta De Pace, Patitari ed Emanuele Barba, (cito i primi nomi che mi vengono in mente) a cui possiamo aggiungere i tuoi amati Vernole e Luigi Sansò. Stop.
Che cosa è rimasto del nostro piccolo mondo di falsa “gloria”?  Nulla, forse solo un sogno di mezza  estate.  Del  resto,  diceva  Shakespeare,  “noi  siamo  della  stessa sostanza di cui son fatti i sogni”. E tuttavia, di tanto in tanto, affiora in me quella malinconia compatta e opaca, quel velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un pulviscolo   d’atomi   –   come   scrisse  Calvino  –  “che  costituisce  forse  l’ultima  sostanza  della  molteplicità  delle cose”.
Ma  anch’io  sono  stato  –  come  autore  di  cantafavole , storie,  storielle  e  storiacce  -,   un  parto di quella Gallipoli ormai sparita. E questo non potrò mai dimenticarlo, anche se vivessi cent’anni e non rimettessi mai più piede nella “città bella”  (e  la  cosa,  purtroppo,  è molto probabile) . Ma   anche  se  non  dovessi  più rivedere quel mare di sale greco, continua fonte di stupori e meraviglie, provo sempre una sorta di commozione cosmica a quel rito celebrativo che è il tramonto gallipolino, a quella sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo di una luna leopardiana, che s’affaccia sul mio balcone del quarto piano di viale Europa. (“Dolce e chiara è la notte e senza vento/e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna, e di lontan rivela/ serena ogni montagna”).
A Gallipoli – lo so – ci stanno anche le “Macare”, le streghe che volano di notte sui manici di scopa, o sui remi delle barche addormentate nel Canneto, e che fanno un “sabba infernale” ogni volta che qualcuno osi alzare la cresta, ci stanno le ossessioni, gli incatenamenti della storia, le invidie, le gelosie  che  tutto  paralizzano,  che  interrompono  qualsiasi  possibilità  di  crescita  e  di  progresso,  che  addormentano  tutto – anche le coscienze e le cose essenziali – in un lungo sonno di morte. Ma c’è sempre la speranza (la tua e di qualche altro spirito  innamorato  della  favola de “L’Isola della Luce”)  che  in  un  batter  d’occhio,  un  pensiero fuggente ,  un’ala  d’angelo,  tutto possa modificarsi ,  e  riuscire a inserirsi  velocemente nello spazio fra la domanda di un futuro e la risposta da “buco nero”, in uno spiraglio di luce, in un spirar lieve di vento… una brezza silenziosa e leggera.

Augusto Benemeglio
Roma, 2 gennaio 2021

*Giuseppe Albahari, vecchio storico,  scrittore,  e cronista della “Gazzetta del Mezzogiorno”

 

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