A cura di Augusto Benemeglio
Parole vive.
La nostra vita di tutti i giorni è tarata sul disincanto e cose come la compassione sono merce scaduta. Per questo quando s’incontra una voce pura e una bella anima come Giuliano D’Elena, uno che da sempre cerca brandelli di cielo perfetto ( guardate “Davanti all’infinito”, leggete il suo sguardo, e i suoi libri , meditate sulle sue parole) pur nel grigiore assoluto che ci sovrasta, non la si dimentica più, anche se fosse per un solo attimo, un istante che diventa decisivo. Ma io con Lui ho vissuto e condiviso intensamente anni e anni di lotte , illusioni e sconfitte in nome della cultura, dell’arte e della poesia, la bellezza che salverà il mondo, come spesso amava dire don Tonino, grande anima salentina e nostro insuperato maestro dello Spirito. Giuliano è uno che cerca valori forti e inscalfittibili , pur nella dismissione , nel crollo, nella liquidazione di ogni cosa del vecchio mondo occidentale, anche della nostra martoriata storia da periferia dell’Impero. Con lui nella banda dell’Uomo e il Mare di quei favolosi anni ’80 non più musiche opache che si mordono la coda, né cristallini poemi di parole dette di riflesso, ma parole vive, parole in divenire, offerte al coraggio di essere tutto, di osare tutto; parole strappate alla muffa e alla pietrificazione della trita usanza quotidiana, parole che vanno “oltre”.
L’ora d’oro
La prima volta che c’incontrammo, più di trent’anni fa, fu al Lido San Giovanni di Gallipoli , alla presentazione del libro “La Rosa azzurra” di Giuseppe Albahari, che aveva all’interno le sue preziose illustrazioni, da Mesciu Pici alla piccola Maria del miracolo della mammella di Sant’agata , sanguigne che ho visto per tanto tempo appese alle pareti dello studio dello “storico”, mitico cronista della “Gazzetta del Mezzogiorno” ( in Giuliano c’è sempre stata un’idea di spettacolo, una fiction, che è uno spiraglio di bellezza dietro qualcosa che è in realtà solo angoscia, preoccupazione, sofferenza) , e subito si fece percepire , chiara, /la sospensione della sorte/ ch’era riflessa nella mia retina, / la sua immagine dipinta/ di guerriero timido / che cattura l’istante. In realtà noi ci conoscevamo da sempre, lui era nell’occhio sinistro di San Francesco ,che avevo visto alla Basilica Superiore d’Assisi, a tre metri d’altezza; lui era il Cirano di Rostand che non scrive un solo rigo che non sia la sua vita, la sua voglia di trascendenza, la vita evasa da una prigione di angosce quotidiane, tutte tessere incendiarie di un mosaico di un’esistenza unica , piena di meraviglie incancellabili: dal fulgore del grano di luce al tuono che percorre la pianura, alla notte oscura del cancro, (la forza è fedeltà, il potere è obbedienza, nulla termina in sé, un tutto è ciascuno in un altro tutto, in un altro uno), abbiamo sempre corso analoghe simmetrie. Anche lui mi guardava oltre la torre dei gabbiani di Luigi Sansò e forse mi rammentava? In quel momento creava me o era da me creato? L’una e l’altra cosa./Lui aspettava l’ora d’oro,/ la sua dimora ch’era l’altro da sé, / aspettava l’ora incontrastata /in cui l’opera e il pensiero erano la stessa cosa.
La barba rossa
E il tempo bruciava in quella incandescenza ch’erano le sue mani bianche, fini, femminili , che si facevano pennelli, senza mai consumarsi; tutto in lui ardeva come un fuoco di timidezza e di passione , e si trasmutava nell’identica sostanza del quadro, che stava nascendo e ora vedevo sul cavalletto nel suo studio di via Libertini , a Taviano, dove sono stato poi un’infinità di volte, sempre uscendone rinnovato: ecco “L’urlo” che non è quello di Munch, perché è di una donna bellissima che ha la stessa eleganza estetica e cromatica dell’autore ,lo stesso viso svevo o normanno, ma se indaghiamo un po’ più a fondo vediamo che la sua bocca è una stilizzazione vulvare , un grido silenzioso che si espande come l’eco di onde sonore , e ti arriva dentro, ti fa vibrare, scuotere, tremare. Ed è come la barba rossa di Giuliano che si stanzia nell’area di rigore del quadro e si fa assedio , manto, bosco, radura , cielo fiammeggiante per cogliere il senso del gioco giogo del reale , il segreto della vita, l’eternità dell’ora, divorando quietamente l’attimo stesso in cui diastole e sistole fanno esultare il tuo cuore ( “Bianco-calce abbagliante/e tu turchese/ ti proponi mare di giochi/tra gradinate di latte,/di luce,/di sole/ bianco-calce abbagliante”).
Uscita provvisoria
“Di che è mancanza questa mancanza di cuore, di cui a un tratto ne sei pieno?” Ed ecco che rotta la diga t’inonda e ti sommerge la pietà di te, dell’altro te stesso che ora ti viene incontro , forse viene oltre te, senza parole, un richiamo muto che ora agonizza e non ascolta più. Ma c’è chi custodisce la tua forza e il tuo canto, la musica perpetua , il requiem che fanno tutti questi suoi quadri morti, “Gli indifferenti”, “Ipotesi di ritratto”, L’angelo asessuato”, e “Uscita n. 7” ( Giuliano fa spesso uso dei numeri cabbalistici come questo: ci sono sette sefiroth al di sotto dell’Abisso, sette colori dell’arcobaleno, le note musicali, i giorni della settimana e della Creazione, sette stelle dell’Orsa Maggiore e le emanazioni del potere del logos platonico, sette gli uomini celesti del Veda , gli stati di attività, le trombe da suonare, sette sigilli e gli angeli velati, sette i doni dello Spirito Santo e i peccati mortali) , tutti personaggi che sono in attesa di una liberazione definitiva dalla materia . Ma perché mettersi a dipingere questi quadri “oscuri”, fatti di numeri e cadaveri luminosi?, perché mettere questa astrusa complessità al centro del mondo? Che senso ha? Giuliano sa che non c’è chiarezza se non nel grembo dell’oscurità, non c’è ordine se non ai margini del caos. Per entrare nella zona della verità, non devi capire, ma solo intuire, devi saper muoverti nelle zone oscure, arrampicarti alle soglie del dubbio, stare in bilico appeso a una tela di ragno, entrare ai margini del caos , e farlo con pudore, e poi aspettare l’uscita da “Clandestino” che non è mai definitiva, ma solo provvisoria.
Coltivare l’utopia
Il mondo è pieno di gente in gamba , ma i creatori veri sono pochi, sono rari. E lui, Giuliano D’Elena, con tutte le sue idee non sempre facili, lineari, comprensibili, è uno di questi perché inventa mondi che non c’erano prima di lui, inventa dal nulla un’idea di spettacolo, un corridoio di ingresso a una vita nuova, scocca una scintilla , un istante fulminante di meraviglia , una speranza assurda, completamente folle , facendo diventare vecchie tutte le cose . E’ un “Incontro”, un “Paesaggio”, una “Ultima spiaggia” , uno spazio-esperienza che cristallizza mille tempi diversi , e mondi, e materiali, e colori, incubi, mestieri, idee, fantasie, aranceti, muretti a secco, incroci, specchi e vetri infranti, echi arabi e bizantini. E tu ci sei dentro quei quadri , sei da un sacco di parti, magari per un istante, ma sgranato nel grembo dei secoli . Se il mondo è reale , la parola è irreale. Se la parola è reale, il mondo è la crepa , lo splendore e il gorgo. Amici, – dice – bisogna pur stare a coltivare qualche utopia , se no diventa tutta una questione di mercatino delle vanità, bricolage dell’anima, sfida sportiva su e giù per le classifiche, roba da bar , da gare gastronomiche alla tivù, quotidiana partita a dama con la meschinità collettiva.
Il dramma è Dio
Ed ecco , in questo gioco di memorie a incastro, Giuliano che mi porta l’immagine del mio primo dramma, “ Il Caso Gesù”, che verrà messo in scena da Franco Piccolo al Castello di Gallipoli. Era una sanguigna-reliquia , era il suo stesso volto, e aveva un gran fuoco dentro la mitezza del sorriso, e il vento di tramontana che faceva delirare i capelli rossi. Com’è la vita di un uomo alla soglia dei settant’anni che è diventato grande, guadagnandosi non dico l’ammirazione, che è il meno, o la fama, che è nulla, ma il rispetto; cosa ha fatto tutti i giorni della sua vita per riuscire alla fine a guadagnarsi il rispetto? Tornerà un giorno il suono della sua arpa eolia , e del cembalo sonoro , ritornerà il flauto magico , e il fiato di Gesù Cristo che è sparso in tutti i cieli, nelle galassie, sulla terra, tra gli alberi i fiori i sassi e le ortiche della terra. Dice padre Turoldo che Dio crea continuamente, popola gli spazi di astri, colma gli abissi del Nulla, perché se sospendesse un solo istante di pensare, se sospendesse un solo istante di respirare, ecco che quel Nulla ci inghiottirebbe. Anche quel Dio però è un Dio in pena e noi siamo il suo dramma. Ma anche lui è il nostro dramma, un dramma misterioso e assoluto amore. Senza di Lui noi siamo sempre più disperati e perduti, e senza di noi, Egli sarebbe un povero Dio solitario e inutile. Infatti la sua vera onnipotenza non consiste nell’averci creato e nel creare sempre, costantemente, ma nel riuscire a perdonarci, nel continuare a perdonarci e rifare monde tutte le cose. Non esiste amore più grande di questo.
Riva d’Ugento
Son passati tantissimi anni, e non ci siamo accorti di questo nostro destino di prigionieri delle ombre mascherato di libertà. Bisogna tornare indietro ,indietro, nello spazio, nel luogo, sulla Banchina Lido dov’è il fango, il giardino, il profitto, il paradiso. Ma anche il deserto, il naufragio , come nella copertina del libro che disegnasti per il mio dramma omonimo. Se torni indietro, e cartensianamente fai tesoro dell’esperienza e ti aspetti di ritrovare un mondo che ormai conosci , non trovi più niente. Niente. Le cose che vedi sono apparentemente le stesse, ma cliccando nei meandri della memoria, non c’è più niente, non più il porto, né barche, né pescatori , neppure la città, disonorata, oltraggiata; ti trovi solo in un mare di fango, e c’è un uomo che cammina , un omino sperduto, sospeso nel vuoto . Ora lo vedi nitidamente, lo riconosci: sei tu , che cammini tra le nuvole , entri in una misteriosa porta comparsa all’improvviso, questa è la volta buona che vedo l’anima , ti dici, e invece esci su una spiaggia deserta , sabbia e mare, e vento di tramontana. Prove tecniche di futuro: è la riva d’Ugento ( “Mi affascinano /i lunghi meriggi/quieti/soffocanti/ed immobili/ dello Jonio in calore:/sinfonie di vita/tra macchie di canne/ di un brillio senza fine”), e il Villaggio Robinson, siamo con Tonino da Barletta e Augusto da Nughedu, un pugliese e un sardo tra i turisti tedeschi, due clown emigranti italiani che fanno i maccheroni e sventolano bandiere e striscioni gialli e neri , e fazzoletti bianchi da far brillare nell’aria, a mano aperta, in alto a salutare i paisà, o trovare un pezzo di prato per mettersi in ginocchio e pregare San Nicola e Santo Efisio. Bisogna imparare a difendere la gioia delle libertà, bisogna trovare il tempo e il coraggio di fare una carezza, diceva don Tonino, bisogna creare una sinfonia di tenerezze , imparare a fare una musica bianca, di silenzio.
Geremia Re e la Biennale d’Arte
Ma ecco che ora siamo in Piazza Sant’Oronzo , a Lecce, a bussare alla porta di casa del maestro Geremia Re, uno dei più insigni del Salento con la sua ansia della ricerca di una dimensione di vita povera e onesta, con quella nebbia memoriale struggente dai contorni sfocati e sfuggenti per la perdita d’identità di un popolo umile orgoglioso e fiero. Viene ad aprirci la vedova, Buongiorno, sono Giuliano D’Elena , il Direttore artistico della prima Biennale d’Arte di Gallipoli. Saremmo onorati di avere qualche opera del grande Geremia Re. Già hanno aderito Gino Gabrieli, col suo colore disteso su spazialità indefinite, e poi Antonio Palese, con le sue ninfe appena nate dalle spume del mare, come Venere, e Aldino De Vittorio, con le sue mani e braccia nodose da ulivo vivente, bruciato dal vento. Ha l’arte il potere della sospensione? E’, o rammenta? Esce o rimane chiusa in se stessa?. Ci porterà con sé o sarà portata? Non sembra che possa esserci risposta alcuna , ma l’oro del cuore conosce cose che la ragione non sa, come disse Pascal. È quella la più vasta sapienza che va oltre ogni intermittenza di fiducia, di cui l’arte è testimonianza. L’arte è bellezza, sarà causa anche di salvezza? Sarà il fondamento delle nostre attese?, è quella che scioglie il nodo delle differenze, che mette insieme l’alba e tramonto, il canto e il silenzio, l’eternità e la pienezza della vita. E’ qui tutta la luce a ritroso, che è filtrata nel tacco d’Italia , una lunga storia che si cela dietre le ombre grinzose della memoria e della misericordia. Ma bisogna riempire di luce e di calore le caverne delle tue mancanze di carità e giustizia , di storie senza storie, solo questo andare conta in ritmi e in fibra canora e in volte e archi deserti. Nient’altro. Eccolo il Direttore della Mostra che prende decine di tele e cavalletti dalla macchina, e con lena infaticabile allestisce con le sue proprie mani tutta la mostra. E’ sudato, stanco, disfatto, ma nessuno lo aiuta. Noi stiamo lì a guardare quel bianco fantasma insonne che trova i suoi notturni, come Chopin, rarefatto e struggente, smaterializzato e visionario con una forza ardimentosa, pieno di rivelazioni del momento , un veicolo emotivo pieno di voli , di fiumi e di colori…Lì ci sono denunce per tutti gli indifferenti, i tiepidi della terra che saranno vomitati uno a uno , lì ci sono esplosioni di violenza , droga, sessualità senza freni, lì ci sono condanne dure e spietate per gli orrori della nostra società, per le istituzioni, per gli avvoltoio, gli sciacalli , i ricchi della terra che affamano milioni, miliardi di altri fratelli, lì c’è tutta l’essenza della cronaca e dell’attualità. L’arte deve essere attuale, ha l’obbligo di essere attuale, altrimenti non serve, dice Giuliano.
Diventare umani
La notte ora ti entra in pieno petto e nel piumaggio ti filtra l’argento della vocalità. È il vero cominciamento, sì, è nei sensi che si risvegliano tutti insieme , ora, nel cuore della nostra memoria…che importa la nostra differenza?, siamo fratelli , siamo anime erranti, siamo tutti emigranti che non si separano mai, non sciolgono il loro nodo celestiale. Siamo avviunghiati, abbracciati gli uni agli altri , in un destino comune. Sono questi gli attimi della nostra eternità, Il vero fuoco è quell’implacabile patema, è quel gioco tra cielo e terra nell’immensità, è lo zampillo di purità che schianterà le pietre che lo tiene prigioniero. Vi sono anime che ci fanno credere che l’anima esiste, non sempre queste anime sono le più geniali o le più note, ma hanno uno slancio , un modo mistico di vivere, una linea segreta e stabile della formazione spirituale…sono persone di buona volontà che ogni tanto ti capita di incontrare nel mare magnum dell’indifferenza mediocrità approssimazione insufficienza meschinità, in esse scorgi un riflesso della bellezza immortale, il poema essenziale della vita, l’opera mirabile del creatore.
Diventare umani è faticoso , dice Giuliano. Sappiamo tutti che questo essere che indossiamo nella forma di un uomo ha bisogno di un’intera vita per diventare umano. Ci chiediamo quanto sangue e quante ferite nell’anima bisogna versare prima di convincerci che l’Altro, il diverso il distante l’opposto a noi, che ci è di fronte è nostro fratello? Allontanarsi da se stesso ed entrare in quel
sentiero di musica opaca che sta dentro la luce nell’origine del suono, alle sorgenti della folgore, nell’eco della vocalità, la parola magica che arriva al bersaglio come una freccia …non chiuderti in difesa, nel cristallo della tua innocenza, non ignorare il mondo e le sue scorie le sue bassezze le sue infamie , fa esperienza negli ospedali e ti accorgerai che “Sei indefinito”, ma sei pur un numero 6,ovvero il punto originale, il centro del sistema, sei in grado di fare esperienza viva del tuo presente, sei proiettato nel futuro; vai nella bottega delle conchiglie , e fatti “goccia d’amore” che entra in una di esse , vai sulla spiaggia nr. 2, o nr. 3 , dove siamo tutti clandestini in cerca della Volontà e dell’Amore Spirituale , siamo tutti in maschera , partecipi del Naufragio che è la vita. Le parole si sfanno nell’aria che svanisce; bisogna ricominciare su fondamenti visibili e incarnati all’alba del Verbo. Tornare al Precursore, senza credere al pianto dei falsi profeti, tornare alla perduta divinità che – sola – può restituire la luce del senso e il giusto nome agli eventi. Il mondo – qualunque esso sia – è sempre un atto di fede.
Augusto Benemeglio
Roma, 20 maggio 2014