di Enzo Maria Lombardo
Seduta al tavolo centrale della grande cucina Margherita guardava lo splendore degli utensili e delle macchine poggiati sui ripiani di maiolica decorata che circondavano il locale. L’inebriavano i bagliori di acciaio che l’impastatrice, l’affettatrice, il mixer, la bilancia e il grande frigorifero a due porte lanciavano per la stanza. Vibrazioni inconsuete che non trovava negli altri locali della casa: pizzicori inebrianti che formavano dentro di lei qualcosa di inesprimibile che somigliava alla felicità.
Quella cucina era la sua creatura, era viva, lucente, l’aveva voluta così ampia e bella per creare le sue opere, come le definiva, le sofisticate elaborazioni di vecchie ricette o le invenzioni di nuovi piatti con gli accostamenti più azzardati.
E in quel firmamento di scintille amava perdersi, il pomeriggio, prima di mettersi ai fornelli: seduta al tavolo cercava di solidificare idee, comporre accostamenti, sentire il gusto di salse e ripieni immaginati.
Quelle opere erano sempre riuscite. Non poteva temere nulla per la cena di quella sera. Era la festa sua e del suo Matteo. Quarantasette anni insieme. L’ultima festa di anniversario, bellissima, era stata quella che aveva organizzato per i suoi settant’anni. Nessun ristorante, nessun catering. Non l’avevano spuntata i figli e le nuore, non gli amici. Qualcuno, quella sera, tentò di toglierle una pentola dalle mani: è la tua festa, oggi, non devi lavorare, ti affatichi, fammi fare a me: no, non mi affatico, aveva detto, non capisci, mi piace cucinare, quando creo mi diverto.
Che lusso, quella sera, che splendore di posaterie e tovaglie! E che menu!
“Oddio, il menu! Anche stasera è importante il menù!” – disse guardandosi attorno, quasi a voler trovare ispirazione dai bagliori metallici delle sue apparecchiature.
“E’ importante il menù” – ripeté alzandosi e girando attorno al tavolo – “Certo che lo è! Un menù che si rispetti non deve avere grandi contrasti di gusto tra i piatti, occorre armonia, anche nei colori, nelle forme. Ma non deve neppure essere piatto, banale. Non guasta qualche tocco estroso, nuovo, una pennellata di sapore diverso, una nota dissonante, senza strafare, quanto basta per gustare l’armonia dell’insieme”.
E, avvicinandosi all’enorme frigo, appoggiò la schiena ad una delle sue due porte, quella con il dispensatore di bevande, e disse pensosa:
“Sì, il menù è importante, ma occorre anche pensare ai commensali”.
Il luccichio degli utensili sembrò aumentare d’intensità, confermare le sue parole, e lei proseguì:
“Marco, ad esempio, è sensibile ai gusti forti: da quando bazzica negli Emirati se non c’è paprika e un mare di altre spezie non gli sembra neppure di mangiare. E’ stato condizionato da Malika. E Giulio, il nostro povero Giulio, imbastardito dai gusti forti del Sud, quelli di Anna. E già, a Siracusa non sanno fare altro che fritti, soffritti, e poi aceto, crudo, cotto, cipolle, pinoli, uvetta e acciughe dappertutto! Si è ormai dimenticato delle nostre cose, non gusterebbe più i nostri plin al barolo, le torte di verdura, i morbidi sapori dei nostri bolliti con la mostarda…”
“E allora?” – disse allontanandosi dal frigo e rivolgendosi all’impastatrice – “Di solito invento qualcosa che sappia di Medio Oriente e di Sicilia. Anche se… anche se… beh, a dire la verità io lo sento come un tradimento: per questo nelle mie ricette insinuo sempre qualcosa che richiami i sapori della nostra terra, il sapore dei funghi, ad esempio, dei tartufi, delle nocciole, del vino buono.
“Lo faccio anche per te, sai.” – disse più forte per farsi sentire dalla stanza attigua – “Anzi lo faccio soprattutto per te, Matteo, che sei così attaccato ai vecchi sapori del Piemonte”.
“Tu, caro mio” – proseguì staccandosi dal frigo – “non ti sei mai rassegnato a veder traditi i gusti delle Langhe. Se mai c’è stato uno screzio tra noi è stato per questi miei piatti imbastarditi che ho dovuto inventare io quelle rare volte che ci vengono a trovare Marco e Giulio con le mogli. Sfòrzati, ti ho sempre detto, fallo per la loro pace domestica, per il loro equilibrio coniugale, tanto è solo per una sera, che ti costa? E intanto ero io, quelle sere, a sforzarmi di mescolare sud e nord, oriente e occidente. La verità è che non volevo disgustare le due nuore, ecco perché! Temevo che non venissero e le nuore sono importanti quando si hanno figli maschi… Insomma avevo paura, capisci? E anche tu ne avevi, caro il mio Matteo, non mentire alla tua età, non sta bene!”
Margherita fece il periplo del tavolo, accarezzò il leggìo con le ricette regionali del Piemonte, sedette di nuovo cercando ispirazione dal volume satinato. Non lo prese, gli bastava guardarlo.
“Matteo” – gridò con la sua voce ancora chiara e forte – “Matteo, sai una cosa? Stasera no! Questa è la nostra sera, la nostra festa, forse Marco, Giulio e le loro donne neppure verranno. La nostra festa coincide spesso con impegni urgenti dell’ultima ora. E io, questa sera, farò un’eccezione proprio per te: non preparerò piatti imbastarditi, sicuro, non metterò solo una pennellata di Piemonte. No, no. Salse, ripieni e contorni avranno tutti e solo i profumi e i gusti della nostra terra! Sei contento, amore mio? No? Come no? Ho sentito un sospiro: cosa stai pensando? Ti preoccupi ancora per Anna e Malika?
Margherita si staccò dal frigo, divenne pensosa, fece strisciare una mano sulle labbra, socchiuse gli occhi, assorbita da un’idea che le attraversava la mente. Disse:
“E va bene, ma le frego io, quelle due! E’ tutta questione di forma, di pura forma, caro Matteo. Guarda un po’!”
E, così dicendo, prese un grosso notes che teneva accanto al leggio delle ricette, si sedette e cominciò a scrivere, declamando ad alta voce:
“Bocconcini di Dubai di carne cruda”. Credimi, Matteo, a Dubai sarei lapidata per questa ricetta: sentirai il sapore della carne cruda tagliata a mano sul tagliere, sentirai, discrete, quasi nascoste, le note del formaggio grana e del Dolcetto d’Alba. E poi: “Pasta ccà triaca alla beduina”, ma di siciliano e di beduino ci sarà veramente ben poco nella mia minestra di tarjarìn e fagioli di Cuneo! E ancora: “Stufato di carne al vino dei Nebrodi e spezie d’oriente”. Beh, quando lo assaggerai non lasciarti scappare che somiglia tanto a un brasè al barolo. Perché lo sarà. E poi, e poi…”
“In fondo, Matteo caro, alla nostra età, almeno per il nostro anniversario, possiamo anche scherzare un poco, non credi? Le faremo fesse, quelle due. E Marco e Giulio capiranno, io li conosco, saranno i nostri complici, stasera. Lo so.”
* * *
“Poco fa ha telefonato Anna. Me lo sentivo che non sarebbero venuti! Ha detto che stasera vanno a teatro insieme tutti e quattro perché c’è una cosa che non vogliono perdersi e poi i due fratelli si vedono così di rado… verremo un’altra volta, ha detto Anna, non ti affaticare, tanto oggi è giovedì, ci vediamo sabato, forse. Così staremo un po’ insieme, magari poi andiamo al ristorante… Insomma le solite cose, le solite scuse. Certo non hanno collegato il mio invito con l’anniversario. Neppure ricordano la data. Sono giovani, loro, hanno altro per la testa. In fondo è il nostro anniversario, mica il loro”.
“Va bene, lo scherzo è sfumato ma non il menù! E sai che ti dico, Matteo? forse è meglio così. Stasera saremo soli e tutti i miei piatti potranno avere il loro vero nome: Carme cruda alla piemontese con olio, limone, una punta di senape e lamelle di grana; Tarjarìn e fagioli di Cuneo; Brasè al barolo… e, per finire quel dolce di Cortemilia che ci hanno regalato, quello alle nocciole tonde e gentili delle Langhe che ti piace tanto.”
“Non spignattare, mi ha ripetuto Anna al telefono, chi te lo fa fare? Goditi la vita, c’è un bel telefilm alla tivù. Un telefilm! Anna finge di non sapere che la tivù mi annoia, che odio i telefilm, che io mi diverto in cucina e che i profumi che escono dalle pentole, dal forno, mi fanno sentire bene, mi fanno sentire ancora viva. Non importa. Stasera cucinerò solo per noi due, caro.”.
“Matteo” – gridò affacciandosi alla porta della cucina – “Ti fa piacere stare in cucina e guardare mentre preparo la cena? Io non ho segreti per te. Adesso lavoro la carne al tagliere e faccio l’impasto con qualche goccia di limone e olio e una lacrima del nostro dolcetto. Deve marinare un poco, sai? Abbiamo tutto il tempo per stare insieme, parlare, magari sentire un po’ di musica alla radio, sono solo le sei e mezzo…”
Margherita si alzò, uscì dalla cucina e ne ritornò subito dopo portando in mano il ritratto del suo Matteo in una grande cornice d’argento che pose sul tavolo centrale.
“Eccoti. Ti piace guardarmi mentre lavoro, vero? Oddio, sono in tuta e grembiale e questi capelli… Mi trovi sempre bella, dici? E se stessimo a cenare qui, in cucina? Qui c’è caldo, Matteo, fra poco la cucina sarà tutta un profumo, potremo spegnere la luce e lasciare solo due candele: vedrai quante stelle si rifletteranno su bottiglie e bicchieri e si rincorreranno nel nostro piccolo cielo…
Enzo Maria Lombardo
Ohlallà Enzo! Pathos gastronomico ed umano se mi permetti l’espressione. A metà lettura, avevo il presentimento che sarebbe finita male e sono stato fregato. Beh anche se non mi hai fatto fare salti di gioia, la sorpresa l’ho avuta ugualmente. Il quadro è fresco e scorrevole, Matteo è vivo anche quando Margherita arriva con il ritratto incorniciato. È la nostra mente, il nostro “animus” che crea ilmondo che ci circonda.