Luigi Pirandello: Uno, nessuno e centomila


Citazioni tratte da: Uno, nessuno e centomila

La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.

Come sopportare in me quell’estraneo? Quest’estraneo che ero io stesso per me? Come non vederlo? Come non conoscerlo? Come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?

Ci vorrebbe un po’ più d’intesa tra l’uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti… Ma l’uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione. Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara, forse e, almeno quando vuole, paziente. Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.
Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio?

…perché una realtà non ci fu data e non c’è ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.

Ah, il piacere della storia, signori! Nulla più riposante della storia. Tutto nella vita vi cangia continuamente sotto gli occhi; nulla di certo; e quest’ansia senza requie di sapere come si determineranno i casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che vi tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione! Tutto determinato, tutto stabilito, all’incontro, nella storia: per quanto dolorose le vicende e tristi i casi, eccoli lì, ordinati, almeno, fissati in trenta, quaranta paginette di libro: quelli, e lì; che non cangeranno mai più almeno fino a tanto che un malvagio spirito critico non avrà la mala contentezza di buttare all’aria quella costruzione ideale, ove tutti gli elementi si tenevano a vicenda così bene congegnati, e voi vi riposavate ammirando come ogni effetto seguiva obbediente alla sua causa con perfetta logica e ogni avvenimento si svolgeva preciso e coerente in ogni suo particolare…

«Ma sì! Ma sì! Che realtà può essere quella che la maggioranza degli uomini riesce a costituire in sé? Misera, labile, incerta. E i sopraffattori, ecco, ne approfittano! O piuttosto, s’illudono m poterne profittare, facendo subire o accettare quel senso e quel valore ch’essi danno a se stessi, agli altri, alle cose, per modo che tutti vedano e sentano, pensino e parlino a modo loro».

Era lì davanti a me; m’acciuffava con una mano i capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo. Chi era?
Nessun dubbio in lei ch’io lo sapessi, chi era. E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe ch’io fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi pesava sulle ginocchia, fiducioso nell’abbandono che mi faceva di sé, senza il più lontano sospetto che non si desse realmente a me, quel suo corpo, e che io, stringendomelo tra le braccia, non mi stringessi con quel suo corpo una che m’apparteneva totalmente, e non un’estranea, alla quale non potevo dire in alcun modo com’era, perché era per me qual’io appunto la vedevo e la toccavo: questa – così – con questi capelli – e questi occhi – e questa bocca, come nel fuoco del mio amore gliela baciavo; mentre lei la mia, nel suo fuoco così diverso dal mio e incommensurabilmente lontano, se tutto per lei, sesso, natura, immagine e senso delle cose, pensieri e affetti che le componevano lo spirito, ricordi, gusti e il contatto stesso della mia ruvida guancia sulla sua delicata, tutto, tutto era diverso; due estranei, stretti così – orrore – estranei, non solo l’uno per l’altra, ma ciascuno a se stesso, in quel corpo che l’altro si stringeva.
Voi non lo avete mai provato, quest’orrore, lo so; perché avete sempre e soltanto stretto fra le braccia tutto il vostro mondo nella donna vostra, senza il minimo avvertimento ch’ella intanto si stringe in voi il suo, che è un altro, impenetrabile. Eppure basterebbe, per sentirlo, quest’orrore, che voi pensaste un momento, che so! a un’inezia qualunque, a una cosa che a voi piace e a lei no: un colore, un sapore, un giudizio su una tal cosa; che non vi facessero soltanto pensare superficialmente a una diversità di gusti, di sensazioni o d’opinioni, che gli occhi di lei, mentre voi la guardate, non vedono in voi, e come i vostri, le cose quali voi le vedete, e che il mondo, la vita, la realtà delle cose qual è per voi, come voi la toccate, non sono per lei che vede e tocca un’ altra realtà nelle stesse cose e in voi stesso e in sé, senza che vi possa dire come sia, perché per lei è quella e non può figurarsi che possa essere un’altra per voi.

Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci danno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. E vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi danno loro. Nessuno più di me ha potuto farne esperienza.

Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.

– Ah, lei sì; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è più viva.
– E perché?
– Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa.
– E allora io, viva, non mi sono mai veduta?
– Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un’immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un’ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi, lì scomposta, in movimento.
(…)
– Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. E come se avesse davanti, sempre, l’immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede, le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere più perché lei debba avere quell’immagine che lo specchio le rida.

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.

Pensare alla morte, pregare. C’è pure . ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasci nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.

unonessunoecentomilaTitolo: Uno, nessuno e centomila
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Collana: I grandi romanzi
Data di Pubblicazione: gennaio 2007
Prezzo: € 7.00
ISBN: 8817014672
ISBN-13: 9788817014670
Pagine: 204
Reparto: Narrativa

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